La forma selvaggia

 

 

 

 

Tuttavia, al cospetto della scultura africana,
va abbandonata la paura di essere profani...
ci si deve lasciare catturare dal suo fascino.
Bisogna avvicinarla, frequentarla, appropriarsene, amarla.
Bisogna offrirle il proprio tempo, aprirle la propria sensualità, i propri sogni,
consegnarle la propria morte, le proprie inibizioni, riscoprire in sé altri universi.
Dissacrare fermamente, senza viltà e senza respingerle, le sue fonti culturali.
Strapparsi la benda dagli occhi e lasciarsi andare al piacere,
lasciarsi prendere dalla magia.
 

Jacques Kerchache

 

 

 

 

Indice opere a fine pagina

 

 

 

 

 

 

La pagina è dedicata all’arte tribale africana sub-sahariana, ovvero arte dell’Africa Nera. Nelle pagine interne, troverai raffigurate opere della mia piccola collezione, con foto e testi esplicativi d’ordine generale e analitico. Collezione costituita non solo da sculture definibili d’arte o d’epoca, ma anche da oggetti o sculture aventi mero interesse e valore etnoantropologico, così qualificabili in quanto essere stati realmente utilizzati come rituali oggetti di potere o oggetti di cultura materiale.
I manufatti sono elencati al termine della presente introduzione per indice suddiviso dalla cultura di provenienza e dalla denominazione originale (ove recuperata) dell'opera: scorrilo e ove ti intriga la cultura o ti attragga il nome, clicca e avrai accesso alla visione delle opere. In calce all’elenco potrai trovare, dettagliate per argomento, dissertazioni comparative tra culture aventi oggetto alcune tipologie delle opere in collezione che ritengo siano utile approfondimento.

I testi autorevoli riprodotti dovrai considerarli, se profano del tema, una illustrazione parziale e interpretativa personale/temporale dell’arte succitata: parziale perché l’argomento è di ampia e molteplice analisi interdisciplinare, interpretativa personale/temporale perché quanto riportato è frutto di singole opinioni e convinzioni correlate alla datazione delle stesse. Ciò per rimarcare che diversa angolazione dottrinale, diversa lettura autoriale, diverso momento storico, possano avere conseguente diversa argomentazione.
Occorre comunque tenere presente l’estrema complessità, e talvolta impossibilità, del fruitore, anche esperto, di opere, estraneo alla cultura di produzione delle stesse, a definirle, valutarle, contestualizzarle nella loro interiore spiritualità, nella individuazione del rapporto tra significato e significante.
Nella pagina introduttiva, tra citazioni e scritti autorevoli, sono riportate immagini d’epoca di maschere, feticci, statue.

 

 

 

 

 

Songye. Il re Kuba Kot aPe con feticci "mankisi" di comunità in Nsheng, 1911.

 

 

 

 

 

Fang. Reliquiari "byeri", 1914.

 

 

 

 

 

Abiriba. Tamburo, 1930/1939.

 

 

 

 

 

Vili. Feticci "nkonde" e "n'kozzo" o "kozo", 1902.

 

 

 

 

 

Ibibio. Altare "juju", 1915.

 

 

 

 

 

Songye Kalebwe. Nkisi di comunità, 1932.

 

 

 

 

 

Igbo. Maschera "mgbedika" o "agaba", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Yaka. Feticci "biteki", 1906.

 

 

 

 

 

Igbo. Statua "ikenga", 1930.

 

 

 

 

 

Songye. Feticci "kashashwiim", "mweeny", "mutwoon" e "tshikudi", 1910.

 

 

 

 

 

Ikwerri. Maschera "abam", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Songye. Feticcio "Tombwe", in Kabashilange, 1922.

 

 

 

 

 

Songye Kalebwe. Nkisi di comunità, 1932.

 

 

 

 

 

Vili. Feticci "nkisi", "nkobi e oggetti di potere, 1909.

 

 

 

 

 

Baga. Maschera "sa sira ren" e altra sconosciuta, 1947.

 

 

 

 

Un percorso iniziatico. Jacques Kerchache, 1998.


La passione per l’Africa mi ha spinto, senza che avessi predisposto in anticipo un piano sistematico, nel cuore del Gabon, mi ha condotto dal Congo alla Guinea equatoriale, dalla Costa d’Avorio alla Liberia, mi ha portato dal Burkina Faso al Mali, dall’Etiopia al Benin, dalla Nigeria al Camerun e dalla Tanzania allo Zaire. Da queste esperienze talvolta ardue, certamente fisiche, ma soprattutto intellettuali e spirituali, dalla mia partecipazione ad alcune cerimonie e a diverse manipolazioni di oggetti, dalla mia immersione temporanea, ma reale, nei culti vudu dell'ex costa degli Schiavi, non posso oggi esprimere che delle sensazioni, delle impressioni. Mi asterrò perciò, da qualsiasi affermazione.
Tuttavia, al cospetto della scultura africana, va abbandonata la paura di essere profani e ci si deve lasciare catturare dal suo fascino; bisogna avvicinarla, frequentarla, appropriarsene, amarla. Bisogna offrirle il proprio tempo, aprirle la propria sensualità, i propri sogni, consegnarle la propria morte, le proprie inibizioni, riscoprire in sé altri universi. Dissacrare fermamente, senza viltà e senza respingerle, le sue fonti culturali. Strapparsi la benda dagli occhi e lasciarsi andare al piacere, lasciarsi prendere dalla magia.
Anche se non possiamo contemplare questa scultura che attraverso i suoi frammenti, questi sono ancora abbastanza significativi per esprimere un alfabeto di segni fondamentali, di matrici, al quale l'uomo moderno, nella sua necessaria ricerca di universalità, può e deve attingere. In questa fine del XX secolo, potrebbe essere pericoloso trascurare l’apporto delle “arti prime” e nel contempo ultime; sono questi gli antenati del futuro. Lo scopo delle arti africane non è di insegnarci una certa ideologia, ma di indurci a osservare in maniera diversa. Ci si deve guardare dal sottile razzismo che sostiene la necessità di essere africani per capire questa scultura, atteggiamento esotico non più accettabile.
(…)
Altra raccomandazione: l'arte africana non deve essere avvicinata attraverso la prospettiva delle date. In primo luogo, qualunque sia la cultura osservata, l’età di un'opera non è mai garanzia della sua qualità, le produzioni minori, rozze e povere abbondano qui come nelle culture greco-romana, egizia, asiatica, francese del XVIII o del XX secolo. In secondo luogo, vanno superate le analisi (etnomorfologiche, quantitative e matematiche) effettuate da numerosi ricercatori. Potreste concepire di misurare le sculture del Benin o di Picasso per determinarne l'originalità, l'emozione o la magia? E perché servirsi di oggetti -senza guardarli veramente- come pretesto nella determinazione di una teoria della società? In realtà, la bellezza di una scultura non è estranea alla sua funzione sociale, come pure il suo ruolo rituale o magico non impedisce ai suoi fruitori di apprezzarne la bellezza. Più un oggetto riveste una funzione importante, più le sue qualità estetiche sono evidenti; uno stretto legame unisce funzione e bellezza, la prima regge l’altra favorendone lo sbocciare, la seconda magnifica la prima esaltandola. Prima di tutto, va evitato di fissare in un'unità tribale un insieme di oggetti, o, al contrario, di disgregarla.
Contrariamente a quanto alcuni "etnologi" vorrebbero farci credere, l’Africa non vive in un eterno presente. Non esiste un’unica concezione della storia. Qui, come altrove, le abitudini sono cambiate, si sono evolute e lo stesso vale per la scultura. Tanto più che, secondo l'origine clanica o familiare dell'informatore sul terreno, la statua avrà dei significati diversi e l’omogeneità del gruppo osservato sarà instabile quanto le attribuzioni. Cambiando il mito, cambierà anche l’interpretazione di esso. In questo ambito nulla è mai definitivo. In Africa un oggetto è fluido quanto il verbo e le sculture sono il supporto della parola. Ma nulla vi impedisce, al cospetto di una scultura di qualità eccezionale, che fornisce una versione originale del mondo, di percepire la volontà dello scultore di estrinsecare un'idea.

 

 

 

Kota. Reliquiari "mbulu-ngulu", 1908.

 

 

Scultura, dimensione, parola.
Le opere a carattere naturalistico, come le teste di Ife, vi saranno più accessibili, poiché esse agiranno sulla vostra tonalità culturale, visiva, sensuale, tattile. Sono certamente dei capolavori, ma costituiscono una sola varietà nell'enorme gamma di soluzioni plastiche proposte dalla scultura africana. Frobenius, scoprendo queste teste nel 1910, le ha immediatamente collegate alla Grecia, nella convinzione di aver ritrovato Atlantide. Juan Gris, invece, dichiarò in “Action”, nell'aprile 1920, a proposito dell'arte africana: "È all'opposto dell'arte greca che si basava sull'individuo per cercare di suggerire un tipo ideale". E aggiunge: vederla unica, significherebbe uccidere l'arte greca. Le opere di Ife sono totalmente africane; se le osservate con attenzione, potrete constatare rapidamente che non è possibile confonderle con nessun'altra scultura al mondo.
Ma davanti all'arte africana, più sarete aggrediti e sconcertati, più dovrete stare attenti: non temiate l'emozione, lo shock. Prima di esprimervi non cercate la firma o la data. Attitudine -che J.M. Drot stigmatizza- del pensiero sistematico e classificatore del mondo occidentale. Le sculture africane non hanno firme e sono al di fuori della nostra cronologia. Valutate con i vostri occhi: "L'occhio deve esplorare la superficie, assorbirla pezzo per pezzo e consegnarla al cervello che immagazzina le impressioni e le costituisce in un tutto. L'occhio segue i percorsi che gli sono stati predisposti nell'opera" (P. Klee). Avvicinatevi a ciò che potete sentire, cogliere, come la sensualità contenuta nella scultura africana e non pensate in termini di espressionismo, di cubismo o di realismo, non crediate che una maschera rida o pianga. Non lasciatevi sedurre da materiali come l'oro, il bronzo, le patine laccate, altrimenti restereste confinati nel “catalogo delle opinioni chic”.
C'è anche un momento di percorso intorno a una scultura tridimensionale, indispensabile alla sua comprensione. Essere attivi davanti a una statua, forse, vi sarà più difficile in quanto noi oggi viviamo nel bidimensionale, nel regno delle immagini e questo modifica la nostra percezione della scultura. Essa è sempre più assente da ciò che ci circonda, ad eccezione della sua presenza sottoforma di "monumento mortuario" o di supporto architettonico. E’ dunque opportuno esercitare l'occhio per poter scoprire in questa vasta produzione artistica, in questo labirinto, i tempi forti, i segni conduttori altrettante espressioni originali della potenza creatrice e della maestria tecnica.
(...)
La scultura africana è, in generale, di piccole dimensioni, supera raramente il metro, ancora più raramente il metro e ottanta. Tuttavia, questo non le impedisce di esprimere una certa monumentalità. Le proporzioni derivano dalla sua manipolazione e dal suo uso all'interno delle strutture nelle quali appare. Quando la statuaria aveva un ruolo davvero collettivo, doveva e poteva essere vista da tutti: è il caso della funzione architettonica. Tuttavia, anche in queste circostanze, la si ritrova raramente in Africa; chefferies bamileke, palazzi bamum, templi yoruba. Sculture di grandi dimensioni esistono in certi siti funerari, come presso i Konso-Gato d'Etiopia, i Bongo del Sudan, i Giriama del Kenia, i Sakalava e i Bara del Madagascar, o con funzione di protezione del villaggio, clanico o familiare, come i “bochio” dei Fon del Benin.
(…)
Contrariamente alle sculture, la maschera, il cui uso è spesso accessibile a tutta la collettività, per lo meno maschile, può svilupparsi a piacere nelle grandi dimensioni, come presso i Dogon, i Mossi, i Baga, ecc. Può addirittura essere "sovradimensionata" dai suoi portatori, ritti su trampoli, come presso i Dan della Costa d’Avorio o i Punu del Gabon. La scultura tridimensionale africana, come nel resto del mondo, è apparsa con la sedentarizzazione, quando il dominio della tecnica agricola ha permesso alle tribù nomadi di stabilirsi in un certo luogo: questo si constata in tutto il Medio Oriente, nel bacino mediterraneo (Cicladi, Malta, Cipro), in Cina, nel bacino del Danubio (Romania, Cecoslovacchia) e in Africa, lungo il Niger, come confermato dai lavori di J.P. Roset. Questa tecnica viene scoperta o trasmessa in maniera piú o meno lenta e sfocia in un insieme di dati come la scrittura, la città, lo stato, l'esercito e l'architettura. Queste società di agricoltori-cacciatori-pescatori, più o meno guerriere a seconda delle circostanze, produrranno una scultura tridimensionale generalmente molto piccola e assai vicina concettualmente, e comunque sul piano estetico, alla scultura africana. Tutte queste statuette dimostrano nella strutturazione delle loro forme, dei loro volumi, nella precisione delle linee ridotte all'essenziale, il rifiuto della copia naturalistica, e raggiungono un alto grado di invenzione.
Per contro, ovunque l'uomo si muova, presso i cacciatori-raccoglitori o i nomadi-allevatori (Pigmei, Boscimani, Ottentotti, Peuls, Masai, come pure gli aborigeni australiani o gli Indiani delle pianure), la scultura tridimensionale non esiste, sebbene ciò non impedisca a queste societá di esprimersi in maniera altrettanto appassionante in altri ambiti quali le arti del corpo, la pittura rupestre, i disegni sulla sabbia, le incisioni sulle zucche, gli ornamenti in cuoio, i tessuti, la coreografia, la musica, la danza e il canto, i miti. Quando l'uomo si muove, si porta dietro l’essenziale...
E’ a questo punto del percorso, caratterizzato dalla comprensione e dall’apprezzamento, che è opportuno ricollocare l'opera nel suo ambito socio-culturale: ecco che allora gli etnologi e i linguisti consentono di capire meglio il contesto delle invenzioni stilistiche e meglio interpretarle. Tanto più che da una regione all'altra, da un insieme culturale a un altro, la statua può rivestire un significato totalmente diverso. Al contrario, "la stessa funzione può essere esercitata da molte forme diverse e, inversamente, una sola forma può esercitare molte funzioni diverse" (J.L. Paudrat). Presso i Senufo, pochi segni consentono di distinguere la tal maschera che invita le donne all'adulterio da quell'altra maschera che invece ne condanna la pratica.
Le società definite "primitive" non utilizzavano la scrittura, e questo ha suscitato il disprezzo con il quale sono state avvicinate. È il caso di ricordare che ancora nel 1898 si poteva leggere, per mano di André Michel, ne “La Grande Encyclopédie”: "Presso i negri, che tuttavia sembrano, come tutte le razze dell'Africa centrale e meridionale, molto arretrati per quanto concerne l'arte, si trovano degli idoli che rappresentano uomini e riproducono con grottesca fedeltà i caratteri della razza negra". Le tradizioni orali, lo si è capito ora, suppliscono alla scrittura la cui mancanza non significa un'assenza di cultura, ma piuttosto un rifiuto cosciente e deliberato da parte dei saggi per evitare di trasformare le variazioni del mito in un dogma immutabile.
Per di più, l’Africa è in contatto permanente, in modo più o meno burrascoso, con l’Islam dall’ VIII secolo. Ne consegue ovviamente che esistono numerose affinità tra l’Islam nero e l’Africa tradizionale, con avvenimenti vissuti in comune che si ritrovano più o meno differenziati nei miti e che appaiono nell'estetica. Il cavallo, ad esempio, simbolizza il tempo del contatto con l’Islam galoppante; incorporato nella cosmogonia dei popoli del delta interno e dell'ansa del Niger, rappresenta la necessita di trovare il tempo delle parole nuove e di prendere nuove decisioni. Ma l'islamizzazione di Djenné verso il 1043, lungo il fiume Niger, non impedirà alla produzione artistica di svilupparsi in tutto il bacino del fiume; e non influenzerà neppure i Dogon del Mali, zona in cui l'impero songhai raggiunge il suo apogeo nel XV secolo. Si trovano villaggi in cui vivono in comunità Peuls, Dogon, Bamana. Popoli come gli Edo e gli Yoruba della Nigeria resistono alle pressioni dei Fulani o degli Haussa islamizzati. Tuttavia, lo spirito di astrazione e di geometrizzazione dell'Islam ha certamente giocato un ruolo sottile nell'ambito della produzione delle maschere come pure nell'ambiente. Ma la penetrazione fu senza dubbio assai tollerante e, anche se il Corano proibisce qualsiasi rappresentazione umana, l’Islam in Africa può aver mirato alla distruzione degli idoli, ma non ha mai pensato di distruggere la scultura. Con una ridda di "Islam regionali", di contatti evolutivi tra l’VIII e il XIX secolo, ci si può chiedere se non sia stata l’Africa a "rendere negro" l’Islam.
La tradizione orale africana non si limita a raccontare di fondazioni, di emigrazioni, di lotte contro gli invasori, ma ingloba anche tutti gli aspetti della vita. E’ una scuola che comprende la religione, la conoscenza e le scienze della natura, l’iniziazione a un mestiere, la storia, i divertimenti: coinvolge l’uomo nella sua totalità. Si deve imparare a decifrare la scultura, supporto della parola e del mito in evoluzione permanente. Questa parola e talvolta di origine divina e presenta un carattere sacro. Secondo la mitologia dogon, “i primi uomini erano privi di parola, incompiuti, aridi infelici” non potevano compiere alcun progresso, poi Binu Seru ricevette un insegnamento dall'antenato Nommo durante un incontro. "Il loro sistema di vita ne fu trasformato; da raccoglitori di frutta divennero coltivatori, la parola li rese attenti ai fenomeni atmosferici e permise loro di regolare il calendario agricolo". (G. Calame-Griaule, Ethnologie et Langage, la parole chez les Dogon).
Presso i Bamana, il verbo è creatore e possiede la duplice funzione di inventare e di distruggere. L'importanza delle parole si ritrova ovunque in Africa; da queste derivano i canti rituali, le palabres, le discussioni, gli incontri e, di conseguenza, i mercati. Attraverso le parole si trascorrono il tempo delle feste, il tempo sacro, e, periodicamente, il tempo in cui avvicinarsi agli spiriti. Tutti questi tempi sono resi ritualmente presenti attraverso la parola visualizzata, materializzata in certuni oggetti. Per esempio, nella glottide delle statue impiegate soprattutto da uomini (glottide, elemento fisiologicamente più sviluppato negli uomini) o nelle bobine dei telai. Il tessitore africano non dice: "la navetta tesse la parola". Si può ritrovare questa parola rappresentata da una bocca smisurata, da una lingua appariscente tra le labbra o da una lamella in ferro sporgente dalla bocca di un bastone di comando o da interprete.
Presso gli Africani, l'universo è concepito come un fragile equilibro tra due forze, la cultura, ordine delle istituzioni sociali e la natura, disordine incontrollabile che passa dalla fertilità attraverso la crescita fino alla morte. Giustamente, la scultura africana rappresenta un elemento di questa coesione sociale, mediante la sua presenza nei diversi ambiti come quello socio-politico, magico-religioso o guerresco. Nella maggior parte delle società, la religione e la politica sono strettamente legate; sono in effetti i vecchi, i "nonni", gli uomini della classe di età superiore, giunti ai gradi di iniziazione più elevati a prendere le decisioni che riguardano la vita della comunità.
Questa lunga iniziazione formatrice termina tardi dato che un uomo viene considerato adulto, secondo il filosofo Hampaté Ba, dai Bamana e dai Peuls, a quarantadue anni e che non tutti raggiungono questo livello. Ancora un volta, è una questione di parola: per raggiungere questo grado di iniziazione, bisogna saper porre le domande giuste. E, di nuovo, la scultura dà il cambio alla parola: sebbene "in generale, le sculture africane non rappresentino i loro soggetti a un'età particolare" (W. Fagg), la barba, indice di classe di età, di saggezza, di virilità, di capitale-memoria e di conoscenza, si ritrova su un gran numero di statue e di maschere. La visualizzazione di questa barba è manifesta in tutta la scultura africana mentre non la si ritrova che assai raramente nel paleolitico e praticamente mai nel neolitico: unica eccezione, la statua di Beer Safad (4000 a.C.), trovata in Israele, che presenta una serie di buchi di attacco attorno al viso, che permetterebbero, come nella testa di bronzo di Ife di Obalufon, l'apposizione di una barba posticcia; ma questo resta una supposizione. La barba, simbolo concettuale della saggezza degli anziani, guardiani essi stessi della tradizione orale, si materializza nella statuaria. In Africa, la scultura è la parola divenuta forma.

