Colliri visionari.
In diverse regioni dell’Africa equatoriale è diffuso l’impiego di colliri di natura vegetale o animale con l’apparente scopo di indurre determinate visioni, o di migliorare la qualità della visione. L’applicazione di tali colliri si inserisce particolarmente nel corso dei riti iniziatici dei culti religiosi del Buiti, nei quali i neofiti devono assumere grandi quantità della pianta allucinogena dell’iboga per esperire un profondo stato visionario che permette il contatto con il mondo sovrannaturale degli antenati o degli esseri divini (si veda I culti del Buiti). I colliri sono impiegati anche con differenti scopi, ad esempio quelli cinegetici, per migliorare la vista ai cacciatori e ai loro cani. In tutti i casi in cui lo scopo dell’applicazione dei colliri riguardi un’influenza sulla qualità e sul contenuto della visione, li si può indicare con il termine di “colliri visionari”. Questi colliri sono stati poco o per nulla studiati dal punto di vista fisiologico e farmacologico, e non è ancora chiaro se e come possano indurre un concreto stato visionario a livello del sistema nervoso centrale, o agire meramente sul sistema retinico, accanto a una possibile componente di natura psicologica e culturale (Samorini, 1996a).
Nei riti d’iniziazione del Buiti, gocce di un liquido chiamato ébama o ibama vengono applicate negli occhi del neofita. L’effetto di questo collirio è un’immediata sensazione dolorosa di bruciore agli occhi; quando questa si attenua, la visione è considerata più “limpida”.
I dati etnografici appaiono contrastanti riguardo al momento in cui viene applicato questo collirio, probabilmente espressione di differenze rituali presso le varie etnie e sette buitiste. In certi casi, come fra alcune sette fang, l’instillazione dell’ibama viene eseguita quando il neofita si è risvegliato dallo stato simil-comatoso indotto dalla forte dose d’iboga e dopo avere comunicato le sue visioni agli officianti. Il neofita viene quindi obbligato a guardare il sole (Raponda-Walker & Sillans, 1962, p. 204). La capacità di fissare il sole sarebbe la prova che il nuovo iniziato è ormai in grado di “guardare in faccia la verità senza temerne la sua forza” (Swiderski, 1990, p. 83). Il collirio avrebbe lo scopo di “fare scoprire ai nuovi iniziati i segreti dell’altro mondo nascosti ai comuni mortali” (Raponda-Walker & Sillans, 1962, p. 204).
Nella setta fang Assumgha Enin il collirio viene instillato appena dopo il risveglio del neofita dalla grande visione. Subito dopo l’applicazione, viene fatta passare davanti ai suoi occhi la fiamma di una candela. Il bruciore e la fiamma inducono generalmente la visione di un fulmine (ngadi) (Mary, 1983, pp. 238-9). Più in generale i buitisti fang denominano il collirio ebama ngadi, “ebama di fulmine”, sottolineando l’importanza della percezione del fulmine, che fa esperire personalmente al neofita l’esperienza cosmogonica del fulmine che ricoprì un ruolo chiave nell’origine del mondo, sia colpendo lo stato primordiale informe dell’universo separandolo in due parti (il cielo e la terra), come raccontato fra i Mitsogho (Gollnhofer & Sillans, 1997, p. 128), sia scoppiando dentro all’uovo primordiale in cui si trovava, come riportato nella mitologia dei Fang (Tessmann, 1913, vol. 2, p. 15).
I Mitsogho del Gabon meridionale, che furono fra i primi creatori del culto del Buiti, applicano invece il collirio quando è terminata l’ingestione dell’iboga e prima che il neofita esperisca la grande visione (Gollnhofer & Sillans, 1979).
Nel culto dell’Ombwiri dei Fang -un culto di possessione con finalità terapeutiche che fa anch’esso uso dell’iboga come fonte visionaria- l’applicazione del collirio precede l’assunzione dell’iboga ed è ritenuta provocare una visione: “Fissando il sole, i malati vedono dei cerchi, delle bolle di colore blu. Di frequente vedono una porta circolare e, in uno spazio infinito, intravedono degli uomini vestiti di bianco, con dei cappelli di rafia e una lancia in mano” (Swiderski, 1972, p. 186).
