Espressioni di un mondo che non c’era

 

 

 

 

Minima raccolta di espressioni di civiltà diverse
accomunate dalla inconsapevolezza dell'esistenza dell'uomo bianco.
Culture autoctone di un continente,
di un mondo di cui era digiuna la conoscenza euro-asiatica,
che venne chiamato con storico e insopportabile eurocentrismo America.
Come sempre,
dopo immagine e brano,
troverai indice degli oggetti della mia collezione suddivisi per civiltà,
in un immaginario viaggio spazio/tempo
di qualche migliaia di chilometri e qualche migliaia d'anni,
da Mēxihcatlahtohcāyōtl a Tahuantinsuyo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Alle prime luci del mattino del 24 luglio 1911, una pioggerella gelata bagna le pareti del cañon dell'Urubamba dal quale sorgono come fumate evanescenti le nebbie che avvolgono le cime dei picchus di forme e colori irreali. E davvero possibile che una delle più straordinarie città dell'antichità peruviana dorma lassù? Per la prima volta Bingham è tentato di dubitare dell'amico che al Cuzco gliela ha promessa. Domani, grazie a questo personaggio che resterà a lungo nell'anonimato e nel silenzio, egli potrà avere fama e celebrità?
L'entusiasmo degli altri membri della spedizione Yale-Perù è stato intaccato dalla spossante cavalcata dei giorni precedenti. Nessuno crede più alla chimerica "capitale" perduta degli Incas. E poi sembra impossibile che si possa trovare sulla cima della montagna più impervia che abbiano incontrato fin lì. Tutti cercano una scusa per non partecipare ad un ultima epopea di delusioni.
Melchior Arteaga arriva in ritardo. Il gendarme che è andato ad incontrarlo lo trova che batte i denti seduto davanti al fuoco di rami di eucalipto che riempie di fumo la taverna. Egli si lamenta che con un tempo simile sarebbe pura follia mettersi in cammino. Ma forse teme ancor più i rimproveri dei carovanieri indigeni se egli tradisse, per una somma ridicola, un segreto ancestrale conservato per molte generazioni. Non gli è stata fatta presente la minaccia dell'ira degli apus tutelari, che secondo le leggende si aggirano nella cittadella?
Il meticcio obbedisce controvoglia al gendarme. Imbronciato, avvolto in un vecchio poncho rosso, precede l'americano sulla strada che porta al fiume. All'improvviso Arteaga fa un balzo di lato, massacrando a colpi di machete una vipera punta-di-freccia. Il "serpente d'oro", il più pericoloso delle foreste amazzoniche, infesta questi luoghi. Grazie ai balzi straordinari che può fare, può raggiungere la sua preda fino alla cintola. E il chicotillo, il "serpente volante" dei tempi precolombiani che si ritrova rappresentato sulle vecchie ceramiche dell'area andina. Uno degli indiani del gruppetto racconta di averne visti uccidere in un sol giorno una cinquantina in una piantagione, mentre molti dei suoi compagni erano morti del morso di questi serpenti...
Il meticcio ben presto abbandona la pista parallela all'Urubamba e si inoltra nella fitta macchia. A questo punto il cañon è ridotto ad una stretta spaccatura che sembra la porta dell'"inferno verde". Arteaga apre la strada attraverso una boscaglia spinosa prima di arrivare al fiume scavalcato da una mezza dozzina di tronchi ineguali. Il frastuono delle acque copre la sua voce. A gesti, fa segno ai suoi compagni di togliersi le scarpe, per avventurarsi, a piedi nudi, sulle sottili assi inzuppate dalle nebbie. Simili ad un acrobata, il volto teso, l'occhio sempre fisso al folle corso delle acque, la schiena curva, il meticcio raggiunge la riva opposta correndo a piccoli passi, incoraggiando con la mano gli altri e Bingham, che passa per ultimo, terminando la traversata a quattro zampe.
La montagna diventerà sempre più brava, preannuncia Arteaga, ed è piena di "vipere d'oro". I tentacoli delle liane fiorite sferzano il viso e trattengono le gambe. Ad ogni passo la foresta tropicale si fa più fitta, tappezzata da un humus di foglie marce. Il suolo, gonfio d'acqua, è talmente scivoloso che gli uomini, per sostenersi, si aggrappano gli uni agli altri, sprofondando fino al ginocchio. Davanti a loro, invisibili, il meticcio ed il gendarme progrediscono lentamente, tagliando i cespugli di mesquite, un arbusto dal legno durissimo ricoperto di spine tremende come punte d'acciaio. Alla freschezza del fondo del cañon di smeraldo succede un calore torrido, reso ancor più insopportabile dall'umidità e dagli effetti dell'altitudine.