 

 

 

Vili. Feticcio "nkonde", 1916.

 

 

Gli oggetti di superficie.
Gli oggetti rituali, maschere, statue, mobilio, utilizzati in superficie rivestono, nella società africana tradizionale, un ruolo molto più importante degli oggetti funerari, destinati ad essere sepolti. Va aggiunta una piccola quantità di pezzi dal duplice impiego -parure e mobilio sacro che accompagnano il morto nella tomba- come a Igbo-Ukwu in Nigeria, o certuni oggetti funerari trovati fortuitamente e riutilizzati in superficie, come presso i Kissi in Guinea, quelli della cultura nok o della cultura owo in Nigeria.
In Africa gli spiriti sono presenti ovunque. Un uomo diventa spesso più importante dopo la sua morte che in vita. I segni di superficie funzionano da esempi e sotto esempi, in uno stretto rapporto tra il ruolo che essi hanno e quello dei loro manipolatori; esistono oggetti collettivi (spesso le maschere), semi collettivi (ancora le maschere e una piccola parte della statuaria) e quelli -in particolare statuette- riservati ai saggi, memoria vivente della comunità. Questi ultimi riattualizzano continuamente gli oggetti nelle relazioni che essi intrattengono con il mondo esterno (avvenimenti storici, contatti con l’Islam, il Cristianesimo, migrazioni, guerre, alleanze) e il mondo interno (spiriti, morte, sogni). Attorno alle funzioni e agli usi, si stabiliscono dei sistemi di manipolazione ciclica estremamente complessi e di protezione.
Potreste trascorrere la vostra vita in Africa senza avere la possibilità di vedere una statua in funzione; esse sono celate non solo al forestiero, ma anche a gran parte della comunità. Griaule, con la Scuola francese di etnologia, nel corso di circa mezzo secolo di presenza, ha potuto accedere solo in rarissime occasioni alla statuaria dogon sacralizzata. I membri del gruppo hanno visto delle maschere (collettive), delle sculture sconsacrate, sono stati perfino lo spunto per la creazione di nuovi supporti, come la maschera Madame o la maschera etnologa.
Dal XVIIl secolo ai nostri giorni, si osserva così, nell'iconografia dei racconti di viaggio, l’apparizione di armi, strumenti musicali collettivi, mobilio, parure, e alcuni rarissimi documenti più interessanti: mostrano un Africano che ha appena ricevuto un calcio nel sedere, circondato da statue per dare all'immagine una dimensione feticista. E non dimentichiamo l’ultimo arrivato... la maschera fatta per il turista. In realtà, la maggior parte di questi "trompe-l'oeil" permette di dissimulare la scultura sacralizzata e l'attitudine degli utenti di fronte a questa statuaria. Questi ultimi si comportano nei riguardi di ogni statuetta come verso un individuo. In Africa, esistono ancora numerose statue nascoste che riappariranno solo quando non avranno più alcun interesse per i loro manipolatori. Poiché beneficiano di un sistema di protezione elaboratissimo.
La preparazione di un segno di superficie inizia dalla scelta del materiale (qualità dell'essenza dell'albero), dal momento in cui l'albero sarà abbattuto, dalle tecniche di ammollo (palude, fango) e dalla miscela delle patine (olio, miele, cera d’api, fumo, pittura), e prosegue con i sacrifici rituali (sangue, birra di miglio). Infine intervengono l'ubicazione (tempio, altare familiare, grotta, granaio, cassa), l'involucro (spesso pacchetti di tessuto enormi in rapporto alla dimensione dell'oggetto) e la manutenzione; certuni uomini possono esserne responsabili a costo della loro stessa vita. Può succedere che durante lo svolgersi di avvenimenti particolarmente turbolenti, come durante gli anni Sessanta nel Camerun, per la rivolta dei Bamileke, i re affidino i loro oggetti sacri a notabili residenti assai lontano dalla loro chefferie.
Anche la preparazione di oggetti sostitutivi fa parte dei sistemi di protezione: cioé la rapida fabbricazione di una statua non sacralizzata, a beneficio dei missionari, degli amministratori o degli etnologi di passaggio. Il complesso di superiorità di queste persone impediva loro di immaginare, anche per un solo istante, che gli Africani si fossero presi gioco di loro. I missionari reclamavano gli idoli e, durante la notte, gli Africani, divertendosi, fabbricavano un oggetto sostitutivo. Il giorno dopo essi consegnavano la loro vergine di "Saint Sulpice" pur conservando l’autentica vergine "romana"; allentavano così la pressione. Questa pratica continua. Molte volte, dopo notti di trattative, i Neri mi hanno presentato, accompagnato da tutto un cerimoniale, un enorme pacco contenente una maschera o una statua. Dicevo loro: "L’avete fabbricata questa notte, mi prendete per un bambino?" Scoppiavamo tutti a ridere stabilendo cosi una relazione di complicità magica. Quanti turisti sono stati svegliati, presso i Dogon, nel pieno della notte e trascinati, uno dopo l'altro, in una capanna da un anziano che presentava loro con mille precauzioni la porta di un granaio degli antenati. L’indomani, nel loro veicolo, avevano tutti la medesima porta, falso oggetto con riparazioni tradizionali. Tutti questi sotterfugi per dissimulare l'esistenza degli oggetti veri e assicurarne cosi la conservazione.

 

 

 

Fang. Gioco per giovani iniziati "mala’n me bo’ngo", 1912.

 

 

Morte degli oggetti di superficie.
Non parlerò della distruzione causata da cataclismi naturali o dalle termiti o dai roditori, circostanze che si verificano quando gli oggetti sono sconsacrati e abbandonati. Essi perlopiù vengono distrutti dagli stessi fruitori. Nel 1889, il padre Noel Baudin si stupiva: "In uno dei primi anni del mio soggiorno sulla costa degli Schiavi, il nostro vicino, noto fabbricante di feticci, era morto ed erano stati messi fuori dalla sua capanna tutti i suoi feticci (...) io chiesi ai Neri come mai trattassero in questo modo i loro dei. Essi affermarono che i loro dei non erano più li, e quindi tutte le statue e gli altri loro simboli, ormai inutili, erano stati buttati fuori dalla capanna". Spesso ho visto bambini giocare con delle belle sculture, presso i Fang del Camerun meridionale, o, ridendo, porsi una maschera sulla testa. Questi oggetti, qualunque sia la loro autenticità, il loro ruolo passato e la loro qualità plastica, non avevano più alcun significato per la comunità.
Una maschera può anche essere fabbricata in occasione di una cerimonia particolare, come le maschere “cikunza” presso i Tschokwe, e poi venire distrutta all'indomani del suo utilizzo. Altre vengono buttate perché rovinate durante una manipolazione. Certi oggetti rispondono negativamente ai loro utenti e spariscono. Senza contare le maschere o statuette in erba, fango, fogliame; materiali effimeri, e dunque deperibili.
Ma sui segni di superficie pesano anche le decisioni politiche o religiose. Numerosi esempi possono illustrare questo genere di distruzione. Verso il 1400, a seguito di un conflitto, un lignaggio lasciò la città santa di Ife e si stabilì tra questo luogo e Benin. Le terrecotte di Owo, meravigliose nella loro delicatezza e, in Africa, uniche nella loro concezione, verranno distrutte due generazioni più tardi dall'esercito del Benin. Durante la conquista del territorio edo da parte degli Yoruba, interi villaggi con tutti i loro oggetti vennero annientati. Nel 1897, il vice console inglese espresse il desiderio di far visita al re del Benin durante le cerimonie dell'Igue. Quest’ultimo rifiutò poiché, durante questo periodo, egli era (considerato) invisibile. Questo fatto scatenò la spedizione punitiva degli inglesi contro la città e il saccheggio di circa quattromila oggetti. Venduti a Londra l'anno successivo, essi si trovano attualmente per la maggior parte al British Museum, al museo di etnologia di Berlino e in numerose collezioni pubbliche e private.
Vanno aggiunte le distruzioni operate dagli eserciti coloniali, la soppressione di migliaia di segni di superficie durante la guerra del Biafra da parte degli Haussa, del capo Mukeenga Khalemba presso i Bena Lulua, i bombardamenti di Kadhafi su Djamena, cbe hanno portato al saccheggio del Museo nazionale, all'incendio della biblioteca e alla distruzione dei siti archeologici limitrofi. Si possono anche ricordare i saccheggi provocati dalla propagazione dell’Islam, gli autodafé dei missionari, le pratiche dei culti sincretici: il culto "mademoiselle" tra il 1940 e il 1964 in Gabon e in Congo; il culto di massa presso i Senufo nel 1953; lo Spirit Movement tra il 1920 e il 1930 in Nigeria. E, per finire, citiamo le raccolte sistematiche dei grandi musei etnografici, la vendita da parte degli stessi Africani di certi pezzi per rispondere alla crescente richiesta. "In Camerun, al momento dell’indipendenza, apparvero sul mercato delle “arti primitive "autentici pezzi antichi, spesso molto importanti, venduti a cifre assai elevate dagli stessi monarchi d’accordo con i loro notabili." (P. Harter)
Non possiamo, ovviamente, correggere il passato: tuttavia, è in nostro potere evitare altri disastri. Se non ci fosse stato l'interesse di artisti e di poeti come Picasso, Matisse, Derain, Apollinaire, Féneon, e quello di mercanti e di appassionati di arte africana, quest’ultima non avrebbe ora il posto che occupa nel patrimonio culturale dell'umanità. Gli Africani, per il momento, non si interessano in questo modo ai loro oggetti (non conosco del resto un solo amatore di arte nera in Africa). Tuttavia l'avvenire del patrimonio archeologico africano situato nel sottosuolo appartiene a loro. Lasciamo decidere agli Africani quale sviluppo vorranno consentire alla museografia del loro paese; restiamo semplicemente a loro disposizione per collaborare, se essi ce lo richiederanno, nella realizzazione, ad esempio, degli scavi scientifici, come quelli di T. Shaw a Igbo-Ukwu in Nigeria. Sforziamoci soprattutto di nobilitare lo sguardo che posiamo sulle arti nere.

 

 

 

 

 

Yombé. Feticcio, 1906.

 

 

 

 

 

Abiriba. Vassoio, 1930/1939.

 

 

 

 

 

Kongo. Maschere, 1910.

 

 

 

 

 

Ibibio. Maschere "ekpo", 1905.

 

 

 

 

 

Woyo. Feticcio "nkonde", 1902.

 

 

 

 

 

Igbo. Danzatori "kwoho", ca.1900.

 

 

 

 

 

Songye. Feticcio "nkisi" con il suo guardiano "kunca o nkunja", 1913-1916.

 

 

 

 

 

Igbo. Statua "alusi", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Igbo. Statue "ikenga", 1916.

 

 

 

 

 

Igbo. Maschera "otili", 1931.

 

 

 

 

 

Ika. Altare portatile, 1930/1939.

 

 

 

 

 

Songye. "Minkisi" di comunità, ante 1940.

 

 

 

 

 

Songye. "Minkisi" di comunità, villaggio confluenza fiumi Lubengule e Lomami, 1927-1934.

 

 

 

 

Baga Sitemu. Tamburo rituale "timba", ca.1930.

 

 

 

 

 

Luba. Maschere, statue e "kitumpo kya muchi", 1900-1910.

 

 

 

 

Scoprire l'Africa. Luigi Baldacci, 1989.


