Ecce homo

 

 

 

 

Intendesi meramente traduzione letterale del titolo,

senza alcun riferimento a Nietzsche o alla Vulgata pilatesca.

Le foto sono le mie, qualità e tecnica senza pretese,
l'unica valenza è quella documentale.
Parole si intrufolano tra le immagini,
auspicando siano complemento utile alla mia proposizione espressiva.
Il soggetto è l'uomo nella sua accezione di essere,
preferibilmente cucciolo, e, se non cucciolo,
in esclusiva declinazione di genere.
Solamente Africa,
in ancestrale attrazione ed arcano legame,
madre di emozioni violente, laceranti,
profonde, gioiose, tristi,
dove sentire ancora l'essenza dell'uomo.
Dove un incontro, un sorriso,
uno sguardo, una visione,
ti cambiano per sempre, irrimediabilmente.
E dove una semplice passeggiata nel bush,
assume paurosamente la veste della bianca signora.

 

 

 

 

 

Namibia

 

 

 


Fino a quando il colore della pelle
non sarà considerato come il colore degli occhi
noi continueremo a lottare.
 
Ernesto Che Guevara

 

 

 

 


Kenya

 

 

 


Non esistono grandi scoperte, né reale progresso,
finché sulla terra esiste un bambino infelice.


Albert Einstein

 

 

Dati Unicef 2021: Africa sub-sahariana 7.732 bimbi morti al giorno al di sotto dei 5 anni.

 

 

 

 


Namibia

 

 

 

 

Ho trascorso cinque minuti cercando le parole appropriate, assorto nella contemplazione di un foglio bianco.
In quei 5 minuti, il mondo ha speso 10 milioni di dollari in armamenti, mentre 160 bambini morivano per fame o per malattie curabili.
Il che equivale a dire che nei miei 5 minuti di riflessione, il mondo ha speso 10 milioni di dollari in armamenti affinché 160 bambini potessero essere assassinati, in totale impunità, nella guerra delle guerre: la guerra più silenziosa, quella mai dichiarata, la guerra nota col nome di pace.
Corpi usciti dai campi di concentramento.
Le Auschwitz della fame.
Un sistema per la purificazione delle specie?
La fame destinata alle "razze inferiori", che prolificano come conigli, viene usata al posto delle camere a gas.
A parità di costi è un valido metodo per il controllo della popolazione.
L'epoca della pace mantenuta con la paura è stata introdotta dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
In mancanza di guerre mondiali, l'esplosione demografica viene tenuta sotto controllo dalla fame.
Nel frattempo, nuove bombe tengono sotto tiro la fame. 
Un essere umano può morire solo una volta, per quanto ne sappiamo, ma il numero di bombe nucleari conservate negli arsenali garantisce l'opportunità di uccidere tutti dodici volte.
Nauseato dalla piaga della morte, questo mondo che elimina gli affamati anziché abolire la fame, produce cibo a sufficienza per tutta l'umanità e più ancora.
Eppure, alcuni muoiono di fame, altri di indigestione.
Per garantire che l'usurpazione del pane possa durare, i soldati del mondo sono 25 volte più numerosi dei medici.


Eduardo Galeano, 1990 

 

 

 

 


Malawi

 

 

 

Karthoum, 1985.
Ad un tratto vidi una donna bellissima, con il viso ossuto incorniciato da un velo giallo limone e una monetina d'oro che luccicava su una narice.
Mi colpì la grazia con cui sedeva, avvolta in quel manto splendente, all'ingresso di un sordido tugurio di rami e di ritagli di plastica: assorta in un pensiero lontano, incurante dello squallore che la circondava.
Mi inginocchiai a meno di un metro di distanza e cominciai a scattare alcune foto.
Solo allora mi accorsi del bambino. Stringeva tra le labbra livide il capezzolo della madre, un'oliva scura all'estremità di un seno piatto e prosciugato. 
Gli occhi ed il naso erano neri di mosche, fameliche mosche che succhiavano l'umido muco residuo.
Ogni tanto le labbra del bambino si contraevano. La donna restava immobile. Sembrava molto giovane, forse meno di vent'anni.
Il cuore mi batteva in gola. Pensai a mia figlia, nata da pochi mesi e cominciai a piangere in silenzio.
In quel momento ci fu come un fremito sul mento del piccolo.
La madre non disse una parola.
Chinò la testa e nascose il minuscolo cadavere in un lembo del velo giallo limone.
C'è qualcosa di eroico e di misterioso nell'impassibile dignità degli africani di fronte alla morte.
Mi sono sempre chiesto dove trovino la forza per sopportare tanto strazio.
La morte di un bambino è l'ingiustizia suprema, l'intollerabile vergogna del mondo che in Africa si ripete ogni giorno, ogni minuto: bambini tagliati a pezzi dai machete, maciullati da schegge di granate, squarciati dalle mine, uccisi dalla fame, dalla malaria, dal colera.
 