A duemilacinquecento metri il gruppo vaga fra le nuvole che planano sopra il cañon e che avvolgono le cime e gli insondabili abissi che le circondano. Carpio, la guida ufficiale, conosce bene il posto di vista, ma non ha mai pensato di compiere l'ascensione dei picchus. Invece due "cercatori di tesori", Monroy e Lizarraga, che si sono uniti a Bingham, lo incoraggiano a continuare quando questi si sente giunto al limite delle proprie forze. La meta è ormai vicina, affermano...
Un ultimo sforzo e l'esploratore americano non può credere ai propri occhi. Contro tutte le previsioni, questo picco che sembrava imprendibile è abitato. Il suo sogno svanisce perché effettivamente, quanto al "palazzo dell'Inca", egli si trova di fronte una miserabile capanna costruita su di uno stretto costone. Timorosi, due indios ne escono chiamati da Melchior Arteaga. Cosa fanno lì? Bingham, deluso, viene a sapere che Recharte e Alvarez vivono sulla Montagna Vecchia, il Machu Picchu, da quattro anni con le loro famiglie. Al riparo dai sergenti che reclutano "volontari" indiani per l'esercito peruviano. Liberi anche dalle ricerche dei lugartenientes delle fattorie incaricati di arruolare, allo stesso modo, lavoranti per le piantagioni del fondovalle. Liberi ancora di ogni tassa, imposizione ed orario, padroni assoluti ed ignorati dell'affascinante paradiso perduto degli antichi dei Incas!
In mezzo a uno dei più straordinari paesaggi della terra, questi misantropi coltivano tranquillamente un Eden insospettato da quanti passano sul fondo della valle. Piante di mais, patate, peperoni rossi, camotes (patate dolci), campi di fagioli, file di canna da zucchero spuntano a qualche passo dalla capanna. Due sentieri li collegano al cosiddetto mondo civile. Quello che hanno percorso i visitatori inattesi, appeso al fianco della montagna, ed un altro ancor più pericoloso, sul versante opposto, completamente mimetizzato. Una volta al mese, essi prendono l'uno o l'altro per scendere sul fondo della valle a barattare il prodotto delle loro coltivazioni.
Le donne dei due indigeni hanno portato frattanto una zucca d'acqua fresca ai visitatori assetati ed offrono loro patate dolci arrostite. Seduto su di una panca grossolanamente squadrata Bingham misura con lo sguardo il fantastico panorama delle Ande piegate a fisarmonica e il corso dell'Urubamba che serpeggia in basso fra i vapori azzurrognoli, la distesa ininterrotta della foresta vergine che copre la montagna fino alle cime incappucciate dalle nevi eterne, l'oscurità minacciosa degli abissi che si aprono al culmine della cordigliera e l'orgia infinita di colori. Una indefinibile ebbrezza monta da questo paesaggio impressionante, ed egli fatica a liberarsene per potersi nuovamente interrogare.
Dove si nascondono le "case incas" delle quali ha parlato il meticcio? Tutt'intorno non si riesce a scorgere nessun resto precolombiano ed egli non riesce a vedere altro che un picco solitario che si innalza come la punta di una freccia di granito centinaia di metri al disopra delle acque del fiume Sacro. Deluso, Bingham sta forse per rinunciare? Egli riesamina ancora una volta le proprie possibilità. Nessun'altra regione gli sembra più adatta per il rifugio ignorato dai conquistadores! Ma perso al di sopra di questa gola chiusa ai traffici da secoli, questo monte inespugnabile nasconderà qualcosa di più dei resti di una vecchia muraglia come egli ne ha già visti tanti? Oppure potrà scoprire lì una delle misteriose capitali perdute di Manco Inca?
Bingham si fida del chiuche, un monello quechua -del quale non farà il nome e che invano cercheranno poi i ricercatori peruviani- che, presolo per mano, gli dice ridendo di sapere dov'è la "casa dell'Inca". Superato lo sperone di roccia, una insperata visione strappa un grido di gioia all'esploratore americano: quasi sospese nell'aria, davanti ai suoi occhi si stendono un centinaio di terrazze agricole, sostenute da lunghe pareti di blocchi di pietra solidamente incastrati. Lavoro da funamboli, ogni anden, egli giudica, dovrebbe misurare una trentina di metri di lunghezza per circa tre metri di altezza. La giungla è dissodata grossolanamente, ed alcuni cedri sono stati bruciati, nell'impossibilità di abbatterli. Enormi zucche rosse ornano questi giardini pensili che affascinano Bingham perché gli ricordano le non meno straordinarie piattaforme agricole di Ollantaytambo, anch'esse per l'appunto costruite intorno ad una città preispanica!