Si può arrivare all'Africa Nera da tante parti. A me è accaduto di sbarcare su questo continente in seguito a un’intossicazione, protrattasi per molti anni, di arte italiana antica a forte connotazione espressiva e sentimentale, profondamente radicata in una sua necessità storica, sicché il giro di soli cinque anni è sufficiente a determinare in essa variazioni di rapporti che, viste soprattutto dall'interno del sistema, sembrano decisive. Da una superficie mobile, cangiante, approdare a una riva basaltica, questa la prima impressione, o, insomma, la mia esperienza esistenziale: anche se poi, appena messo piede su quella terra ignota e affascinante, poteva subentrare il sospetto che il campo delle sensazioni tornasse ad essere rifranto secondo gli stessi principi di differenziazione dominanti nell’esperienza europea.
Le forme di una maschera Bambara o di una maschera Baulé apparivano, anche al catecumeno, profondamente diverse. Si riproduceva quello stato perenne di tensione che era caratteristico della ricerca fatta in Italia: pero la geografia prendeva il netto sopravvento sulla storia, gli archetipi s'imponevano con l'autorità delle idee, le persone si ritraevano nell’ombra, si dissolvevano, non esistevano: esisteva soltanto l'opera nella sua assolutezza, generata da una mente divina che si serviva dell’artefice come di uno strumento. E sappiamo benissimo, invece, che le cose non stanno cosi e che oggi si tende a recuperare una storia e una storicità dell’Africa e dell’arte africana e si arriva perfino ad enucleare delle personalità creatrici da un contesto di forme increate: ma resta il fatto che questo sentimento di silenzio, questo prendere atto della caduta di tutti i nostri parametri sono cose del tutto nuove e profondamente suggestive per chi viene da quell'altro mondo, dove il primo proposito, la prima necessità è stabilire se sia stato il Pignoni o il Montelatici o il Botti a inventare quella figura di santa o quell’allegoria.
Quanto al concetto di storia, può darsi che il discorso sull’arte negra sia stato incapsulato in una falsa dialettica. In un primo momento quella possibilità di una storia l'abbiamo troppo negata, poi, per fare ammenda, ne abbiamo concessa anche troppa; e naturalmente si trattava dell'unica storia che fossimo in grado di elargire: la nostra. Voglio dire cioè che non siamo riusciti a immaginarla, quell’arte, senza farla passare attraverso il filtro o la lente della nostra mentalità: ci è sembrato intollerabile che la sua vicenda si svolgesse fuori dalle nostre forme di pensiero, o, al contrario, ci è sembrato suggestivo o perfino generoso attribuirle quei parametri e quelle forme riconducendola sotto il concetto di un'originalità estetica e di un'espressività artistica che, a ben considerare, non è valido neppure -almeno nella gran parte del suo svolgimento- per l’arte europea.
Nel fondamentale saggio di Ezio Bassani, “La cultura europea e la scultura dell'Africa Nera”, c'è una citazione di Hegel che, riferita al “negro”, potrebbe essere trasposta all'arte e, debitamente decontestualizzata onde non fare di Hegel un pionieristico scopritore, sarebbe da usare come epigrafe di ogni discorso su questo problema: "Per comprenderla dobbiamo abbandonare tutte le nostre intuizioni europee". Intanto, per un recupero storico dell'arte africana ci sono delle difficoltà obiettive.
Noi sappiamo che essa ha avuto una storia, dalla cultura Nok, a quella Ife, a quella Benin: ma si tratta di isole, d’immense zattere alla deriva che non hanno più la contestualità e l'organicità di movimenti e di fatti in divenire. Quella storia si è inabissata. La cultura africana non ha memoria perché non ha scrittura e non ha scrittura perché non ha memoria. C'è anche questo aspetto da meditare: l'Africa non ha avuto bisogno di un alfabeto perché non ha mai interrotto il contatto con i suoi dei, i suoi archetipi. Indubbiamente noi non possediamo i documenti di quella storia: ci sono stati cataclismi colossali che hanno attraversato questo continente e non sono stati registrati; ma la storia, la scrittura significano la separazione del mondo umano dal mondo divino, e questa separazione in Africa non c'è stata, o non c'era stata almeno prima dell'ultima colonizzazione, islamica o cristiana.
Noi ci accostiamo a tutto, e quindi anche all'arte negra, secondo la nostra ottica antropocentrica; non accettiamo il selvaggio se non come un mito illuministico, e invece l'Africa Nera stabilisce un punto di valore proprio dove noi, antropocentricamente e umanisticamente, vediamo un disvalore. Per noi conta l'affermazione dell’uomo sulla natura, il suo distacco spirituale dalla materia, la presa di coscienza: questo processo nell'Africa Nera non c'è stato. La nostalgia di Leopardi (l'unico pensatore moderno che abbia avuto il coraggio di un assoluto antiumanismo) per un'immagine dell’uomo che, prima del peccato originale, fosse ancora parte integrante del sistema della natura, è per noi solo un sogno regressivo del civilizzato che intende azzerare il proprio bilancio culturale, ma poteva trovare appagamento nella realtà del mondo africano. Quando si dice che questo mondo è fuori del tempo, non si dice poi cosa tanto convenzionale e banale come oggi si tende a credere. È la sua struttura religiosa -dove religiosità, materia e natura sono elementi inscindibili- che è necessariamente metatemporale. E forse l'Africa Nera è il rimorso dell’uomo moderno, la sua occasione mancata: ammesso che gli uomini volessero continuare a vivere su questa terra anziché accelerare la propria scomparsa.
Ma tornando ai cataclismi, ai diluvi che hanno cancellato la storia dell'Africa, non bisogna dimenticare che la stessa arte è stata, per una grandissima quantità di oggetti, spazzata via insieme con quella storia. È vero che l'antichissima arte Nok e l'arte Yoruba dimostrano, per fare un esempio, essenziali punti di contatto (e non si tratta di una ripresa intellettualistica, come potrebbe essere quella del nostro neoclassicismo nei confronti dell'arte classica, bensì della perpetuazione di una stessa lingua naturale), ma occorre anche tener presente che l'arte negra di cui oggi parliamo, quella insomma giunta fino a noi e protrattasi -con contaminazioni più o meno turistiche- fino ai nostri giorni, altro non è che un velo di superficie rispetto a uno spessore di opere, di produzione, di tempi che non esiste più. Non solo: noi siamo abituati a vedere la storia in divenire; la storia dell'Africa, per quel che ci assicurano l'archeologia e la filologia, va in senso contrario. L'arte che commosse l'Europa nel punto della maggior gloria di Picasso, era l’arte di una civiltà in dissoluzione, stremata e depredata già dallo schiavismo e attaccata infine dal colonialismo. Non è retorica del nostro tempo: è bensì vero che il poco che sappiamo della storia dell’Africa ci assicura che l’Europa e l’America hanno nuociuto molto alla civiltà africana.
Ma se le nostre esperienze di quest'arte poggiano su un materiale per lo più molto recente che, cronologicamente, appartiene alla crisi di una società, resta una precisazione da fare: sarebbe un'altra indebita sovrapposizione di un nostro schema mentale definire quest’arte, come qualcuno ha del resto fatto, un'arte di crisi; sicché quella che apparve a Picasso e ai suoi amici come una meravigliosa possibilità di liberazione, sottratta a ogni formula e convenzione, rappresenterebbe invece una fase di decadenza rispetto alle culture antiche. Quell'arte, che poté essere adoperata come un sasso contro la vetrina dell'accademia (ed è il modo più naturale di adoperarla per chi, anche oggi, si avvicini ad essa), era in sé un'arte profondamente regolata, calata, per così dire, in un'accademia sua che, mantenendola fedele agli archetipi, la metteva al sicuro da un rapido dissolvimento. E così essa e forse sopravvissuta, in tempi calamitosi, alla stessa cultura che l'ha espressa; era in declino il potere delle società segrete, ma ancora si scolpivano bellissime maschere per i membri di quelle società.
Parlando di accademia, si rischia pero che la metafora e l'analogia ci portino troppo fuori strada. È più esatto dire che l'arte africana ha le sue regole, i suoi codici, i suoi modelli o archetipi, che devono essere ripetuti di padre in figlio, perché è appunto manifestazione della collettività, di tutta la sua cultura, e non è mai un fatto individuale, separato. Interpretarla sotto la categoria dell’originalità significa un totale fraintendimento, anche perché, a differenza della nostra -che è sempre stata l'espressione di un'élite e non dell'intero corpo sociale- essa, quando non sia arte di corte, ci offre occasioni esistenziali prima che simulacri. Le maschere antropomorfe o zoomorfe, le statue degli antenati (o degli sposi) sono oggetti di cui è spesso arduo ritrovare l’esatto significato: la cultura dell'Africa di ieri è stata troppo brutalmente sostituita da un'altra; ma noi possiamo esser certi che quella maschera o quella statua erano essenziali alla vita quotidiana nei suoi aspetti religiosi e sociali.
E anche il parallelo che possiamo fare con la nostra arte religiosa -non diciamo d'oggi, che non esiste più, ma di ieri- è assolutamente illusorio: la nostra arte rappresentava il sacro, non era in sé un oggetto sacro, non era la sacertà; l'arte africana è invece tutto questo in forza degli aspetti magici di quella cultura e di quella società. Quegli oggetti sono il tramite tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, tra la materia e l'anima, tra il presente e l’eterno, il visibile e l'invisibile. Sono i veicoli necessari per questi viaggi.
Del resto la nostra arte era arte di storia, dell'Antico e del Nuovo Testamento, e l'arte africana è arte del presente, della vita e del rito inscindibilmente considerati. E quando si torna a porre la domanda se quest'arte abbia una finalità estetica, bisogna ripetere che tale domanda è mal posta. Quest'arte non ha finalità estetiche: ha quelle finalità di artificio, di eccellenza tecnica, di bravura che trovano il loro riconoscimento immediato da parte del corpo sociale e sono alla base non tanto del funzionamento di questo o di quel modo di espressione, ma della stessa psicologia umana. E tuttavia, poiché tale arte percorre e ripercorre il sentiero che ci porta nel regno delle ombre e degli spiriti e non può non avere, per questa stessa dialettica tra vita e morte, un significato simbolico, ne consegue che, essendo il simbolo l'essenza prima dell'operare artistico, essa viene a collocarsi sul piano di quella particolare espressività che è dei mondi poetici.
Il suo linguaggio non è di comunicazione tra gli uomini, ma di comunicazione tra sfere e piani diversi: il versante diurno e quello notturno, la fertilità e la morte. E qui si apre un discorso assai complesso, al quale non siamo certo in grado di dare una risposta, ma che tutt'al più cercheremo di delineare nel suo rilievo problematico. Quel linguaggio di simboli non è, come il nostro, intellettualizzato: tali simboli hanno la loro concretezza nella realtà quotidiana, corrispondono a bisogni precisi, e dovranno essere sempre uguali a quei bisogni. E perciò l’arte negra tende all'iterazione: l'archetipo diventa stereotipo, e molto spesso noi abbiamo lo stereotipo e non abbiamo più l'archetipo; ma lo stereotipo mantiene con l'archetipo un rapporto costante e necessario: lo riproduce volta per volta come per magia, è una transustanziazione di quell'archetipo medesimo. E comunque sia, noi siamo di fronte, generalmente parlando, a un'arte che si tramanda in termini seriali, ma che, proprio per la fortissima significazione spirituale che la sostiene, investe l'artista di un potere creativo che è, prima di tutto, magico, delegandolo alla creazione di nuove forme e magari di nuovi modelli che, per esser nuovi, saranno anche più efficienti.
Credo sia impossibile spiegare perché l'Africa Nera presenti una cosi sterminata varietà di forme insieme con una contraddittoria obbedienza alla perpetuazione delle forme ricevute. Si potrebbe semplicemente dire che i popoli africani sono, per ragioni evidenti, vicini alla sfera del fantastico, e quindi intendono l'arte come libertà e invenzione (come l'immagine concreta di ciò che non si vede) e d'altra parte sono condizionati a offrire (per le accennate ragioni sociali e religiose) la regolarità di un servizio pubblico, tenendosi pertanto al canone, al modello. Ma soprattutto questo nostro discorso dovrebbe portarci alla scelta di un giusto mezzo interpretativo. Non si deve considerare quest'arte come un anonimo prodotto, ma neppure si potrà insistere troppo sull'apporto storico di personalità singole, dimenticando che in questo contesto la vera storia è la preistoria, quella degli archetipi perduti. Il felice ritrovamento, sul territorio e nella loro contestualità, di un gruppo di opere omogenee e di eccezionale tenuta stilistica consentì d'isolare, nel fitto intrico delle culture del Congo, il Maestro di Buli. E anche se non sembra facile che si riproducano le condizioni che hanno reso possibile questa identificazione, gli studiosi sono oggi in grado di aggregare altri gruppi di opere sotto il nome di altri maestri. Ebbene: il rischio più evidente può essere quello dell'attribuzionismo, del quale chiunque abbia pratica della nostra arte antica conosce il fascino e i limiti. Ma diciamo in più che gli stessi rischi si presentano senza le stesse necessità.
Certo noi possiamo isolare gli esemplari cronologicamente più alti di uno stesso stile e di una stessa immagine e riconoscere, a quel punto della successione, la presenza di una medesima mano artistica, ma queste nozioni si rivelano immediatamente assai diverse nelle loro valenze rispetto alle analoghe d'uso europeo. Quando parliamo, per la nostra arte, del Maestro di Flémalle o del Maestro di Moulins siamo certi che quei gruppi di opere sono ferreamente determinati da una cronologia che non lascia adito a sorprese. Il Friedlãnder diceva che quando facciamo della critica facciamo sempre della cronologia: ebbene, questa condizione necessaria e ideale per lo studioso d'arte europea non si pone per quest'altra arte. Cosi noi conosciamo un numero grandissimo di maschere di cultura Baulé riconducibili alla caratteristica di una capigliatura asimmetrica, ma sappiamo anche che quelle maschere non possono appartenere tutte a una sola mano; e come ci sono maschere siffatte di cronologia più bassa, che sono degli affascinanti stereotipi, niente vieta che altre, di cronologia più alta o altissima, restino per ora fuori dalla zona illuminata della nostra ricerca.
Noi possiamo dunque trovarci di fronte a un vero maestro, nell'accezione corrente di questa parola, oppure a una persona artistica che interviene su un dato modello a una certa altezza della sua trasmissione. L’elemento indispensabile per l'individuazione dovrebbe essere, naturalmente, la qualità dell'opera; ma quello di qualità è un concetto applicabile sia all'inventore come all'interprete; e di fronte alla diversità esecutiva presente nelle maschere dovremo ammettere di essere ancora una volta in quell'alto mare in cui la regola del gioco è il rapporto fra tradizione e infrazione, sempre nell’incertezza che l’infrazione non sia il segno documentato di una tradizione diversa. E anche lo stesso concetto di qualità, che abbiamo invocato come criterio di ogni nostro accertamento, può sfuggirci del tutto. Indubbiamente c’è un’arte africana di bassa qualità, ma quando si passa alla qualità alta o sublime non bisogna dimenticare che spesso essa coincide esattamente con l'idea formale, prima ancora che con l'esecuzione manuale e tecnica.
L'arte africana ha insomma, nella sua essenza, un altissimo indice di concettualità (senza riferimento alcuno alla nostra arte concettuale), che si porta al di sopra della stessa manualità e ci rimanda ancora una volta a una radice platonica secondo la quale l'idea è prima della cosa e si colloca stabilmente fuori della storia e del mondo. Che è una condizione ben ardua e ben difficile da essere accettata sul piano pratico, ma dalla quale credo non sia possibile prescindere del tutto.
Quanto invece al piano storico, l'esempio più suggestivo del rapporto tra codice linguistico e infrazione ci è forse dato dalle maschere Dan, nelle quali il gioco tra lo schema formale di base e la partecipazione interpretativa dell’artista è vivacissimo e sempre ricco e aperto a nuove declinazioni, e dove l’elemento qualitativo svolge un ruolo determinante: senza, con questo, dimenticare il fatto che le macrovarianti di questo stile (il tipo con gli occhi chiusi e il tipo con gli occhi circolari aperti) appartengono anch’esse alla tradizione e non all’interpretazione. Più generalmente invece il concetto di qualità funziona in accezione negativa, ed è l’etnografo, più che lo studioso d'arte, a dovere interessarsi di questi manufatti. C'è un'arte africana che può essere cupa e disperata, ma è soprattutto povera, senza tramite di comunicazione con la radice ideale che è sempre presente nell’arte maggiore.
(...)
La grande arte dell'Africa Nera non è arte primitiva. Il primitivismo e stato una categoria essenziale del nostro Novecento: una categoria a prescindere dalla quale non si può neppur cominciare un discorso; ma se al primitivismo è stata necessaria la scoperta dell’Africa Nera, non per questo è primitiva l'arte africana. Come possono essere primitive una testa o una maschera Fang nelle quali il processo di resa formale è tra i più elevati nella fenomenologia dell’arte di ogni tempo e di ogni popolo? Come può essere primitiva una maschera Punu in cui, al di là della tipologia stilistica, l'intensità spirituale e psicologica non chiede ulteriore perfezione? L'arte negra accelerò la liquidazione ultima dell'Ottocento che a quel punto era necessaria. L'Ottocento naturalista non era stato annullato, bensì sublimato nell’impressionismo; l'incontro con l'Africa fu quello di una cultura, la nostra, che trasferiva nella propria arte solo ciò che aveva davanti agli occhi, con un’altra cultura di segno opposto, che, come abbiamo detto, rappresentava solo ciò che non si vedeva. E si penso che quest’altro modo di fare arte dovesse essere primitivo solo perché l’Ottocento borghese si era espresso attraverso l’estremizzazione del tecnicismo. Fu certo un equivoco. Non si capi che l'arte negra era semplicemente un'arte religiosa, mentre l’arte europea aveva completamente perduto il senso di quel valore. Ma proprio per questa disparità di potenziali ci fu la scarica elettrica essenziale all’arte nostra; e fu anche per l’intelligenza dell'arte africana, se si cominciò a capire che quello che non ci somigliava non per questo rientrava automaticamente sotto il concetto di brutto.
Oggi possiamo dire che proprio la bellezza intatta di quest'arte stabilisca con noi contatti più profondi e ci dia la prova di una verità che non alberga certo nei musei sperimentali d’arte moderna e contemporanea; e tuttavia quest'arte ha il diritto di essere capita e conosciuta in sé, secondo i suoi principi. Snobisticamente mi piaceva asserire che la scultura negra fosse la vera scultura moderna. Oggi non lo direi più: mi sono reso conto che quest'arte si colloca in un tempo che ha preceduto il crepuscolo degli dei. È là che bisogna raggiungerla procedendo a ritroso; non vale proiettarla in avanti misurandola al nostro intellettualismo, ai nostri parametri avanguardistici. Ritroveremo cosi la lingua che si parlava nel paradiso terrestre, e ci meraviglieremo nel constatare che tale lingua è già dotata di strutture grammaticali solidissime e di aspetti di pura espressività nei quali ogni grammatica sembra dissolversi. Finiremo allora per riconoscerci in questa diversità, per riscoprire radici che credevamo essiccate. Ma la nostra esperienza non sarà monocorde: all'alba della creazione l'uomo disponeva già di tutte le chiavi estetiche che sono ancor oggi in vigore nel nostro decrepito sistema: dalla classicità più gentile alla violenza espressionistica.
L'arte africana e, nelle sue manifestazioni, unitaria e molteplice. Come dicevamo, ristabilisce intorno a noi il silenzio, ma dentro di noi insinua interrogazioni urgenti che ci coinvolgono direttamente. Da dove veniamo, a che punto siamo della nostra vicenda? Non sarà forse che questo contatto ristabilito tra un mondo che finisce e un mondo che restò allo stato nascente significhi che veramente è compiuta la “plenitudo temporum” che ci è toccata in sorte?