Gli ingredienti con cui vengono preparati questi colliri variano considerevolmente. I Mitsogho impiegano principalmente il liquido ottenuto dallo schiacciamento di un grosso millepiedi rosso (Gollnhofer & Sillans, 1965), e più raramente la linfa dei rami dell’arbusto Costus lucanusianus J. Braun e K. Schum. (famiglia delle Costaceae) (Gollnhofer & Sillans, 1979). Questa medesima pianta è impiegata anche nella setta fang Assumgha Ening, che la denominano con il nome di miane (Mary, 1983, p. 238). Sempre fra i Mitsogho, per il rito iniziatico del misoko Bonhomme (2003, p. 67) ha riportato come formula: linfa di foglie di peperoncino, sapone vegetale mukwisa e foglie di iboga. Raponda-Walker & Sillans (1962, p. 53) hanno riportato una formula ancor più complessa:
- linfa di Amorphophallus angolensis subsp. maculatus (N.E.Br.) Ittenb. ex Govaerts, sin. A. maculatus N.E.Br., fam. Araceae,
- linfa di Aframomum angustifolium (Sonn.) K.Schum., sin. A. sanguineum (K.Schum.) K. Schum., fam. Zingiberaceae,
- linfa di Euphorbia lacei Craib, sin. E. trigona Roxb., fam. Euphorbiaceae,
- scorza delle radici di Mimosa pigra L., fam. Fabaceae,
- semi di Buchholzia coriacea Engl., sin. B. macrophylla Pax, fam. Capparaceae.
Sono tutte piante che provocano sensazioni di bruciore. Il tutto viene messo a bollire in una pentola.
Il potere visionario che possono avere certi colliri è tramandato nel folclore. Un racconto di un informatore fang della Guinea Equatoriale riporta di un ragazzo che non credeva alla stregoneria e che andava in giro dicendo che ci avrebbe creduto solo se l’avesse vista con i suoi occhi. Una donna anziana raccolse allora un’erba, la masticò e ne versò il succo negli occhi del ragazzo. Immediatamente questi vide ciò che sino ad allora aveva negato: la stregoneria (Mbana, 2004, pp. 36-7).
L’impiego di colliri visionari non è relegato ai culti del Buiti, e sospetto che sia molto più diffuso di quanto finora da me individuato.
Restando in un contesto di impiego dell’iboga, presso gli Gbaya della regione occidentale della Repubblica Africana e delle adiacenti aeree del Camerun viene praticato un rito divinatorio con questa pianta, che è denominata gbana. La linfa di Kalanchoe pinnata (Lasm.) Pers., della famiglia delle Crassulaceae -una pianta che gli Gbaya chiamano boul- viene instillata negli occhi nel medesimo momento in cui viene assunta l’iboga nel rito divinatorio. Gli Gbaya affermano che il boul possiede essa medesima delle proprietà visionarie (Sandberg, 1965, p. 15).
Diversi gruppi pigmei impiegano dei colliri per aumentare l’acutezza visiva. Fra i Gyéli del Camerun è lo “stregone” ad applicare agli uomini un collirio nel corso della cerimonia notturna mi-n’ku ta tenuta in onore ai morti (Tastevin, 1935, p. 290). Fra gli Aka della Lobaye, nella Repubblica Centrafricana, il collirio per aumentare l’acutezza visiva dei cacciatori è ottenuto pressando il frutto di Vitex congolensis De Wild. ex T.Durand (Lamiaceae). Alcune gocce del liquido così ottenuto vengono fatte cadere negli occhi del cacciatore: “Questo fa male, brucia, ma dopo si vede meglio” (Motte, 1980, p. 226).