 

 

 

Hiram Bingham (1875-1956)

 


Dimenticando la stanchezza, Bingham accorre al richiamo di Carrasco che accompagna il piccolo indiano. E le parole gli mancheranno quando vorrà descrivere la sua meraviglia: "Case, decine di edifici..., templi, palazzi incaici! Non ho mai visto mura costruite con tanta abilità, monoliti così perfettamente squadrati" annoterà in fretta. Simile ad una magia, in mezzo al dito dorato di un raggio di sole, l'incomparabile Città Perduta esce infine dal suo mascheramento di nebbie e di foresta che, da più di quattrocento anni, ne impedivano l'accesso. Rinata dal fondo dei secoli, un'intera città sorge, splendente...
Carpio racconterà di aver visto Bingham saltare in cima ad una muraglia e correre verso il santuario sconosciuto. Un grande masso a strapiombo ferma per un istante la corsa dell'esploratore. Sotto questa roccia, qualcosa di fantasmagorico del quale non riesce subito ad afferrare il senso. Ma appena i suoi occhi si saranno abituati alla penombra, distingue quello che chiamerà subito "il mausoleo imperiale", strana caverna le cui pareti interne sono state interamente ricoperte di monoliti finissimi. Ricordando gli uomini d'arme che in altri tempi vi presero posto -a meno che queste grandi nicchie non siano state costruite per i sacerdoti o per le mummie imperiali avvolte in teli e mantelli ricamati- il gendarme sta in piedi in una delle nicchie trapezoidali che ornano il luogo. Dei sedili intagliati nella roccia invitano alla meditazione o alla contemplazione dei riti segreti...
Immagini di sogno riempiono l'animo del giovane studioso di Yale. Per anni ancora Bingham rivivrà questo momento sublime!
Quando esce dalla caverna arredata così "regalmente", alza la testa attirato dall'opera che sovrasta la grotta sacra. Ciò che vede allora gli sembra "superare in audacia ed in fasto tutto quanto i suoi occhi avevano visto fino ad allora fra rovine incaiche e preincaiche". Un torreon del quale i costruttori non hanno terminato la circonferenza, a forma di ferro di cavallo, ricopre la roccia che gli serve da fondazione. Incastrato alla base senza la minima irregolarità, un imponente muraglione parabolico segue la curva naturale della sporgenza rocciosa prima di continuarla in altezza. Bingham, che ricorda il Coricancha, il tempio solare del Cuzco, tanto ammirato dagli americanisti di tutto il mondo, pensa istintivamente che questo torreon ne sia la riproduzione fedele, "opera dello stesso artista geniale". Il cerchio di questa semi-torre è così perfetto da formare "l'esempio più riuscito dell'architettura precolombiana delle due Americhe". Visitandolo, constata che mancano solo gli idoli d'oro nelle nicchie che anche qui decorano la parete interna. Tra queste e sopra di loro, grossi spunzoni di pietra, arrotondati o quadrangolari, tipici dell'antica architettura della "Valle Sacra", sporgono dal muro. Cosa vi veniva appeso? Abiti da cerimonia, quipus di lana dove venivano trascritti conti e statistiche annodando le cordicelle in una maniera particolare?
Questo problema non ha cessato di tormentare gli archeologi senza che questi riescano a spiegarne il vero uso.
Lo sguardo estatico di Bingham ritorna all'elegante curva della muraglia, così ben costruita che né i secoli né i terremoti hanno potuto intaccarne la simmetria e la solidità. Dalla base fino alla sommità i parallelepipedi rettangoli in granito bianco, in file perfettamente squadrate, diminuiscono di dimensione verso l'alto. Invece di diminuirne l'equilibrio, questa fuga di pietre alleggerisce al contrario la cima dell'edificio. Nella forza come nell'eleganza che balzano all'occhio dal torreon di Machu Picchu Bingham scorge "il più grande dei capolavori" attribuiti agli Incas. "La bellezza delle linee, gli incastri perfetti dei poliedri, il rispetto della scala matematica" lo affascinano "ancora più dei templi di marmo del vecchio mondo". Ed è con emozione che annota: "Incastrati gli uni negli altri senza calce, senza lasciare la minima fessura, questi muri di monoliti sembrano essere spuntati tutti interi dalla terra!"