 

 

 

 

 

Teke. Feticcio "butti", 1928.

 

 

 

 

 

Igbo. Maschera "nwabogho ehi", 1930/1939,

 

 

 

 

 

Luba. Singiti e sgabello a cariatide, 1887.

 

 

 

 

 

Ika. Staff "uruxhe", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Igbo. Maschere cerimonia "mmanwu", 1914.

 

 

 

 

 

Nkporo. Maschera "ogwu", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Item. Maschera "lugbulu", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Vili. Feticcio "n'kozzo" o "kozo", 1910.

 

 

 

 

 

Mende. Maschere "bundu", 1910.

 

 

 

 

 

Vili. Feticcio "nkonde", 1916.

 

 

 

 

 

Ngangela. Maschera, 1930.

 

 

 

 

 

Teke. Feticci, 1906.

 

 

 

 

 

Songye Tempa. Feticcci, oggetti, maschere, 1910.

 

 

 

 

Songye occidentali. Maschera, 1934.

 

 

 

 

Vili. Feticci "nkonde", 1885.

 

 

 

 

...perchè i feticci entrassero al museo immaginario con tutto il loro significato,
bisognerebbe che l'uomo bianco,
e non un certo gruppo di artisti o di amatori d'arte,
rinunciasse alla volontà che, da Roma in poi,
lo definisce difronte al mondo.
Dovrebbe accettare di scegliere quella parte di sè che appartiene al mondo delle profondità,
di scegliere, non di annettere.
Non si tratterebbe più, allora,
di sapere quale dovesse essere il posto di queste arti,
perchè non si tratta più soltanto di forme cariche di un altro mondo(sempre però di forme).
Se esse trovano la voce piena della loro predicazione,
non invadono il museo:
lo bruciano.

 

André Malraux

 

 

 

 

 

Bambara. Maschera e feticcio "boli", 1910.

 

 

 

 

 

Igbo. Maschera "ekpo", 1905.

 

 

 

 

 

Vili. Feticci "nhouangi", "ndouda" e "ki-mpoumbou", 1910.

 

 

 

 

 

Igbo. Maschera "okorosha oma", 1930.

 

 

 

 

 

Ngusu Ada. Maschere, 1930/1939.

 

 

 

 

 

Ikwerri. Maschera "jack", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Kongo. Feticcio "nkonde", 1901.

 

 

 

 

 

Kota. Reliquario, 1933.

 

 

 

 

 

Bambara. Maschera "tjiwara", 1910.

 

 

 

 

 

Bambara. Maschera "n'tomo", 1910.

 

 

 

 

 

Teke. Feticcio, 1906.

 

 

 

 

 

Songye. Maschera "kifwebe", 1934.

 

 

 

 

 

Kuba. Maschere, ante 1914.

 

 

 

 

 

Zombo. Maschere "Nlongo", 1903.

 

 

 

 

 

Bwende. Processione "niombo", 1932.

 

 

 

 

Società e arti tribali. Stephan Paudrat, 1998.


Il concetto di arte tribale è stato proposto (W. Fagg, 1965) in sostituzione di quello di arte primitiva. Le società primitive non vengono più confrontate con quelle che non lo sono ma tra di esse. Ci si propone di distinguere le arti e i loro stili differenziando le tribù che producono queste arti. L'intento classificatorio è palese. In realtà la maggior parte delle attribuzioni utilizza come etichette o predicati nomi di «tribù››. Secondo W. Fagg, ogni tribù, "sul piano artistico forma un universo a sé". "Questi universi sono realmente chiusi l'uno nei confronti dell'altro e (...) il loro orizzonte è racchiuso entro le loro frontiere (...). La tribù è un gruppo circoscritto, esclusivo, per il quale l'arte è un mezzo, tra altri, per esprimere la solidarietà interna e l'autarchia e, inversamente, per differenziarsi dagli altri gruppi". Di conseguenza, due aspetti contrappongono la tribù alla nostra società. In primo luogo, poiché l'arte è funzionale all'interno di una tribù, non esiste discordanza alcuna tra questa e il suo pubblico; inoltre, poiché l'arte, al di fuori della tribù, non è funzionale, i membri di una tribù “sono indifferenti alle arti delle altre tribù”, mentre la nostra società è in grado di accogliere tutte le arti (p.12). Per la verità, va detto che W. Fagg integra questa tesi con sfumature e restrizioni che alcuni critici contestano.
Ma questa tesi presenta un nucleo, riassunto da una formula canonica: “una tribù, uno stile”, che costituisce il bersaglio di numerose critiche (D. Biebuyck, 1966; F. Willett, 1971; S. Ottenberg, 1971; R. Bravmann, 1973; L. Siroto, 1976; J. Vansina, 1984; C. D. Roy, 1985, tra gli altri). Bersaglio della critica non è tanto l'uso delle attribuzioni tribali, quanto il fatto che non sono esaurienti: esse devono essere considerate solo come approssimative e provvisorie. Il nucleo della tesi comprende tre elementi: una relazione e i suoi due termini. La relazione è una corrispondenza biunivoca, uno-uno: una tribù, uno stile. I termini sono le diverse tribù classificate nel concetto generale di tribù e le loro diverse arti poste nel concetto generale di stile. Le critiche riguardano questi tre elementi.

 

 

 

Kongo. Feticci regione Loango, 1916.

 

 

La corrispondenza tra tribù e stile.
In linea generale, l'ipotesi di una corrispondenza biunivoca può essere considerata in due modi complementari. Si menzionano alcuni casi osservati nei quali uno dei termini di una serie corrisponde non a un solo termine, ma a due o anche più termini dell’altra serie. In questo contesto si citeranno due casi di corrispondenza: 1) tra una sola tribù e due o più stili: si respingerà così l'omogeneità stilistica inter-tribale; 2) tra un solo stile e due o più tribù: si respingerà così l'eterogeneità stilistica inter-tribale e la chiusura delle frontiere. Ora, gli esempi di questi due casi abbondano nella letteratura etnografica e la tesi che non li considera si rivela una semplificazione ingiustificabile della realtà studiata.
Primo caso: corrispondenza tra una tribù e due o più stili. La denominazione tribale è provvisoriamente accettata; d’altra parte, non si tratta di sotto-stili che corrispondono a sotto-gruppi della tribù, essendo mantenuta la corrispondenza biunivoca tra sotto-tribù e sotto-stili. Si può così contrapporre (S. Ottenberg, 1983, p.51) l'arte yoruba, che "ammette una variazione regionale all'interno di un quadro estetico generale", al fatto che "non esiste alcuna forma di arte con valore di tipo per tutti gli Igbo". Ad esempio, gli stili delle maschere udi, bende, achi e afikpo sono tanto diversi gli uni dagli altri quanto lo è ciascuno di essi da quello dei Bini e degli Yoruba (Bascom, 1973, p.102). Non vi è corrispondenza tra la diversità dei sotto-stili igbo e l’omogeneità culturale dell’etnia nel suo insieme.
Stili molto differenti possono essere osservati non solo all'interno di una stessa tribù, ma anche in una stessa istituzione. Presso i Baulé, durante la danza goli vengono utilizzate maschere "di aspetti così diversi che potrebbero essere attribuite a popoli diversi (...) se non si conoscesse la loro provenienza" (G.N. Preston, 1985, p. 14). Gli stili di queste maschere si differenziano secondo tre parametri: bi- o tridimensionalità, semplicità o complessità, astrazione o naturalismo. Una differenza di stile può essere rilevata su un solo e medesimo oggetto ed essere giustificata da considerazioni iconografiche. A proposito dello sgabello dogon detto “imago mundi”, Jean Laude (1973, p.84 e 1978, p.96) scrive che non tutti i personaggi manifestano lo stesso stile, a seconda che essi rappresentino un sacerdote (hogon) o alcuni personaggi mitici ("nommo"). In alcuni gruppi in bronzo del Benin, il re divino ("oba") e lo schiavo non sono rappresentati nello stesso stile: le loro proporzioni sono molto diverse.
La maschera yoruba detta "epa" è composta da una maschera elmo, in stile non naturalista, e da una sovrastruttura le cui figure palesano il criterio della “mimesi relativa” (Thompson, p.4). Quando le differenze stilistiche si manifestano nell'iconografia, è opportuno ricordare che il "soggetto" rappresentato può appartenere allo stile (N. Goodman, 1978, II, 2). Non bisogna dedurne che la formula “una tribù, uno stile” non sia applicabile in alcun caso, ma solo che essa non lo è in tutti i casi e che non può quindi caratterizzare l'arte africana in generale.
Secondo caso: corrispondenza tra uno stile e due o più tribù. Sarebbe come dire che l'area di ripartizione dello stile non coincide con i territori tribali, o che la frontiera tribale è valicata o attraversata e non ha perciò limiti netti o impenetrabili. I casi citati possono così servire a respingere una delle proprietà che definiscono la tribù. In alcuni casi, lo stile considerato è correlato con un'istituzione comune alle diverse tribù, istituzione che utilizza gli oggetti di questo stile. Un esempio sono le maschere elmo prodotte da uomini ma, evento raro se non addirittura unico in Africa, portate dalle donne, che vengono utilizzate da una società iniziatica femminile, chiamata "sande" o "bundu", presso i Mende della Sierra Leone, e presso i Bassa, i Vai, i Gola, i Kpelle e i Dei, in Liberia (M. Adams, 1982, pp.62-69). Si potrebbero probabilmente distinguere dei sotto-stili tribali, che sono però subordinati a uno stile comune in relazione a questa istituzione comune e non alle tribù.
In altri casi è una tecnica comune a diverse tribù. Per pesare la polvere d'oro si utilizzavano dei pesi in ottone, e in particolare dei pesi dai tratti figurativi, il cui stile è comune a diverse tribù del gruppo akan, come i Baulé e gli Ascianti. (Questo stile è, peraltro, diverso da quello delle statuette o delle maschere di queste tribù, particolare che costituisce un altro esempio del primo caso). Vanno dunque ricercate le ragioni che portano gli oggetti e il loro stile a valicare e attraversare le frontiere: è quanto ha fatto R. Bravmann in un saggio intitolato “Frontíêres ouvertes”. Consideriamo in particolare la circolazione commerciale degli oggetti, anteriore alla colonizzazione, e l'esistenza di mercati nei quali clientela e fornitori provenivano da tribù diverse. Attraverso indagini di questo genere si passa dall'etnologia alla storia dell'arte africana tradizionale.

 

 

 

Ekoi. Maschera società "oban", 1912.

 

 

Il concetto di tribù.
Tralasceremo le critiche (ad esempio Godelier) che vertono direttamente sul concetto di tribù e prenderemo in considerazione quelle che puntano sull'applicazione di questo concetto all'arte: sia i diversi gruppi sociali ai quali si applica il termine di tribù, che le proprietà degli stessi che rientrano nella definizione del concetto. Perché il concetto sia comune e abbia limiti definiti è necessario che tutte le proprietà che esso comprende siano autentiche per ognuno e dunque per tutti questi gruppi sociali. A rigor di termini, basta dimostrare che una di queste proprietà non adempie a questa condizione.
Secondo la tesi, le frontiere della tribù sono chiuse e per questa ragione devono essere precise. Ora, non tutti i gruppi denominati tribù possiedono delimitazioni precise. Presupporre una frontiera netta significa proiettare nell'Africa tradizionale un fatto europeo moderno. Le frontiere degli Stati attuali derivano dalla colonizzazione e attraversano spesso territori etnici anteriori. Diversi gruppi cosiddetti tribali sono il risultato di raggruppamenti di popolazioni da parte dell'amministrazione coloniale.
Le frontiere di una tribù sarebbero i limiti geografici di un territorio occupato in maniera omogenea da tutti i membri di una tribù e da essi soli. Questa popolazione omogenea risulta così concentrata. (La concentrazione si differenzia dalla densità: una popolazione di scarsa densità può essere omogenea e concentrata.) Ora, nell'Africa tradizionale, la ripartizione territoriale delle popolazioni non presenta quest'unica forma. Una popolazione può essere dispersa; può essere divisa in due o più parti omogenee, separate da una o da diverse altre popolazioni; può essere mischiata a popolazioni diverse; può essere in parte omogenea e concentrata e in parte mescolata. In alcune regioni dello Zaire (ora RDC), ad esempio, la dispersione e la mescolanza sono la forma di ripartizione più frequente (Biebuyck, 1985).
Imponendo frontiere precise e chiuse a queste “tribù”, l’etnologo assomiglia a quelli che, secondo Prevert, "conficcano in sogno dei cocci di bottiglia sulla Grande Muraglia cinese". Così, Bravmann parla di frontiere aperte. Avere frontiere precise e chiuse è una proprietà che non appartiene a tutti i gruppi chiamati tribù. Beninteso, non vanno confuse le frontiere delle tribù con le frontiere del concetto di tribù, l'uso letterale e l'uso metaforico della parola. Non tutti i gruppi chiamati tribù sono contraddistinti dalla proprietà di possedere una frontiera (in senso letterale) definita, pertanto tale proprietà non servirebbe a definire la tribù mediante un concetto che ha un limite (metaforicamente) netto. Questa argomentazione può essere applicata ad altre proprietà, come la lingua (Vansina, 1984, pp. 31-32).

 

 

 

Mende. Maschere "bundu", 1905.