I Bamileké del Camerun praticano un rito iniziatico che ha lo scopo di “aprire gli occhi” mediante l’instillazione di un certo collirio. Il prete cattolico Eric De Rosny sperimentò di persona l’effetto del collirio quando si sottopose a questa iniziazione. Lo nganga Din disse a De Rosny che furono i Pigmei a insegnargli come “aprire gli occhi”. A iniziare il prete fu un altro nganga di nome Madola. La pianta impiegata per il collirio fu identificata all’erbario nazionale di Yaoundié come un’asteracea, Bidens bipinnata (si tratta o di B. bipinnata L., o di Cosmus bipinnatus Cav., entrambe originarie delle Americhe). Dopo l’applicazione del succo di questa pianta, Madola ordinò al prete di guardare il sole per un quarto d’ora. Dopo un po’ di difficolta egli riuscì a fissare il sole senza che lo abbagliasse. E’ interessante ritrovare l’azione di fissare il sole dopo l’applicazione del collirio come abbiamo incontrato nei riti iniziatici buitisti. Lo nganga bamileké precisò che l’azione di fissare il sole non era per “aprire gli occhi” ma per levare via le impurezze degli occhi, mentre era il collirio il vero responsabile dell’“apertura degli occhi”. De Rosny descrisse il suo rito iniziatico in una maniera un po’ confusa e incompleta, probabilmente per rispettare il segreto iniziatico. Sembra che subì l’applicazione del collirio per diversi giorni consecutivi, e successivamente gli furono date da ingerire delle piante -anche queste appartenente alla famiglia delle Asteraceae- che finalmente gli “aprirono gli occhi”. Egli precisò che non fu soggetto ad allucinazioni né percepì dimensioni estatiche, e che l’“apertura degli occhi”, che si presentò in forma permanente, riguardava la percezione immediata delle situazioni psicologiche conflittuali in qualunque contesto sociale si venisse a trovare (Rosny, 1981, pp. 325-358).
Fra i Manja della Repubblica Centrafricana certi stregoni usano il movimento delle fiamme come pratica divinatoria. Si instillano negli occhi una goccia di latice di certe piante, un fatto che permette loro di vedere fra le fiamme ciò che non può vedere un profano. Nel passato i Manja usavano la pratica del collirio anche come ordalia, cioé per scoprire se una persona accusata di un grave reato era colpevole o meno. Come veleno di prova era usato il latice della scorza della radice di un albero chiamato malo: si lasciavano cadere due gocce in un occhio dell’accusato; se egli era il colpevole perdeva la vista (Vergiat, 1981a, pp. 74-5, 162). E’ interessante osservare che la pianta usata per questa ordalia è l’albero Securidaca longepedunculata Fresen., della famiglia delle Polygalaceae. E’ considerato molto velenoso, in particolare le sue radici, che sono impiegate in diverse regioni africane per commettere omicidi o suicidi. Ma durante un determinato periodo dell’anno, quello della stagione secca, le radici producono alcaloidi dell’ergot, derivati dell’acido lisergico, e forse ciò spiega il loro impiego come agente visionario in alcuni contesti rituali della Guinea Bissau e del Malawi (Samorini, 1996b).
Sempre fra i Manja, nella società segreta Ngakola il succo giallastro estratto dai giovani germogli di una specie di Garcinia o di Ochrocarpus è istillato negli occhi dei neofiti per “aprire” i loro occhi ai misteri della setta (Vergiat, 1981b, p. 161).
Colliri che inducono visioni o che influiscono sullo stato d’animo dell’individuo sono impiegati anche al di fuori del continente africano. I Matsigenka dell’Amazzonia peruviana -noti per l’impiego di un folto gruppo di piante visionarie (si veda Il kamarampi fra i Matsigenka)- usano un insieme di colliri (kaokirontsi) che introducono negli occhi per scopi medicinali, e anche per motivi magici e psicologici; ad esempio per dissipare cattivi sogni o apparizioni di fantasmi, per trattare momenti di tristezza, di rabbia o di qualche altra forte emozione. Diversi di questi colliri sono ricavati da specie dei generi Psychotria e Rudgea, entrambi della famiglia delle Rubiaceae. Nel corso delle sue indagini etnografiche, l’antropologo Glenn Shepard ebbe occasione di sperimentare uno di questi colliri: “dopo un periodo iniziale di intensa sensazione di bruciore, il collirio produsse un potente effetto stimolante, come quello di un forte caffè, che mi lasciò un po’ nauseato e mi tenne sveglio per buona parte della notte. Infine caddi in un sonno irregolare accompagnato da sogni vividi (Shepard, 1998).
La conoscenza di colliri che hanno effetti sulla mente non era ignota fra le culture classiche mediterranee. Nell’orizzonte mitologico basti citare il mito greco del Vello d’Oro e il passo dove Medea addormenta il drago che custodisce il Vello spruzzandogli negli occhi un filtro mediante un rametto di ginepro.