Guidato dal chiuche, l'esploratore si arrampica su di una collina dalla quale domina completamente lo straordinario paesaggio della Città Perduta. Passa da sorpresa a sorpresa: i vari quartieri, che si seguono sui diversi livelli delle pendici del Vecchio Picco, non sono collegati da semplici strade ma da scalinate. Scalinate interminabili scavate nella viva roccia o riportate con lastre di granito incastrate in questo paesaggio mozzafiato. Centinaia di scalini scendono verso il fondo del cañon o salgono verso il cielo...
Soggiogato da questa impressionante visione, Bigham crede di rivivere il dialogo fra l'Inca e le divinità cosmiche della cordigliera. Col pensiero ricostruisce lo spettacolo delle processioni rituali delle vergini e di Inti, la marcia ieratica dei grandi sacerdoti del Punchao; l'incedere dell'Inca sul cui petto scintilla un Sole d'oro, seguito dalle Favorite e dai nobili orejones. Quanti di questi fantasmi hanno salito queste migliaia di gradini lustri come vetro, e quanti secoli ci sono voluti per erigere una simile meraviglia, resistente al trascorrere dei secoli?
Di fronte al numero illimitato di palazzi quasi intatti, a Bingharn pare quasi che Manco Inca, il suo gineceo e la sua corte potrebbero essere partiti solo il giorno prima! Affascinato, segue la piccola guida indiana che lo precede correndo su di una rampa d'onore, fino alla cima della piramide artificiale che rappresenta il punto più elevato della città. Maestoso, il misterioso Intihuatana si innalza al centro della piattaforma superiore, là dove il willac umu doveva simbolicamente ancorare l'Astro-Padre durante le grandi feste solari.
Bingham ridiscende sulle tracce del ragazzino che lo conduce al tempio delle Tre Finestre... Tre aperture molto più larghe, molto più alte di tutte quelle trovate nelle città incaiche scoperte finora! Tre finestre spalancate sui raggi del sole che sorge, dalla fattura ineguagliabile. Aperte in un muro massiccio di granito chiaro dalla grana finissima. Tanto eccezionali che da quel momento Bingham si persuade che non ne esistono di simili in nessun luogo dell'antico Perù, e bisogna riconoscere che fino ad oggi le sue parole non sono state smentite.
Queste tre finestre immortali, spalancate sul vuoto, costituiranno contemporaneamente il sogno e l'incubo dello studioso di Yale. Esse lo tormenteranno e lo spingeranno -lui e tutti gli archeologi e gli storici che da allora in poi si affacceranno su quelle aperture megalitiche- a ripassare pagina per pagina le cronache dei conquistadores. Letture attente ma nel complesso inutili e che lo condurranno fuori strada.
Melchior Arteaga ha commesso il sacrilegio di piantare un orto nel giardino del "gran tempio" contiguo!
Questo strano edificio senza facciata, composto da tre pareti di cui le due laterali si avanzano come ali spiegate, si apre su di una piazza cerimoniale. Rinchiude una stupefacente trinità di monoliti imponenti che probabilmente formavano il grande altare dei sacrifici, a meno che non fossero destinati all'esposizione delle mummie venerande davanti ai principali personaggi dell'impero convenuti in questi luoghi certamente sacri.
O ancora una triade di idoli d'oro...