 

 

Il concetto di stile tribale.
Il concetto di stile, come quello di tribù, può essere esaminato per se stesso (M. Schapiro, 1982) o nella sua applicazione all'arte tribale. Lo stile tribale è determinato da un tipo morfologico costituito, in linea generale, dai tratti comuni a tutte le opere prodotte nella tribù. Questo tipo o è descritto verbalmente mediante proprietà comuni, o è simboleggiato da un disegno schematico. Lo si può esaminare da due punti di vista. Innanzitutto, qual’è la procedura per la definizione del tipo? La si ottiene per confronto e astrazione: si osserva il maggior numero possibile di opere concrete e, per confronto, se ne definiscono i caratteri comuni. Ma non è possibile disporre di tutte le opere prodotte dalla tribù; il materiale disponibile e dunque il risultato di una selezione.
Questa selezione deve essere fatta su pezzi accompagnati da una precisa documentazione, per evitare di confondere, ad esempio, la produzione di una bottega molto attiva e uno stile tribale rappresentato da pochi oggetti (Vansina, 1984, p.29). Per giunta, la selezione deve rappresentare una campionatura statistica; condizione questa raramente soddisfatta. Può essere messo in discussione anche l'intento di costituire tipi morfologici così concepiti. Poiché questi tipi hanno funzione di predicati nelle attribuzioni, si può ricorrere a un'osservazione di M.J. Friedländer (1969). Egli non analizza la proposizione attributiva, ma la procedura intellettuale e percettiva che pone e garantisce l'attribuzione. Si parte dalla "convinzione che la personalità artistica è una e indivisibile", che l'artista resta identico a se stesso nel corso della sua vita e “che un certo non so che di insostituibile si manifesterà in ognuna delle sue creazioni” (p.225). L'osservazione attenta e continua di opere indiscutibilmente autentiche consente all’”intenditore” di formare un'immagine generica con cui egli confronta le opere alle quali deve ancora essere data un'attribuzione; immagine che costituisce, per un sostenitore dell’intuizione come Friedlãnder, ciò che per i sostenitori del metodo di Morelli rappresenta il tipo. Ma, egli continua, questa convinzione è "spesso smentita dai fatti".
(...)
"Se, nonostante numerosi insuccessi proseguiamo in questa ricerca, ci troviamo nella stessa situazione di quella persona che, pelando una cipolla, deve alla fine riconoscere che questa non contiene altro che buccia" (p.230). La delusione di chi pela una cipolla è analoga a quella del tipo che, disfando la corda di Wittgenstein, cercasse una fibra che la percorre per tutta la lunghezza. Non vi sono tipi comuni a tutte le opere, non vi sono fibre che percorranno tutta una corda e non vi sono noccioli sotto la buccia della cipolla. “Se”, continua Friedländer, “tutti i quadri di Rembrandt fossero andati perduti salvo due, uno del 1627, l’altro del 1660, sarebbe impossibile collegarli mediante il solo esame dello stile. Si devono conoscere tutte le maglie della catena, cioè l’intera opera, per essere in grado di associare logicamente l’inizio alla fine” (id).
Tra i due estremi senza proprietà comuni, si ritrova la serie continua di intermediari di Wittgenstein, F. Willett e M. Roskill. Queste indicazioni possono essere trasposte dalla personalità artistica individuale al tipo morfologico collettivo. Vansina (1984, pp.90-91) fornisce un ottimo esempio dell'inserimento di un intermediario tra due entità stilistiche senza tratto comune: "Consideriamo lo stile tipicamente centrale del Shaba (Luba) costituito da volumi arrotondati, poi lo stile nord-orientale del Kasai (Songye), quasi cubista con i suoi volumi angolari tratti da forme geometriche. È difficile qui immaginare uno stile di transizione. E tuttavia esiste davvero e offre dei capolavori sorprendenti" (Anversa, Museo etnografico, n. A E 744). Nelle tipologie abituali, anziché introdurre intermediari o transizioni, si parla di tipi misti e alcune opere vengono classificate come atipiche, cioé inclassificabili.
Da tutta questa dissertazione sulla nozione di arte tribale, si possono trarre due conclusioni, non egualmente rigorose. La più grave è decidere l'abbandono puro e semplice della ricerca del tipo tribale; le attribuzioni tribali potrebbero essere conservate solo ammettendone la limitatezza: un minimo di classificazione basato sull’etnocentrismo, anche se assolutamente insoddisfacente è meglio di una totale mancanza di ordine. "È ora di rinunciare a questa nomenclatura artificiale. Gli oggetti andrebbero classificati a seconda del loro villaggio e della loro bottega di origine, se conosciuti, altrimenti mediante il riferimento all’istituzione alla quale sono associati" (Vansina, id., p.33). D. Biebuyck (1985, p.97), è meno severo: egli accorda alla classificazione tribale un valore euristico. Che, nella nostra terminologia sull'arte tribale, non sarebbe un concetto scientifico, ma solo un abbozzo provvisorio che consente di avviare l'indagine, in breve, un'anticipazione.

 

 

 

Bamileke. Maschera "nshen" e diverse, 1917.

 

 

Specificità e purezza.
Si è sostenuto che gli oggetti africani non fossero espressione dell'arte ma della religione. Questa convinzione negativa derivava da ciò che si intendeva per arte: o oggetti che imitano fedelmente un modello naturale, o “l'arte per l'arte”. La nozione dell’arte per l'arte è la volgarizzazione della nozione kantiana di finalità senza fine. A rigore, non solo le opere africane, ma tutte le opere religiose non dovrebbero considerarsi arte; esse manifestano un’arte concepita diversamente dall'arte per l’arte. O si riconosce la differenza tra due statuti diversi dell'arte, oppure, trasformando questa differenza in negazione, si esclude dall'arte tutto ciò che non si manifesta come arte per l’arte. Questa esclusione presuppone un kantismo volgarizzato e mal interpretato. Ma in realtà Kant, che a quanto sembra è la bestia nera degli etnologi, non c'entra. Egli non sostiene che un’opera con un fine funzionale non sia un’opera d'arte, ma solo che essa non è puramente artistica. Sul piano dell’analisi concettuale, egli purifica la nozione di opera d'arte, ma non pretende che le opere concrete debbano essere perfettamente adeguate a questa nozione pura.
In altri termini, egli distingue specificità e purezza. La specificità è l'insieme delle proprietà che definiscono l'opera d'arte; ma, una cosa è la definizione, altra cosa sono le opere concrete che essa definisce. Queste ultime possono presentarsi sotto due diversi aspetti. O possiedono soltanto le proprietà che definiscono l'arte, e allora sono opere d'arte allo stato puro. Oppure possiedono si queste proprietà, che le rendono specificatamente artistiche, ma possiedono anche caratteristiche funzionali; in questo caso non si può dire che siano puramente artistiche. La purezza implica la specificità; ma a queste opere impure o funzionali si ha il diritto di chiedere solo la specificità. La confusione fra specificità e purezza crea un'aspettativa di purezza e porta quindi a rifiutare qualsiasi opera d'arte che sia impura. Il fatto che delle opere siano utilitaristiche o funzionali non è una ragione sufficiente per escluderle dall'ambito dell'arte, ma soltanto da quello dell'arte pura. La distinzione tra lo stato di purezza e di impurità non è meramente concettuale, non è semplicemente una visione della mente. Una stessa opera d'arte può presentarsi sotto queste due forme.
Gli oggetti africani osservati nel loro luogo di origine e di utilizzo sono funzionali; ma gli stessi oggetti, sradicati da questo contesto e spesso spogliati da ciò che viene ritenuto accessorio, vengono conservati nel museo come opere puramente artistiche, facendo astrazione o ignorando le loro proprietà funzionali. Certo non tutte le opere funzionali possono ricevere questo secondo statuto: devono infatti necessariamente possedere una specificità artistica, che non sempre è legata al valore funzionale.
Sono due le applicazioni del concetto di purezza che ci interessano direttamente. La prima concerne le relazioni tra l'arte e ciò che è “altro” rispetto all'arte, religione, politica, giustizia, magia o tecnica. Queste altre espressioni della cultura costituiscono, per l'opera d'arte, altrettanti fattori o elementi di impurità; ma quando, anziché escluderli, li si prende in considerazione, essi forniscono all'opera le sue funzioni o i suoi usi. Si può comprendere come un approccio funzionalista all’arte mal si concilia con le nozioni di arte per l'arte o di arte pura. La seconda applicazione del concetto di purezza riguarda la relazione tra un’arte e le altre arti, ad esempio tra la scultura e l'architettura o la pittura, o, in Africa, tra la scultura e la danza o la musica. In Occidente, con l’intenzione di realizzare dell'arte pura è apparso il proposito di realizzare una poesia pura, una pittura pura, una scultura pura. In effetti, la storia delle teorie occidentali dell’arte dimostra che la questione della relazione tra le differenti arti è duplice.
Da una parte, dividendo il genere "arte" nelle sue diverse specie, le “arti”, si intende dare una classificazione e una definizione di ciascuna di esse; classificazione che, suddividendo le arti alla stessa stregua delle specie naturali, definisce lo stato di purezza di ciascuna di esse eliminando gli ibridi. Dall'altra parte, si riuniscono le varie arti, subordinandole le une alle altre, per arrivare alla fine a metterle sotto il dominio di un’arte dominante egemonica, o "architettonica". Questa seconda prospettiva è, per Collingwood, caratteristica del funzionalismo (che egli definisce teoria tecnica dell’arte). Il prodotto di ogni arte è utilizzato da un'altra arte alla quale, per questa ragione, è subordinato. Così, ad esempio, l'architetto utilizza la scultura come elemento decorativo o iconografico. È chiaro dunque come un'arte architettonica si accordi all'approccio funzionalista.
Ora, in contrapposizione alla ricerca della purezza nell'arte, c'è l'idea di un'arte totale come l'opera wagneriana o la danza secondo Serge Lifar, che non è altro se non una metamorfosi dell’idea di arte architettonica. È allora consentito chiedersi se alle due possibili maniere di considerare una scultura africana -fuori dal suo contesto, in un museo, e, in situ, nel suo luogo d'origine e di utilizzo- non sarebbero consone le nozioni, rispettivamente, di scultura pura e di scultura integrata a un insieme funzionale costituito dai rituali, dalle cerimonie o dalle feste che offrirebbero l'analogo africano dell'opera occidentale. Per quanto riguarda quest'ultimo punto, sono richieste due condizioni.
In primo luogo il riconoscimento, ancora una volta, con J. Vansina (1984, pp.126-129), dell'esistenza di arti "di performance" come danza e musica, accanto ad arti plastiche o ad esse associate. In secondo luogo il riconoscimento dello statuto artistico delle attività di performance, come i rituali, le cerimonie o le feste; se non a tutte, almeno ad alcune.
(...)
La nozione di purezza presuppone quella di essenza o di natura. In effetti, è pura una cosa costituita esclusivamente di elementi che compongono la sua natura o la sua essenza. Un'acqua pura contiene solo molecole d'acqua, senza nessun altro corpo sciolto. In senso classico, secondo Platone, la natura o essenza è indicata da questa domanda: cos'è? La definizione formale di essenza è la risposta a questa domanda. Così, se parliamo di arte pura, implicitamente presupponiamo che esista un'essenza dell'arte e che disponiamo di una definizione rigorosa di essa; parlando di scultura pura, ad esempio presupponiamo una definizione rigorosa della scultura. Questo duplice presupposto non sembra fondato. Se disponessimo di tali definizioni, accettate dalla comunità degli esperti, si verrebbe a sapere, come dice Sartre. Argomento tipicamente scettico: tante teorie dell'arte o della scultura, tante definizioni diverse. Noi proporremo l'ipotesi che non esista un'essenza o una natura dell'arte e della scultura.
Ma rinunciare a questi presupposti essenzialistici non rende necessariamente superflua la distinzione tra specificità e purezza; richiede solo che la si consideri in altro modo. Un'arte pura e un'altra forma culturale distinta, come la religione, possono essere considerati i poli estremi di una serie di intermediari che permettono di collegarli gradualmente. Del resto, se esistono arti profane, non religiose, esiste una religione senza arte? Lo stesso dicasi tra una scultura indipendente dall'architettura e una architettura senza scultura (che realizza lo stile internazionale e verso la quale tendeva l'austerità cisteriana); esistono fra di esse intermediari che possono subordinate sia l'architettura alla scultura che la scultura all'architettura. Consideriamo il monumento equestre, raffigurato da Donatello e dal Verrocchio. In una classificazione purista, in quale scomparto classificarlo? Nessuno gli si addice, oppure gli si addicono tutti. Lo si può inserire forzatamente in una tale classificazione ma rompendo l’unità dell’opera in due parti: il basamento e la statua equestre.
(...)
La preferenza accordata al purismo nello studio delle relazioni tra l’arte e le altre forme culturali, o tra la scultura e le altre arti, è etnocentrica e anacronistica. Nella società occidentale moderna, le diverse forme culturali tendono a separarsi realmente, a costituirsi in istituzioni distinte e a rendersi indipendenti. L'autonomia dell’arte, considerata spesso come una conquista della seconda metà del XIX secolo europeo, ne è un caso particolare. Le istituzioni giuridiche ed educative si dividono dalla religione e, più difficilmente, dallo stato. J. Ellul (1954) ha dimostrato magistralmente come la tecnica si sia costituita forma culturale autonoma. Al contrario, dovunque nelle società tradizionali del passato o contemporanee, le diverse istituzioni o forme culturali sono intimamente associate. "Migliorando la nostra conoscenza della cultura africana antica, diventa più chiaro che tutto vi è intessuto a numerosi livelli" (W. Fagg, 1971, p.7). Lo statuto di arti particolari, come la scultura, richiama la stessa osservazione. In ogni caso, serie di predicati di somiglianza familiare ci paiono più adatti a descrivere la situazione africana, rispetto ai concetti comuni con limiti precisi che mirano a definire l'essenza o la natura.

 

 

 

 

 

Tchokwe. Maschera "lwena mwana pwo", 1920.

 

 

 

 

 

Ibibio. Maschera "hinged jaw", 1932/1938.

 

 

 

 

 

Igbo. Statua "ikenga achalla", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Abua, Maschera "oki", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Ejagham. Maschera, 1912.

 

 

 

 

 

Ekoi. Maschere, 1918.

 

 

 

 

 

Baga. Maschera "d'mba" o "nimba", 1938.

 

 

 

 

 

Bamun. Maschere, 1930.

 

 

 

 

 

Luba. Pipa e "mboko", 1910.

 

 

 

 

 

Kuba. Maschere, 1909.

 

 

 

 

 

Lunda. Feticcio, 1906.

 

 

 

 

 

Songye. Mankhisi di comunità. ca.1930.

 

 

 

 

Sungu. Maschera, 1908.

 

 

 

 

 

Bembe. Statue "niombo", 1927.

 

 

 

 

Estetica. Lucien Stephan, 1988.


Estetica 1. Deformazione e goffaggine.
Per molto tempo si è considerato che gli scultori africani deformassero il corpo umano e, più in generale, le cose che essi rappresentavano. "Deformazione" è un termine ambiguo: la parola designa un'operazione e il suo risultato. La deformazione-risultato è rimproverata all’opera, la deformazione-operazione all'artista: lo si accusa di goffaggine, di insufficienza tecnica, di trascuratezza, d'incapacità nell'imitazione o nella fedele rappresentazione del modello. Frequentemente questi rimproveri non sono indirizzati ai soli oggetti e artisti africani, ma a tutti gli oggetti realizzati secondo una concezione di arte diversa dal classicismo e dall'imitazione della natura. A volte, benché in pochi ormai attribuiscano al classicismo valore di universalità, queste critiche sfuggono ancora, per così dire, ad autori seri. La forma-risultato non è che una forma diversa rispetto a quella che ci si attendeva. Se ciò che ci si attendeva era una forma che riproducesse fedelmente il corpo umano, la constatazione di una diversità trasforma questa differenza in negazione. Lo stesso vale quando la forma presenta proporzioni differenti da quelle del corpo umano: la scultura viene allora definita sproporzionata o malamente proporzionata.
Risalendo dal risultato all'operazione, dall'opera all'artista, si collega la forma osservata a una scelta intenzionale dello scultore: egli avrebbe voluto imitare fedelmente la natura e non c'è riuscito, per carenze tecniche, mancanza di capacità o di abilità, trascuratezza. Ma l'imputare allo scultore un'intenzione imitativa non ha alcuna base empirica, non è legittimata da alcuna informazione etnografica; anteriore all'incontro con l'oggetto, essa viene anticipata poiché siamo indotti a giudicare questa intenzione confrontandola con quella dello scultore europeo classico o accademico. Il duplice giudizio negativo, deformazione e goffaggine, unifica cosi i due aspetti del disconoscimento descritti in precedenza. Come e con cosa sostituire queste anticipazioni etnocentriche? E’ necessario in primo luogo osservare attentamente l'opera.
Il primo effetto dell’osservazione è quello di individuare ciò che possiamo definire provvisoriamente deformazione, con l'intento di correggerlo e sostituirlo con quello di deformazioni coerenti. Si passa così da un confronto tra le forme della scultura e quelle del corpo umano a un raffronto tra le forme delle parti che costituiscono la scultura. Se ne trae sovente il senso di una somiglianza mentre i rispettivi modelli dovrebbero renderle dissimili. Tutto si svolge come se un’unica regola di deformazione, o meglio, di trasformazione fosse applicata dallo scultore alla resa delle parti del supposto modello. Questa regola, unica per un'opera, varia per opere differenti. Le trasformazioni coerenti della realtà extrartistica sono in numero pari agli stili. La coerenza delle deformazioni è un sintomo o una manifestazione di stile. Si è così passati dalla rappresentazione (imitativa) delle forme (extrartistiche) alla forma (artistica) della rappresentazione.
Così alcune maschere o alcuni visi scolpiti presso i Bamileke riproducono tutte le parti del viso umano per mezzo di linee nette dalla forma di segmenti di curve, di curvature e di dimensioni assai simili. L'acconciatura Wurkun suggerisce le medesime osservazioni. Alcune maschere Dogon presentano dei segmenti di destra disposti ad angolo retto, in modo che forme parziali rettangolari rappresentino parti di un viso nel contempo non rettangolari e dissimili. Nell'oggetto Baga chiamato "nimba" riprodotto di profilo si possono rilevare le curvature simili e orientate diversamente della cresta, della linea del naso e degli incavi che poggiano sulle spalle di chi lo porta. Il profilo di un copricapo tchiwara di origine Bamana presenta una variazione nella curvatura degli assi di tutti i suoi elementi plastici aventi valori figurativi diversi. Si potrebbero agevolmente moltiplicare gli esempi.
Per descrivere le somiglianze tra forme parziali aventi valori rappresentativi diversi, si può chiedere in prestito a D.H. Kahnweiler il concetto di rima plastica. Questa metafora è giustificata da un'analogia. Forme sonore identiche (rime verbali) vengono associate a significati e referenti diversi così come forme visibili identiche o simili (rime plastiche) sono associate a valori rappresentativi diversi. Una statuetta Baulé conferisce al viso, a entrambi i seni, ai contorni costituiti dalle scarificazioni sopra ogni seno e prolungati all'interno delle braccia, e infine agli assi delle gambe che proseguono attraverso quelli dei piedi convergenti, una forma a cuore allungato facilmente percettibile sotto questi diversi valori di rappresentazione. Le prenozioni, o anticipazioni iniziali, non sono perlopiù dei concetti isolati, ma appartengono a costellazioni concettuali più o meno sistematiche (come nozione di feticcio, di idolo e di idolatria).