Il bizantino Proclo, che scriveva nel V secolo della nostra era, accennò alla pratica di spalmare sugli occhi delle sostanze per indurre delle visioni, e lo scrittore bizantino Psello, che scriveva nel XI secolo, la riteneva una pratica d’origine egizia.
Che si trattasse di conoscenze originate nell’antica cultura egiziana parrebbe essere testimoniato da un passo presente in un papiro egizio (“Papiro magico demotico di Londra e Leida”, MagLL), dove, sebbene in forma frammentata, è presente un riferimento a proprietà visionarie di un unguento applicato sugli occhi per scopi apparentemente divinatori: “l’unguento che devi mettere sugli occhi quando ti appresti a interrogare la lucerna… prendi dei fiori di lupino… riempi gli occhi di questo sangue quando ti appresti a leggere una formula sulla lucerna: vedrai una figura soprannaturale (“divina”) ferma all’esterno della lucerna e ti parlerà sull’interrogazione…” (Bresciani, 1999, pp. 784-5).
Un altro documento riguarda un papiro egizio datato ai primi secoli della nostra era e conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Vi è descritto un rituale mitraico in cui un’enigmatica erba ricopre un ruolo sacramentale: “Se vuoi mostrare queste cose a un altro, spalmagli gli occhi con il succo dell’erba kentritide insieme con quello di rose ed egli vedrà chiaramente, così da meravigliarti”. L’erba kentritide non sembra avere un mero valore mitico, ma parrebbe essere una reale pianta, di cui è riportato che cresce nel mese di Pauni (26 maggio-24 giugno), è simile alla verbena, le foglie sono intere e il frutto è simile alla cima dell’asparago selvatico. Il portamento della pianta è simile a quello della salpa e della bietola selvatica (Cepollaro, 1982, pp. 40-2).
Quanto sin qui riportato fa sorgere un quesito: può un collirio indurre effetti sulla mente? In altre parole: una sostanza psicoattiva può essere assorbita per via oculare? Per diverse sostanze psicoattive la risposta resta incerta e -tralasciando i casi aneddotici quali l’assunzione di gocce di LSD per via oculare -possiamo dare una risposta affermativa almeno nel caso di una specifica classe di composti: gli alcaloidi tropanici.
La belladonna -Atropa belladonna L., una delle solanacee allucinogene -deve il suo nome all’uso che facevano del suo succo le donne europee dei tempi passati, che se lo applicavano negli occhi per dilatare le pupille con lo scopo di apparire più belle. L’atropina -principio psicoattivo delle solanacee allucinogene- viene ancora oggi applicata negli occhi per allargare la pupilla e facilitare in tal modo le analisi oculistiche. Sono noti casi in cui il paziente a cui è stato somministrato questo collirio ha subito un effetto allucinogeno di lunga durata; un effetto collaterale non sempre apprezzabile da chi non se lo aspetta. Porto come esempio un caso accaduto nel 1887 in Inghilterra. A un uomo di 75 anni, sofferente di una cataratta senile, furono applicati sugli occhi per scopo diagnostico due dischi contenenti duboisina (un vecchio nome della iosciamina, della famiglia chimica dell’atropina): “Pochi istanti dopo il paziente cominciò a lagnarsi di lieve vertigine, si fece inquieto e fu costretto a sedersi. A capo di circa venti minuti le pupille erano dilatate sufficientemente da permettere l’esame necessario. Alcuni minuti più tardi il paziente accusò un senso di debolezza, gran secchezza di bocca con fortissimo sapore amaro. Direttosi a casa, lungo la strada non fece che barcollare e sragionare come fosse ubriaco. Giunto a casa, non gli fu possibile reggersi in piedi e riconoscere la posizione degli oggetti, il che era dovuto certamente agli effetti di una paralisi di accomodazione e ad allucinazione visiva. Messo a letto, rimase in preda a movimenti incessanti: gettava sguardi sospettosi al di sotto delle lenzuola e dietro di sé, il tutto accompagnato da un torrente di parole e di giudizi sconnessi: gli sembrava trovarsi immerso nella più fitta tenebra, quantunque fosse una delle più splendide giornate di estate” (Martini, 1887, p. 366).
Giorgio Samorini
Il primissimo disegno della pianta dell’iboga, datato al 1895 e pubblicata nell’Icones Plantarum.
(Oliver, 1895, 4ºserie, Tav. 2337)