Nella luce crepuscolare della nebbia che sale dal fiume Sacro e gli nasconde il precipizio, l'ultima visione di Bingham sarà la sottile figura del chiuche che spicca sul cielo rosso del tramonto. Il suo ultimo ricordo del ragazzo quechua sarà una cascata di risa trionfante, prima di vederlo scomparire nel nulla. L'americano lo rincorre, lo chiama, ma non lo ritrova, non lo rivedrà mai più. Ha ancora sognato? Era forse un magico folletto uscito dalle leggende precolombiane per tendergli la mano e dargli la gloria?
In realtà, Bingham non farà che un breve resoconto sulla Città Perduta sul Machu Picchu quando la spedizione del 1911 rientrerà negli Stati Uniti. Quando la rivedrà qualche mese più tardi, disboscata dalle squadre lasciate sul posto, la troverà ben più splendida di quello che sperava. Ma sul momento, l'impressione che non si trattasse né di Viticos né di Vilcabamba La Vieja, lo spinge a ripartire, seguendo un itinerario accuratamente studiato in precedenza, fino in fondo alla valle seguente, detta di Vilcabamba. Per ritrovare certamente la vera "capitale" scomparsa. Là dove in effetti essa deve essere!
Ancora bruciante d'entusiasmo al ritorno da questo fantastico salto nei tempi lontani degli Incas, Bingham contempla con legittimo orgoglio il prestigioso bottino: preziosi rilievi topografici, geografici e geologici di una regione che, prima della sua spedizione, non era mai stata esplorata e studiata scientificamente in dettaglio, studi sulla flora e sulla fauna illustrati da magnifiche collezioni, documenti sull'antropologia, la sociologia, l'archeologia delle valli dell'Urubamba e di Vilcabamba.
La spedizione Yale-Perù riporta inoltre numerose casse di vasi, di utensili, di tessuti e di armi incaiche. Più di settemila fotografie sono riunite in grossi album... La stampa mondiale dell'epoca, informata della scoperta di Machu Picchu, annuncia "l'avvenimento più straordinario del Nuovo Mondo dopo l'odissea di Cristoforo Colombo". Bingham, si legge, ha speso tutta la sua fortuna ed ha intaccato il patrimonio familiare. Ma in cambio ha ottenuto fama immortale ed ha dato al Perù moderno la più fantastica delle "città perdute".
Ma egli ha anche perso il sonno. Ora più che mai egli si pone il problema di sapere qual è la misteriosa città da lui scoperta. Perché tutto quanto egli aveva previsto e preparato si trova messo in discussione proprio per questa scoperta! Anni di studi, di letture, di notti insonni, lo portano a questa tremenda conclusione: partito per trarre dall'oblio l'ultima capitale degli Incas, ribelli alla colonizzazione spagnola, si ritrova padrino di una città morta, senza storia, senza età, senza ricordi, senza nome!
E proprio quello che cercava? Viticos o Vilcabamba La Vieja? Oppure ancora qualcos'altro? Bingham non lo sa, non lo capisce più! Egli si sente altrettanto incapace di dare un giudizio che di decidere. Messo di fronte al grosso problema che involontariamente egli stesso ha fatto nascere, cosa potrà dire, visto che ignora tutto di questi resti millenari ma neonati della preistoria peruviana?
Ancora una volta, parola per parola egli rileggerà le vecchie cronache del XVI secolo, che raccontano l'agonia degli ultimi quattro regni incaici di Vilcabamba. E fra le linee si sforza di ricostruire, a quattrocento anni di distanza, la strada di un lungo esilio.
Questo itinerario passa, oppure no, per Machu Picchu?
Tutto il mistero è qui!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Indice


Civiltà Chancay. Maschera funeraria.

Civiltà Chancay. Tessuti.

Civiltà Chavin. "As-is".

Civiltà Colima. Statua.

Civiltà Cupisnique. Bottiglia.

Civiltà Jama-Coaque. Stampo per tessuti.

Civiltà Inca. "Kero".

Civiltà Maya. Perla tubulare.

Stile olmecoide. Testa "baby face".

Civiltà Valdivia. Stele.

Civiltà Valdivia. Torso femminile.

Civiltà Vicus. Testa di mazza rituale.