 

 

 

Kuba. Statua di antenato, 1911.

 

 

Estetica 2. Imperfezione e perfezione.
Tutto ciò che è stato ferocemente criticato, tutti i difetti che si sono potuti attribuire agli oggetti africani costituivano altrettante imperfezioni. Nell'estetica classica bellezza e perfezione sono legate indissolubilmente. Le imperfezioni attribuite all’arte africana rischiano dunque di non essere altro che la formulazione in chiave negativa della diversità fra le opere africane e le caratteristiche della bellezza classica. In cosa consiste esattamente questa perfezione attesa e non riscontrata?
La nozione di perfezione viene elaborata da Aristotele nell'ambito di una filosofia della “technè” senza una differenziazione tra ciò che noi distinguiamo con le due parole "arte" e "tecnica". Come pure per Kant, il giudizio di perfezione non è un giudizio di gusto, la perfezione non è un valore estetico, ma tecnico. La produzione artistica si divide in due fasi, concezione ed esecuzione. Il bravo tecnico concepisce chiaramente e completamente il suo prodotto, prima di cominciare ad eseguirlo. Se la concezione o il progetto è un'idea, l'esecuzione è fare e la perfezione il risultato di una rifinitura; poiché l'esecuzione, il fare, è perfetto, compiuto, quando il prodotto eseguito è conforme alla concezione, progetto o intenzione dell’autore, se questi interrompe l'esecuzione prima di questo termine o di questo fine, il suo prodotto, ancora inadeguato al progetto, è imperfetto, incompiuto.
Dalla caratteristica tecnica della perfezione così definita risultano i limiti dell’applicazione corretta del suo concetto e del suo utilizzo come criterio. Gli oggetti che dipendono da forme o specie di produzione diverse dalla produzione tecnica non dovrebbero dipendere dal criterio di perfezione. A queste categorie appartengono tutti i prodotti nei quali il progetto non è stato compiutamente pensato prima dell'esecuzione. Ma non solo questo. Anche la creazione artistica nella precisa misura in cui, a differenza degli antichi e del Medioevo, noi la distinguiamo dalla produzione tecnica. Delacroix parla di esecuzione creatrice; per Braque “l'idea è la culla del quadro”. Ne risulta che il criterio di perfezione non può essere applicato alle arti africane se non dopo averne determinati i modi di produzione e, in particolare, lo statuto del progetto o la natura dell'intenzione dell'artista in questo processo di produzione.
E questo presuppone indagini etnografiche accuratamente orientate. Ma non c’è alcuna ragione di supporre che tutti gli artisti africani producano nello stesso modo. Per giunta, la distinzione tra arte e tecnica, come già mostravano la “technè” greca e l’”ars latina” non è applicabile a tutti i periodi della storia dell’arte. In certe epoche e in certi luoghi, la perfezione tecnica è inseparabile dalla qualità estetica. Il rifiuto di considerare la perfezione, in quanto tecnica, come valore estetico deriva dalla concezione di un'arte pura, purificata dai suoi elementi tecnici. Ora non c'è alcun motivo per supporre a priori l'esistenza di un’arte pura in Africa; al contrario, noi riconosciamo lo statuto di opera d'arte a degli oggetti africani funzionali e la cui funzione, in particolare, è tecnica. Il giudizio di perfezione, “strícto sensu”, presuppone la conoscenza preliminare del progetto o dell’intenzione dell'artista. Abbiamo visto, trattando della deformazione, le condizioni alle quali è così sottomessa la nostra valutazione delle opere africane. Riprendiamo queste osservazioni nell'esame di un'altra forma di imperfezione, il non-finito. 

 

 

 

Kongo. Feticci e oggetti di potere, 1900-1905.

 

 

Estetica 3. Il non-finito.
Quando il finito è concepito come una perfezione e il non-finito come un'imperfezione, l'uno e l'altro concetto si integrano alla concezione generale di arte elaborata dai Greci. Ma se ci imbattiamo in opere alle quali questa concezione di arte è inapplicabile, senza che la loro caratteristica di non-finito ci impedisca assolutamente di apprezzarle, come giustificare questo apprezzamento in alternativa alla svalutazione di matrice classica? Due sono le vie percorribili: il ricorso ai dati etnografici e l'enumerazione delle teorie dell'arte che giustificano il non-finito.
Queste ultime soluzioni non possono che fungere da anticipazioni della sostituzione che andrebbe confrontata con i dati etnografici. Nella teoria classica dell’arte, la finitura o rifinitura è la tappa finale dell'esecuzione. Finire è, secondo Robert, “condurre al suo punto di perfezione”, "dare l'ultimo tocco a...". È la condizione, cronologicamente ultima, del perfezionare. Questo, secondo Paul Valéry, consiste nel far "sparire tutto ciò che mostra o suggerisce la fabbricazione di un'opera"; l'artista deve “proseguire il suo sforzo finché il lavoro non abbia cancellato le tracce del lavoro” (Degas, Dame, Dessín). Così come la natura del lavoro varia a seconda dei materiali e degli utensili, le operazioni di finitura variano con le arti.
Ma un aspetto del finito sembra comune a tutte le tecniche: le tracce del lavoro sono cancellate quando la superficie dell’opera è regolare, uguale, liscia, levigata, “leccata”, o quando presenta proprietà visive o tattili che si avvicinano il più possibile a tali qualità. In alcuni casi, lo scultore africano utilizza come abrasivo delle foglie particolarmente ruvide atte a levigare la superficie intagliata; è il caso, ad esempio, delle maschere Dan chiamate appunto "classiche". In altri casi, lo scultore non utilizza questi abrasivi, ma rifinisce la sua opera con il coltello intagliando molto delicatamente e molto regolarmente delle sfaccettature che stanno a una superficie liscia e continua come un poligono regolare di infiniti lati sta al cerchio in cui è inscritto. Benché una simile superficie non sia perfettamente liscia, bisogna ammettere che essa è finita e perfetta per il fatto che l'artista ha manifestamente realizzato ciò che aveva intenzione di eseguire.
La teoria classica concepisce l’arte come tecnica di imitazione della natura. La tecnica rientra nella relazione tra l'opera e l’artista, l'imitazione nella relazione tra l’opera e il suo modello naturale. Da questi due punti di vista, le tracce del lavoro devono essere cancellate. Il modello naturale non presenta alcuna traccia di un lavoro umano che evidentemente non l'ha prodotto; questa traccia dunque deve essere cancellata dall'opera affinché essa risulti fedele al proprio modello. L'imitazione tende a interrompere la relazione dell'opera con l'artista a vantaggio della relazione della stessa con il modello. In secondo luogo, per tutta la durata della sua produzione, l'opera dipende ancora dall'artista; è solo quando è compiuta, rifinita, che l'opera diviene indipendente. Ora, i Greci attribuiscono un valore maggiore all'opera che alla sua produzione e in maniera generale a una sostanza che alla sua genesi. Ma, nella misura in cui l'arte africana non dipende da questa concezione naturalista dell'arte, questa giustificazione del finito non è pertinente.
L'osservazione e il confronto di alcune opere africane, unite a dei dati etnografici, permette di scartare la giustificazione naturalista del finito e di fornire, in alternativa, almeno due spiegazioni positive del non-finito. Il non-finito di alcune opere provenienti da diverse regioni dell'Africa può essere considerato parziale. In una stessa scultura, alcune parti sono finite e altre no. Questo aspetto basta da solo a eliminare una definizione di goffaggine, poiché uno stesso artista avrebbe dovuto essere valente per rifinire alcune parti e maldestro per non finirne altre.
Si impone un'altra spiegazione. Più in generale, si può notare che assai spesso in Africa le diverse parti di una stessa figura sono trattate diversamente. Queste differenze possono caratterizzare lo stile -alcune parti sono talvolta trattate in maniera naturalista e altre in maniera astratta o schematica- le proporzioni, l’uso o no del colore. Nelle sculture globalmente a tutto tondo, alcune parti sono trattate in rilievo, come le membra superiori di alcune figure Baulé o le membra inferiori di alcune cariatidi Luba o Hemba in rilievo sulla base degli sgabelli. Quanto al finito parziale, M.L. Bastin, commentando una statuetta Ovimbundu nota che “le mani e i piedi sono abbozzati sommariamente. Solo la testa e il tronco hanno beneficato delle cure dello scultore”.
Quest'ultima osservazione suggerisce un trattamento gerarchico delle parti della figura. Una relazione di accordo o di convenienza è stabilita tra i gradi di finitura delle parti della scultura e le corrispondenti parti del personaggio rappresentato, ordinate secondo una gerarchia di valori socialmente riconosciuta. Il non-finito parziale, o meglio, differenziato, sarebbe così spiegato dalla sottomissione della rappresentazione a una gerarchia extrartistica e da una applicazione del principio -basato sul funzionalismo- di convenienza. E’ ancora nell'ambito di una concezione funzionalista dell’arte che un certo tipo di utilizzo, generalmente definito magico, giustifica un finito parziale. Le più conosciute tra queste statue magiche sono di origine Kongo, Teke, Luba e Songye. Esse ricevono il loro potere magico dall’aggiunta, al pezzo scolpito, di materiali diversi, scelti, preparati e inseriti da uno specialista in pratiche magiche. Il pezzo scolpito è, in se stesso, privo di efficacia o di potere. Lo stesso oggetto presenta dunque due stati e aspetti successivi, di cui solo il secondo è adatto all’uso.
La loro differenza è espressa talvolta dal fatto che chi lo utilizza dà due nomi diversi all'oggetto. Presso i Teke, Hottot, ha raccolto per la prima volta nel 1906 informazioni di questo tipo. Ora, lo scultore conosce l'uso del pezzo che ha intagliato; egli sa che alcune parti verranno nascoste dai materiali magici che le ricopriranno. Egli può dunque non solo astenersi, ma essere dispensato dal terminarle. Saranno i fruitori stessi, conformemente alle esigenze dell’uso rituale a permettergli ciò. Non si può quindi accusarlo né di goffaggine e neppure di trascuratezza. Tuttavia questa differenza di finitura tra le parti può essere attenuata o cancellata. Anche il secondo esecutore può portare a termine accuratamente le parti che egli aggiunge. Z. Volavkova nello studio delle figure nkhisi del Basso Congo nota che talvolta lo scultore tiene conto dei futuri accessori della statuetta, e che il nganga, viceversa, può adattare i suoi materiali alla forma scolpita cogliendone i suggerimenti.
Il finito parziale è facilmente osservabile sui pezzi usciti dalle mani dello scultore o all'inizio del loro uso (come i feticci Kongo nei quali sono stati piantati solo alcuni chiodi o lamelle di metallo), o infine sui pezzi privati dei materiali magici che li ricoprivano. Questa spiegazione dell'uso non è specifica né rigorosa. Non è specifica poiché essa è applicabile a oggetti non africani, a usi diversi da quelli magici e ad altre arti oltre alla scultura. Non e rigorosa poiché, in alcuni casi, le parti destinate a rimanere invisibili sono rifinite come le altre. Vanno ancora spiegati i pezzi non finiti interamente. Lo "stile di abbozzo" non basta a conferire loro la qualità estetica. La storia delle teorie dell'arte mette a nostra disposizione numerose possibilità di giustificare il nostro apprezzamento: quella alla quale si ricorre con maggior frequenza ritiene queste opere espressioniste. Ma una cosa è interpretare il non-finito o lo stile di abbozzo in termini di espressione, altro è sapere, sulla base di informazioni etnografiche, se i fruitori di tali opere le apprezzino in questo modo e se dispongano di termini correttamente traducibili mediante il nostro vocabolario espressionista. Poiché abbiamo la tendenza ad attribuire l'espressione che ci aspettiamo a oggetti inespressivi, come a quella parte di scheletro così descritta da Paul Valéry: "Questo cranio vuoto e questo riso eterno", ci troviamo di fronte a una questione di estetica comparata.

 

 

 

Yombé. Feticci "nkisi nkonde", 1911.

 

 

Estetica 4. La rappresentazione del movimento.
E’ stato detto che, nella loro maggioranza, le sculture africane non rappresentavano il movimento dei personaggi riprodotti; che, nei rari casi in cui lo tentavano, non raggiungevano lo scopo o lo raggiungevano malamente. Se ne deduceva che la maggior parte degli scultori africani sono incapaci di rappresentare il movimento. Queste critiche non sono specifiche, sono dirette a tutte le arti dette «primitive» o arcaiche. Anche qui, il giudizio che svilisce le opere e quello che denigra lo scultore devono essere disgiunti. Il primo riguarda gli oggetti osservabili, il secondo verte sulle intenzioni e le capacità e non basta formularlo solo in base all'osservazione senza controllo etnografico.
Nella maggioranza dei casi, il primo giudizio negativo sembra legittimo. Le statue africane non rappresentano il movimento perché la funzione che esse rivestono richiede l’immobilità sacra -lo ieratismo- dei personaggi che rappresentano o che personificano. In una minoranza di casi si riconosce senza difficoltà la rappresentazione del movimento. Gli esempi migliori sono forniti dai pesi per la polvere d'oro utilizzati nel gruppo Akan e dalle statue provenienti dalle chefferies (Bamileke, Bamum, ecc.) delle savane del Camerun. Esistono, ci sembra, casi intermedi che portano a chiedersi se un giudizio negativo non risulterebbe, ancora una volta, dalla trasformazione di una differenza in negazione.
In tre casi lo scultore africano può rappresentare un movimento differente da quelli che noi siamo in grado di anticipare e di attenderci. Il movimento rappresentato può essere diverso dai movimenti che siamo soliti incontrare nella realtà extrartistica costituita dal nostro ambito culturale. Può essere diverso da quelli che abbiamo visto rappresentati nella realtà artistica che conosciamo. La sua differenza può infine essere costituita dal fatto che esso è rappresentato in un modo diverso da quello al quale siamo abituati. I primi due casi riguardano il movimento come oggetto, soggetto o materia della rappresentazione; il terzo, la forma della rappresentazione e le convenzioni figurative del movimento.
Danze, cerimonie e rituali africani comprendono movimenti che noi non conosciamo, ma che lo scultore africano può rappresentare. Le danze africane sono così diverse dalle nostre che noi non possiamo assimilarle; sono diverse anche dall’idea che noi possiamo farcene. Riesce così difficile evitare un giudizio negativo, mentre il ricercatore che le avrà viste potrà riconoscerle nella rappresentazione scolpita. Non possiamo neppure affidarci all'impressione di staticità che suscita la visione di una scultura isolata, poiché le nostre impressioni subiscono anch'esse l'intervento delle anticipazioni e il loro ambito di pertinenza, come quello delle nostre prenozioni, ne viene ridotto. Da una scultura isolata che ci pare statica, non possiamo dedurre che essa non rappresenta alcun movimento. Così, la frontalità e la simmetria di alcune statuette mossi suggeriscono a prima vista l'impressione di staticità, ma, come riferisce M.L. Bastin, A. Schweeger-Hefel ha mostrato delle "fotografie di donne che danzano, le braccia leggermente scostate dal corpo, suggerendo come questa coreografia, discreta ed elegante, abbia potuto ispirare la struttura del corpo dei personaggi femminili" scolpiti.
J.L. Paudrat (1974), in un capitolo intitolato «La foresta danza» ha mostrato come, nella "visione coloniale", alle danze africane siano associati la frenesia del movimento, la licenziosità dei costumi d’eccesso sessuale. L'esempio mossi dimostra che le danze africane non possono essere circoscritto a gesticolazioni frenetiche che quindi non ci si deve attendere sistematicamente. Mostra anche che la maniera di rappresentare il movimento non è forzatamente imitativa; il movimento della danza può, più sottilmente, "ispirare la struttura" dell'immagine. La fotografia, il cinema e la televisione possono ovviare a questa ignoranza. Ma la documentazione fotografica ha dei limiti, poiché anch'essa si fonda su convenzioni figurative. “Gli uomini hanno l'abitudine, ogni volta che scoprono una rassomiglianza tra due cose, di attribuire all'una e all'altra, perfino in ciò che le distingue, quello che essi hanno riconosciuto autentico dell'una e dell'altra”. Anche se una fotografia e una scultura sono, entrambe, rappresentazioni immobili del movimento, non ne deriva che esse lo riproducano nello stesso modo, mediante convenzioni figurative identiche. Non si può dunque assimilare la rappresentazione scultorea del movimento all’istantanea fotografica.
La famosa analisi di Rodin(1967, pp.46-47)del “Maréchal Ney” di Rude, basta a dimostrarlo e contiene delle anticipazioni più sottili. Secondo Rodin, Rude ha formulato due osservazioni istantanee ma parziali, omogenee in quanto convenzioni figurative, ma diverse nel loro oggetto: due parti diverse del corpo in due momenti diversi (successivi) del movimento. L'analisi del modo di rappresentazione del movimento distingue cosi due livelli, quello delle parti e quello del tutto. Ora, come abbiamo detto, lo scultore africano può trattare diversamente le parti di una stessa scultura, ciò che permetterebbe di applicare la procedura di analisi di Rodin. Una scultura africana può riunire le rappresentazioni di una parte mobile e di una parte immobile. Alcune statuette teke rappresentano un corpo immobile e delle gambe flessibili che, secondo Hottot riproducono il movimento delle gambe nella danza degli uomini chiamata "nkíbi".
Tale convenzione figurativa, che associa la rappresentazione di una parte immobile a quella di una parte mobile, può essere ispirata dalle danze stesse. In certe danze africane, alcune parti del corpo possono restare quasi immobili, dato che la vibrazione delle gambe viene associata all’immobilità del tronco o, inversamente, gambe per così dire bloccate possono reggere una specie di vibrazione del tronco e dei seni. Queste brevi osservazioni hanno lo scopo di suggerire quale sia il livello di complessità della questione.

 

 

 

 

 

Sango. Reliquiari, 1907-1908.

 

 

 

 

 

Ekpeya. Tamburo "ogbukere", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Ibibio. Maschera "ekpo", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Igbo. Statua "ikenga nimo", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Ika. Altare, 1930/1939.

 

 

 

 

 

Ikwerri. Maschera "asaba", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Wé. Maschera, 1934.

 

 

 

 

 

Yombé. Feticcio "nkisi nkonde", 1906.

 

 

 

 

 

Bena Mitumbo. Maschera "katotoshi", 1930.

 

 

 

 

 

Luvale. Maschera "mupala", 1889.

 

 

 

 

 

Senufo. Maschera "gbon", 1920.

 

 

 

 

 

Bamileke. Maschere "mbap mteng", 1930.

 

 

 

 

 

Songye occidentali. Maschera, 1910.

 

 

 

 

 

Igbo. Maschere "okoroshi", quella a destra chiamata "Onyejuwe", anni 1930.

 

 

 

 

Il linguaggio delle maschere. Anne Marie Bouttiaux, 2003.


ll fascino delle maschere non si esercita soltanto sui popoli originari dell'Africa o di altre contrade remote. Sono oggetti che da sempre colpiscono la fantasia, perché hanno un ruolo nell'ambito della trasformazione. ln forma implicita, richiamano alla mente l'esistenza di colui che cela la propria identità per assumerne un'altra: perciò suscitano interrogativi, turbamento, e talvolta addirittura spavento o angoscia. Di fronte alla maschera, presi tra l'incanto e l'inquietudine, non si sa bene se temere o apprezzare colui che la porta e che si nasconde allo sguardo, oppure l'entità da questi impersonata. Un effetto paradossale dovuto alla loro presenza nei musei, dove se ne ammirano le qualità plastiche, è che nella mente del visitatore le maschere africane non sono più legate direttamente alla manifestazione complessiva di cui erano parte nel contesto originario.
Quasi che le “patenti di nobiltà" acquisite sul piano estetico le staccassero del tutto dalla realtà per la quale erano state concepite, modellate e indossate. Quel che hanno guadagnato da un lato, dall'altro lo hanno perso, imprigionate come sono nei criteri degli amatori d'arte occidentali. Alcune vengono riconosciute -e certo a buon diritto- come indiscussi capolavori, ma rimangono del tutto prive di quel che in passato conferiva loro splendore e anche bellezza: ossia la loro manifestazione totale. lo vorrei appunto invitarvi a seguire con me il fenomeno globale costituito dall'apparizione della maschera nel suo ambiente originario: l'oggetto che con la sua arditezza formale vi ha sedotto tra le mura del museo potrà così essere ancora sublimato ai vostri occhi grazie al dinamismo del suo recondito senso religioso, politico o sociale. E questo perché il ruolo che le viene attribuito, e il modo in cui la maschera lo esplica, la rendono ancor più pregevole dal punto di vista formale.
La danza, il mimo, i costumi, la musica e i canti, le preghiere e i sacrifici, la partecipazione di chi la indossa, degli officianti del rito, degli antenati e degli altri attori responsabili dell'evento, insomma tutto, nell'intervento in maschera, serve a completare quella che nelle nostre vetrine ha l'aspetto di un semplice volto, in genere scolpito nel legno. Tutto contribuisce a rendere la maschera, considerata nel complesso di queste manifestazioni, un'entità onorata, venerata, apprezzata, ma anche spesso temuta. Per la maggior parte delle popolazioni africane che si servono della maschera, essa acquista un senso soltanto considerando la globalità della sua apparizione, ivi compresi anche gli aspetti non visibili: vale a dire la forza spirituale che con la maschera si mette in moto, si tratti di una divinità, di uno spirito della natura, di un antenato o di qualsiasi altra potenza soprannaturale presente e incarnata in essa.
Colui che indossa la maschera, dunque, anche se non tutti lo riconoscono, ne costituisce parte integrante: senza di lui, non c'è più la maschera viva, la maschera efficace. Quando un Bamana (Mali) pensa alla maschera "kono", la vede scatenarsi nel villaggio mentre danza con energia, la sente fischiare e sente i canti che l'accompagnano. Non è una testa devitalizzata, come la maggior parte delle volte la vediamo esposta in un museo, quella che gli appare; altrettanto si può dire di uno Tshokwe (Angola) che pensa alla maschera "phwo" o di un lbo (Nigeria) per il suo rapporto con la maschera "ogbodo enyi". Trovandosi sempre, nei musei, di fronte a testimonianze di società antiche e talvolta scomparse, certi pensano che le maschere offerte alla loro ammirazione, appese alle pareti o fissate a un piedistallo, non possano esistere ormai che in tale forma, e non siano più utilizzate secondo la tradizione. Invece, oggi esistono ancora numerose popolazioni africane che si richiamano alle maschere. Alcune lo fanno seguendo le stesse modalità del passato, con cerimonie rituali che in questo caso sono rimaste inalterate; altre indossano la maschera in occasioni di carattere più ludico e festivo; altre ancora hanno in effetti rinunciato a ricorrere alle maschere sotto qualsiasi forma, e a volte addirittura non ne posseggono più. Fra queste tre eventualità, esistono tutte le gradazioni possibili: si possono creare nuove maschere come pure prendere a prestito quelle in uso in una società vicina, passando attraverso i mutamenti di funzione, di comportamento, di costume, o lo sconfinamento in ambito rituale di esemplari che fino a quel momento erano legati allo svago. Sia come sia, cercare di ricostruire quale fosse o quale sia oggi il linguaggio di questi oggetti nell'ambiente tradizionale rimane un esercizio capace di approfondire il piacere estetico che essi possono suscitare in noi, oltre che di rendere omaggio alla memoria di chi li ha concepiti e creati.

 

 

 

Baga. Maschera "d'mba" o "nimba", 1938.

 

 

L'ambito degli uomini, il rapporto con le donne.
ln Africa, la maschera è di per sé monopolio maschile. A parte alcuni esempi legati alle donne e realizzati con stoffa o altre sostanze vegetali, tutto, o quasi tutto, quel che riguarda la maschera viene gestito dagli uomini: la fabbricazione, l'uso, le cerimonie rituali relative, l'indossarla e talvolta, nei casi estremi, perfino la partecipazione alle manifestazioni e la visione della maschera propriamente detta. Esiste però un'eccezione celebre: un tipo di maschera di legno scolpito che appartiene alle donne. Sono le maschere sowei della società segreta di iniziazione femminile Sande, che troviamo presso i Bassa della Liberia e i Mende della Sierra Leone.
Tuttavia, in certi casi, nelle situazioni disperate di catastrofi, malattie o sterilità della terra, può accadere -e nella maggior parte dei casi per consiglio di un indovino- che si affidi a una donna l'incarico di intervenire in una cerimonia rituale in maschera. Quasi che la violazione del divieto fondamentale, che nega alle donne l'accesso alla maschera, costituisse uno sconvolgimento di tale portata da riuscire a rovesciare l'ordine delle cose, in questo caso vale a dire piuttosto il disordine: una calamità che si è abbattuta sul popolo e che non si riesce a sradicare. Il flagello sarebbe quindi annientato grazie a un effetto di devastazione assimilabile in senso metaforico a una scossa elettrica.
Il fatto che in generale le donne siano escluse dal mondo della maschera si spiega in modo diverso nelle varie società e spesso viene attribuito a un'origine mitica. Può essere accaduto che le donne, che in un primo tempo erano in possesso delle maschere, non siano riuscite a conservarle per ragioni inerenti a qualche peculiarità del loro carattere, oppure che abbiano fatto un passo falso nei confronti di qualche spirito o divinità della natura. Dopo tale colpa originale, gli uomini si sono serviti e si servono delle maschere come di oggetti di potere e di pressione, in primo luogo, certo, sulle donne, ma anche su tutta una serie di gruppi sociali che non hanno ancora adempiuto ai necessari obblighi rituali o che non sono autorizzati ad adempierli. A seconda dei casi, questi gruppi possono essere quelli formati dai bambini, dai non iniziati, dagli schiavi, dagli stranieri, da certi individui marginali o dalle persone volutamente bandite dalla società.
Talvolta il rispetto di questo potere e di questo privilegio è imposto sotto la minaccia di violenti castighi. Per esempio, in Nigeria accade tuttora che le maschere lbibio della società Ekpo puniscano con la morte tutte le persone che non hanno il diritto di vederle. Tutto questo non impedisce però che il volto femminile sia uno dei temi prediletti nell'iconografia delle maschere, mentre i comportamenti femminili offrono una fonte d'ispirazione inesauribile agli uomini che partecipano alle cerimonie in maschera, si tratti di colui che in effetti la indossa o dei suoi accoliti.

 

 

 

Bamileke. Maschere elefante, 1913.

 

 

Le funzioni.
A seconda dei luoghi e delle società prese in esame, la maschera assume una varietà immensa di ruoli e di funzioni. La maschera rappresenta, racconta, insegna, giudica, punisce, purifica, protegge, spaventa, guarisce, diverte. Può associare alcune di queste azioni o esprimerne una sola. È considerata un'entità viva a tutti gli effetti, una potenza invisibile e temibile, una forza che emana dal mondo degli spiriti o degli antenati. Per queste ragioni, anche quando compare durante occasioni di divertimento, continua a impressionare e conserva sempre uno strano potere; se non altro quello di far agire un personaggio del quale non si vede la fisionomia e che genera, o potrebbe generare, una sensazione di insicurezza, se si verificasse il minimo incidente. Attraverso colui che indossa la maschera, l'invisibile ha la possibilità di incarnarsi: un fenomeno che suscita già un tale turbamento da non poter mai diventare un fatto banale.

 

 

 

Bambara. Mashera "souroukou, 1910.

 

 

1. Rappresentazione.
Spesso, quindi, nel suo rapporto con il mondo soprannaturale, la maschera costituisce l'interfaccia visibile e materializzata di determinate entità. Questa funzione, che si basa sul suo potere di rappresentazione, è essenziale e in generale si richiama a un patto mitico, stretto fra un individuo e un essere invisibile. Da parte della potenza naturale o ultraterrena il patto consiste frequentemente nell'offrire poteri magici in cambio dell'incarnazione. Ecco perché le forze spirituali evocate dalla maschera con la sua sola presenza sono in genere attive -o se non altro allo stato latente- appena la maschera esce dalla savana per fare la sua comparsa nel villaggio. Con la sua presenza, lo spazio della danza o dello spettacolo acquista una carica simbolica e magica. Lo spirito che la società umana invita qui, per il tramite della maschera, è dunque presente, relativamente domestico ma sempre pericoloso in potenza.
Nei casi di entità cariche di un'estrema violenza, gli spettatori si mantengono prudenti, perché nessuno può considerarsi al sicuro dal sortilegio e sono numerosi gli abitanti del villaggio che non desiderano affatto arrischiarsi ad avvicinarle. La presenza di spiriti incarnati nelle maschere si manifesta in modi diversi secondo i casi. I ritualisti li 'attirano' su un altare dopo aver offerto loro un sacrificio, oppure ne suscitano l'intervento e li convocano, versando sul terreno una libagione e pronunciando i loro nomi. Si tratta, qui, dell'efficacia performativa della parola: il solo fatto di nominare un'entità spirituale la induce a manifestarsi.
I rituali con i quali la maschera entra in funzione possono anche prevedere che lo spirito vi dimori in permanenza. L'oggetto "maschera" è allora per sempre sacralizzato, 'carico' e attivo, perché è lo spirito stesso. In altri casi ancora, è il corpo stesso di chi indossa la maschera a ospitare lo spirito per il tempo della performance. Si assiste in quel caso a una vera e propria possessione, da parte dello spirito, di un individuo che per il momento è privo di coscienza propria: chi porta la maschera ha i tratti di un'entità che lo abita, lo dirige e utilizza il suo corpo per esprimersi.
La savana o la foresta, che erano state dissodate nel momento in cui il villaggio era nato, riprendono i loro diritti per tutto il tempo in cui perdura l'intrusione dello spirito, utilizzato, nel timore e nel rispetto, per le esigenze degli uomini. Questo tipo di rapporto con la natura è una presenza consueta nelle società africane. Spesso tutto avviene in piena natura selvaggia: nella foresta sacra, o nello spazio delimitato previsto a tale scopo, vengono preparate le maschere, si compiono le operazioni segrete, si svolgono le iniziazioni. Invece si osserva che chi indossa le maschere in un ambito secolarizzato, oppure le usa soltanto per occasioni di festa, nella maggior parte dei casi si prepara allo spettacolo all'interno dei confini del villaggio: quel che avviene allora è un travestimento, e non una trasformazione.

 

 

 

Dogon. Maschere, 1935.

 

 

2. Insegnamento.
Molte maschere raccontano e insegnano. Assumono tale ruolo, come vedremo in seguito, in particolare nei contesti iniziatici, ma può anche accadere che la maschera, con il gioco, il mimo o la danza -quindi conferendo una forma teatrale alla sua apparizione-, possa ricordare le origini mitiche della creazione del mondo e le circostanze in cui l'uomo è comparso sulla terra. Per esempio, con certe maschere "korè" dei Bamana, il bisogno di sapere è in primo piano e il limite di questo sapere si sposta sempre più in là. Tuttavia, la fase ultima di una tale conoscenza è la constatazione della propria impotenza, dato che la mente umana non può arrivare a dominare il sapere. Quindi, alla fine del percorso iniziatico, il paradosso consiste nel riuscire a vivere con questo destino continuando però a condurre gli altri candidati delle varie società segrete sul cammino aleatorio di un sapere inaccessibile.

 

 

 

Igbo. Maschere "maun", 1913.

 

 

3. Diritto e legge.
ll diritto tradizionale a volte fa ricorso alla maschera come giudice. ll vantaggio della pratica consiste in sostanza nell'anonimato di chi indossa la maschera: per suo tramite essa emette un verdetto che non impone nessuna responsabilità ad alcun membro della società del villaggio. La maschera inscena una giustizia superumana, di carattere soprannaturale, che nessuno oserà contraddire. Nello stesso ordine di idee, la maschera impersona talvolta anche il carnefice: colui per mezzo del quale si opera la giustizia. Essa infligge castighi che possono essere di effetto immediato (colpi di frusta, di machete, e altre punizioni corporali) o differito (la potenza magica che può abbattersi sul colpevole provocando malattia o morte).

 

 

 

Luba. Maschere, 1912.

 

 

4. Purificazione.
ln quanto fattore di purificazione, la maschera si distingue in particolare nel condurre una lotta accanita contro gli stregoni e i loro effetti nocivi. A parte certi casi speciali -di società maschili che per consolidare il loro potere praticano dei malefici-, va considerato che, per quanto aggressiva e pericolosa, la maschera rimane un'entità dai poteri in sostanza benefici. Essa si dedica al bene della società, la protegge contro gli agenti maligni e, molto spesso, si manifesta addirittura proprio per individuarli, seguirne le tracce ed eliminarli. Tuttavia, proprio in quanto dispone di poteri magici, la maschera si trova fin dall'inizio in una posizione ambigua; infatti, soltanto l'uso a cui rivolge tali poteri soprannaturali può decidere se la maschera stia dalla parte del bene o del male. Per condurre in modo efficace la lotta contro i maghi è indispensabile esser dotati delle loro stesse capacità: quindi, ogni essere in grado di comunicare con le potenze invisibili, e soprattutto in grado di farne uso per soddisfare il proprio desiderio di potere, può inclinare verso la stregoneria. Beninteso, le maschere sono potenti per definizione, e quindi l'avidità di potere non le riguarda. Possono peraltro servire da tramite privilegiato per individui che mirano a imporre la propria autorità con qualsiasi mezzo. ln tal caso, con la complicità delle maschere, si può scivolare nell'ambito della stregoneria. ln particolare è questo il caso della maschera "kifwebe" dei Songye della Repubblica Democratica del Congo.

 

 

 

Mende. Maschera diavolo "bundu", 1907.

 

 

5. Angoscia e spavento.
Fra le modalità di azione della maschera, la capacità di spaventare è quella che si percepisce nel modo più immediato quando si ha di fronte soltanto il volto scolpito. Tale effetto si realizza con tutta una serie di maschere paurose, che nella loro morfologia rispecchiano quei tratti arcigni indicatori di un comportamento aggressivo. A tale categoria apparteneva la maschera “pongdudu” dei Boa (Repubblica Democratica del Congo), oggi non più utilizzata, che serviva per respingere il nemico durante la battaglia e fu poi riciclata per l'educazione dei ragazzi ribelli. Le terribili maschere della società Ekpo degli Ibibio, ancor oggi in grado di uccidere i non iniziati colpevoli di aver violato l'interdetto principale che ne vieta loro la vista, hanno spesso un volto nero e sfigurato dalla malattia. Anche la maschera “kakuungu” dei Suku (Repubblica Democratica del Congo) serviva, insieme ad altre, a spaventare i ragazzi durante l'iniziazione. ln modo meno evidente, certi esemplari, poco impressionanti nella forma, si possono dimostrare altrettanto inquietanti proprio in virtù della loro qualità di maschere, dotate perciò di un ambito di intervento di per sé pericoloso.
I rapporti tra forma e funzione sono ben lungi dall'essere percettibili in tutti i casi. Se nel momento in cui le maschere sono state trovate non si è avuta notizia del loro contesto d'uso, molte di queste resteranno per sempre lettera morta. Le maschere dei Dan (Costa d'Avorio, Liberia), in particolare, modificano lo status e la funzione nel corso della loro 'carriera', ed è quindi spesso impossibile sapere -in base al solo esame visivo dell'oggetto- se si tratti di una maschera che fa da accompagnatore, da cantore, da attore comico, da guardiano del campo della circoncisione o se abbia una qualsiasi altra funzione.

 

 

 

Vili. Maschera e feticcio, 1903.

 

 

6. Guarigione.
Alcune maschere sono dotate di poteri che permettono loro di intervenire quando si verificano epidemie o catastrofi, e anche in casi singoli, per curare un individuo ammalato. La loro azione non ha una ripercussione immediata: soltanto dopo il loro passaggio può essere osservato un miglioramento, il cui merito viene loro attribuito d'ufficio. Presso i Kongo (Repubblica Democratica del Congo), l'officiante “nganga” evocava il potere di uno spirito “nkisi” sotto forma di una maschera. L'intervento di questo guaritore consisteva nel presentarsi in maschera al paziente e lasciare il proprio corpo per andare in cerca dell'anima del malato, già intrappolato nel mondo dei morti. Fenomeno raro in Africa, si tratta in questo caso di una vera e propria “quête” sciamanica, con la quale lo spirito del “nganga” esce dal suo involucro carnale; nella possessione, al contrario, un essere umano accetta (o subisce) l'intrusione di uno spirito estraneo.

 

 

 

Senufo. Mashere "gbon", 1914.

 

 

6. Divertimento.
Quando vuole divertire, la maschera può offrire uno spettacolo e uno spazio distensivo, oppure comportarsi da buffone. La comparsa della maschera e le azioni che essa compie (spesso in forma danzata), il tutto a propria volta accompagnato dall'intervento di musíci, assistenti e cantori, diventano il punto su cui si concentrano i festeggiamenti. Molte maschere, alle quali un tempo erano affidati compiti più onerosi, hanno conservato se non altro la capacità di fornire un puro piacere di festa. Presso gli Tshokwe (Angola), “phwo” è presentato come maschera di divertimento, anche se, come per numerosi altri esemplari, le sue apparizioni hanno altresì implicazioni politiche e sociali, o addirittura terapeutiche.
Allo stesso modo, quando assume il ruolo di buffone è raro che la maschera si limiti a provocare ilarità. Nella maggior parte dei casi mette in scena una sorta di farsa sociale, per ciò stesso provocando una presa di coscienza per catarsi. Mettendo in scena certe situazione ritenute degradanti, vergognose oppure che il codice sociale impone di mantenere segrete, la maschera le sdrammatizza e le fa diventare normali o quasi lievi. Ciò vale in particolare per i comportamenti sessuali che potrebbe essere difficile esplicitare e chela maschera riesce a banalizzare, in certi casi riproducendoli con la mimica, suscitando nel pubblico il più grande diletto.

 

 

 

Tchokwe. Maschera "ngondo", 1930.

 

 

Situazioni privilegiate di intervento della maschera.
La maschera dispone dunque di una vasta gamma di funzioni, che permettono un numero infinito di combinazioni nei luoghi diversi e presso le diverse popolazioni: essa si manifesta, però, secondo circostanze precise, o in ogni modo in momenti programmati e predisposti con cura. ln effetti, la sua comparsa richiede molte precauzioni e le persone che partecipano all'evento rispettano determinati interdetti, usano protezioni magiche, modificano le loro abitudini alimentari e il loro comportamento sessuale.

 

 

 

Dogon. Maschere, 1931.

 

 

1. Le iniziazioni.
l riti di passaggio sono momenti di elezione per la comparsa delle maschere. Sia che si tratti delle cerimonie per l'iniziazione all'età adulta o di quelle che alcune società prevedono con precise scadenze nell'intero arco dell'esistenza individuale, spesso in queste situazioni le azioni mascherate assumono un ruolo decisivo. Le maschere e gli spiriti che esse incarnano svolgono una quantità impressionante di funzioni: all'insegnamento impartito agli iniziati alla protezione di questi ultimi. Inoltre, le maschere permettono alle persone relegate nei campi di formazione di comprendere il loro intervento e soprattutto di decifrare il loro segreto: linguaggio in codice, rivelazione dell'identità di chi indossa la maschera e, se occorre, anche apprendistato all'uso della maschera, ai passi di danza e ai comportamenti prescritti. La conoscenza di tutte queste cose distinguerà gli iniziati dai comuni mortali.

 

 

 

Igbo. Maschere "ogwulugwu" o "maun", 1910.

 

 

2. I funerali.
In molte località si convocano le maschere perché aprano la via dell'al di là alle anime dei morti. Nel suo ruolo di psicopompo, la maschera partecipa inoltre alla purificazione del villaggio, dato che è pericoloso lasciar vagabondare gli spiriti dei defunti. Questi ultimi, pieni di rancore, potrebbero vendicarsi sui vivi che non abbiano donato loro un posto nel mondo degli antenati grazie a un funerale organizzato in forma ufficiale e corretta. Le cerimonie funebri trasformano il defunto in un antenato rispettato e capace di intercedere per i suoi discendenti nel regno degli spiriti e dei morti. Si tratta di un momento cruciale e di una vera e propria festa nel ciclo di un essere umano. Le maschere vi prendono parte per celebrare la gioia e l'orgoglio che si provano nell'onorare degnamente un parente defunto. I funerali sono occasioni privilegiate di letizia e di grandi spettacoli: quanto maggiori sono le risorse economiche di cui dispone la famiglia organizzatrice per sostenere la spesa, tanto più prestigioso sarà l'evento e tanto più numerose le maschere (e gli invitati).

 

 

 

Kuba. Maschere, 1919.

 

 

3. Le incoronazioni.
Nelle società governate da un re o da un grande capo, le maschere, se esistono, hanno un rapporto privilegiato con il potere. Nelle cerimonie di incoronazione sono regolarmente in scena accanto a questi uomini potenti, che spesso si distaccano dal comuni mortali per la sacralità della funzione da loro svolta, oltre che della loro stessa persona. ln particolare ciò accade presso i Luba e i Kuba (Repubblica Democratica del Congo), e anche presso i Bamileke (Camerun), con le celebri maschere “batcham”.

 

 

 

Yombé. Feticci "nkisi" e "nkonde", 1900-1910.

 

 

4. Le cerimonie stagionali.
La fertilità della terra e la fecondità degli individui sono preoccupazioni permanenti. Le feste perla semina, per il raccolto e per determinati lavori agricoli richiedono l'intervento delle maschere, chiamate a esercitare i loro poteri benefici, propiziatori e fecondanti. Un tempo, in Guinea, queste proprietà erano concentrate nella maschera “d'mba” dei Baga, che interveniva anche durante i funerali. Oggi esiste una versione contemporanea della maschera che interviene in ambito essenzialmente profano, o addirittura turistico.

 

 

 

Pende. Maschere "mbuya", 1909.

 

 

5. Altre circostanze di intervento.
Esistono inoltre numerose altre circostanze a cui le maschere sono chiamate a partecipare: in particolare, le cerimonie che precedono la caccia o la pesca, per renderle fruttuose e scongiurare il pericolo rappresentato dagli spiriti degli animali braccati e uccisi. Un tempo, anche la guerra e i conflitti interetnici richiedevano l'intervento delle maschere, per incitare e proteggere i guerrieri della propria fazione e spaventare e indebolire i guerrieri nemici. In generale, questo tipo di maschera è scomparso o è stato investito di altre funzioni. Osserviamo sempre più spesso la presenza di maschere durante le assemblee di propaganda politica o le feste con cui si intende promuovere il patrimonio e le tradizioni delle rispettive popolazioni, per metterne in valore l'identità. Le prestazioni a carattere 'folcloristico', dovute anche alla presenza dei turisti, sembrano a un primo sguardo prive di qualsiasi spessore religioso o sociale. Ma se si osserva con più attenzione, si nota in certi casi che gli attori impegnati in questo genere di eventi sono gli stessi (musici, cantori, accompagnatori, indossatore della maschera) che prendono parte alle cerimonie 'tradizionali'. Inoltre, queste persone continuano a offrire alle entità tutelari sacrifici destinati a proteggerle dagli assalti degli stregoni e a procurare loro il talento necessario a far valere al meglio le loro capacità tecniche. In effetti, questi spettacoli, per loro essenza costituiti da danze, musiche, mimo e canti, richiedono ai partecipanti grande perizia artistica, spesso esaltata con alte lodi dalla popolazione di cui essi sono originari. Tuttavia, il successo ottenuto con le loro prestazioni li rende vulnerabili, esponendoli al rischio di diventare le prede predilette degli stregoni, che sono sempre in cerca di vittime prestigiose.
Nell'intero continente africano si continuano a produrre maschere, in costante trasformazione. Dove esistono, anch'esse, come tutte le istituzioni, subiscono gli influssi esterni e la pressione della modernità. Le maschere si vanno estendendo alle aree urbanizzate, dove ricostruiscono il loro ambiente rituale; in qualche caso sono invitate a dare spettacolo nei paesi confinanti, e addirittura in Occidente. Seguendo questa evoluzione, anziché scomparire per rispettare una tradizione intollerante di ogni cambiamento, si assoggettano a interessanti processi di modificazione, adattamento e creazione. Le maschere africane si mostrano capaci di trovare un ancoraggio dinamico nella vita contemporanea, il che contribuisce a garantirne la sopravvivenza, anche al di fuori degli scrigni funerari offerti loro dal musei. 

 

 

 

 

 

Vili. Feticci, maschere e oggetti di potere, 1887.

 

 

 

 

 

Nkporo. Maschera "ofogu", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Igbo. Statue, 1930/1939.

 

 

 

 

 

Ika. Oggetti di potere "oxo", "uxurhe" e "ikenga", 1930/1939.

 

 

 

 

 

Isu. Maschere "nwanyioma" e "akatakpuru", 1931.

 

 

 

 

 

Mende. Maschera società "sande", 1934.

 

 

 

 

 

Nkporo. Maschera iniziazione maschile, 1930/1939.

 

 

 

 

 

Tchokwe. Maschera, 1900-1910.

 

 

 

 

 

Fang. Maschera "sso", 1913.

 

 

 

 

 

Yombé. Feticcio "nkonde", 1901.

 

 

 

 

 

Mende. Maschere "bundu", 1906-1913.

 

 

 

 

 

Songye Kalebwe. Nkisi di comunità, 1932.

 

 

 

 

 

Songye. Maschere area di Kongolo, ante 1939.

 

 

 

 

 

Teke. Maschere "kidumu" e "sanga", 1932.

 

 

 


La scultura africana non è mai letta fino in fondo,
la si scopre giorno dopo giorno,
talvolta in maniera automatica,
altre volte con impegno;
a periodi, la si trova più bella,
la si dimentica per una sorta di abitudine visiva,
poi, spostandola, muovendola o mostrandola a qualcuno,
si ricomincia a provare il sottile piacere delle angolazioni,
delle scoperte e delle riscoperte...
senza però mai giungere a svelare completamente
quell'arcano segreto che è dentro di lei,
ingrediente unico della sua magia.

 
Beppe Berna

 

 


 

 

 

Indice


Bamileke. Sgabelli.

Batammariba. Perizoma maschile.

Batammariba. Scudo rituale Lifoni.

Bozo. Sgabello.

Buli. Feticcio.

Bwaka. Coppa.

Djola. Recipiente.

Dogon. Kutogolo.

Dogon Bambou Toro. Maternità.

Dogon. Portacero.

Dogon. Porta di granaio.

Dogon. Sgabello.

Ewe. Specchio E’kanbada.

Ejagham. Cimiero.

Fali. Ham pilu.

Fon. Bocio Kpodohonme.

Fon. Sgabello.

Galla. Contenitore.

Ganda. Contenitore.

Guragué. Poggiatesta.

Hemba. Sgabello.

Himba. Contenitore.

Himba. Ohumba.

Himba. Strumento a fiato.

Igbo. Ikenga.

Kanyok. Feticcio janus.

Kanyok Bena Kalambayi. Paramento mufumu.

Kikuyu. Poggiatesta.

Kirdi. Mortaio e pestello.

Kota Mahongwé. Boho na mbwete.

Kuba. Contenitore.

Kusu. Gris-gris.

Kwere. Sgabello.

Lega. Kisumbi.

Luba Bena Samba. Nkisi.

Luba Kasai. Nkisi.

Luba Kasai. Chi kwata kwata.

Luba Nuynzu. Kitumpo kya muchi.

Luba Shaba. Mboko.

Maasai e Samburu. Enkidong.

Matakan. Recipiente.

Mbuti. Tapa.

Mongo. Doppio recipiente.

Mossi. Sgabello.

Mursi o Kara. Sgabello.

Nkanu. Kakungu.

Ntita Kanyok. Mwankana.

Obamba/Ambete. Mbulu ngulu.

San. Pipa.

Sapi. Nomoli.

Senufo Nanergue. Komo.

Songye. Nkisi di comunità.

Songye. Nkisi personale.

Songye. Nkisi personale.

Songye. Nkisi personale.

Songye. Nkisi personale.

Songye Kalebwe. Nkisi personale.

Songye. Kifwebe mulume.

Songye Beneki. Nkisi di comunità.

Songye. Maestro ex-Bareiss. Nkisi di comunità.

Songye Nkutshu. Maestro di Lusambo. Nkisi di comunità.

Songye Tempa. Maestro di Lusangay. Nkisi di comunità.

Tchokwe. Sgabelli.

Téké. Maestro di Mpila. Buti.

Téké Sese. Kiteki na matompa.

Tetela. Maschera.

Tuaregh. Tasca pettorale.

Tuaregh. Stele cimiteriale.

Tuaregh. Supporto per otre da latte.

Turkana. Perizoma femminile.

Twa. Poggiatesta.

Vili. Bumba.

Vili. Kozo.

Vili. Nkisi.

Vili. Nkondi.

We. Tehe gla.

Yaka. Ndedi.

Yaka. Mbwoolo.

Yaka. Biteki.

Yaka. Biteki.

Yoruba. Odo Sango.

Yoruba Anago Meko. Opon ifa.

Yoruba. Contenitore.

Dissertazione 1. Comparazione tra la figura di potere antropomorfa Vodun e Kongo.

Dissertazione 2. I "buti" del maestro di Mpila.