Giovanni Porzio, 2001 Introduzione a "Cuore nero"
 


 
 


Kenya

 

 

 

 

 

Mali

 

 

 

 

 

Camerun

 

 

 

 

 

Kenya

 

 

 

 

 

Uganda

 

 

 

 

 

Namibia

 

 

 


La donna Himba si cosparge tutto il corpo, per più volte al giorno, con un impasto di ocra e grasso animale cui vengono aggiunte erbe aromatiche chiamato otjize. Un impasto di color rosso, una vera “crema di bellezza” che viene messa sulla pelle, sui capelli e sugli abiti, con lo scopo di proteggere l’epidermide dal torrido sole del giorno, dal freddo della notte e dall’assalto degli insetti e per contrastare il naturale invecchiamento. L’ocra usata per la preparazione della “crema” proviene da una pietra morbida di origine dell’Angola, il burro è il derivato del latte di capra. Gli ingredienti, mescolati tra loro e con un’erba profumata preventivamente pestata, vengono conservati in contenitori ricavati da corna di vacca e rivestiti sopra e sotto con pelle. Le donne non si lavano mai, si cospargono 2-3 volte al giorno con questo impasto e, mensilmente, per eliminare i vari strati, cospargono la pelle con una mistura di ocra e farina di polenta, che ha la funzione di “abrasivo” come uno scrub, mentre i capelli vengono ripuliti con la cenere.

 

 

 

 

 

Kenya

 

 

 

 

 

Togo

 

 

 

 

 

Uganda

 

 

 

 

 

Tanzania

 

 

 

 

 

Mozambico

 

 

 

 

 

Senegal

 

 

 

 

L'africano è anche fortemente vincolato alla sua terra d'origine. La terra è legata al suo passato, al suo presente e al suo destino finale.
È lì che sono sepolti i suoi antenati e si trova l'albore del culto. La terra che lo ha visto nascere, nella quale è stata piantata la sua placenta, sulla quale fu steso un giorno in occasione della presentazione rituale e che più tardi è stata bagnata con il suo sangue, nel rito della circoncisione, è parte inseparabile da lui. Anche se costretto ad emigrare per lungo tempo, la sua mente e il suo cuore saranno sempre orientati verso la sua terra, e non dormirà in pace finché non vi farà ritorno, anche se solo simbolicamente.
Se qualcuno muore fuori dalla sua terra, si farà di tutto per riportarci il corpo, e se ciò non fosse possibile, nella propria terra si farà una sepoltura simbolica, mentre dove è morto si avrà cura di seppellirlo con il capo orientato verso la terra di origine.
Si può, perciò, immaginare la violenza e il trauma causati dalle deportazioni, dai trasferimenti improvvisati e dalle emigrazioni forzate di popolazioni verso terre sconosciute a causa delle guerre, dei genocidi e della fame.

 

Amaral Bernardo Ammaral, 2008

 

 

 

 

 

Namibia

 

 

 

 

 

Togo

 

 

 

 

 

Camerun

 

 

 

 

 

Mozambico

 

 

 

 

 

Mozambico

 

 

 

 

 

Mali


 

 


Coloro che visitano per la prima volta l'Africa, restano meravigliati nel vedere la facilità con la cui si riuniscono grandi moltitudini di persone per i più svariati motivi: matrimonio, nascita di un bambino, malattia, morte. È molto elevato il sentimento di solidarietà e di partecipazione nei momenti più intensi e significativi della vita, particolarmente in occasione della malattia e della morte.
Quando muore qualcuno,secondo la tradizione, tutto il paese resta paralizzato: dal momento della morte fino alla sepoltura del defunto non si può zappare la terra, si lascia il lavoro e ci si reca sul luogo del decesso. In poco tempo, si riuniscono familiari, amici e persone apparentemente senza nessun rapporto di familiarità, per accompagnare e confortare i membri della famiglia, non solo durante la cerimonia della sepoltura, ma anche prima e dopo.
Un detto tradizionale dice: «nella sofferenza siamo tutti una famiglia».
L'africano è naturalmente portato alla compassione; ha una naturale capacità di condividere e di comunicare agli altri sentimenti di affetto, di sofferenza e di gioia, che chiamiamo simpatia. Molte volte questo sentimento oltrepassa i limiti della semplice emozione, per toccare i livelli più profondi dell'anima e della personalità, traducendosi in presenza, ascolto e comprensione amorosa della situazione altrui.
L'africano è persona dall'ascolto attento, affettivo, paziente e rispettoso. Un ascolto che tocca tutta la persona, e arriva ad immergersi nell'esperienza intima dell'altro, così da formare il senso del "noi". L'empatia vera avviene quando qualcuno si fa prossimo, cerca con semplicità di porsi al posto del suo interlocutore e si sforza di capire il cuore della realtà a partire dall'esperienza, dal ritmo e dal punto di vista dell'altro.
L'empatia africana è feconda, poiché, attraverso l'ascolto attento ed affettuoso, la persona si apre all'altro, lo accoglie con affetto e fa che egli "nasca" dentro di sé. Nella misura in cui si condivide in profondità, la persona che accoglie ed ascolta fa sue le esperienze, le emozioni, le preoccupazioni, i timori e le speranze di colui che viene accolto. Per l'africano tradizionale l'ascolto-empatico ha una funzione terapeutica. Ascoltare ed accogliere con amore, è curare lo spirito e il cuore della persona.
I saggi-maghi, i medici-curatori, gli anziani sono chiamati "letamaio", perché è il luogo dove le persone vanno a "buttare" la spazzatura della loro vita.
Queste persone trascorrono la maggior parte del tempo a colloquio con i loro clienti, semplicemente ascoltandoli con attenzione. Non ascoltano passivamente, solo con gli orecchi, ma con tutto il corpo, con gesti, con emissione di gemiti, fatti da monosillabi, che assicurano l'interlocutore di essere seguito e lo stimolano a verbalizzare i drammi e le preoccupazioni che ha nell'animo e nel cuore.
Dopo ciò gli vengono dati alcuni consigli ed indicati i rimedi e i riti da compiere. La persona si sente sollevata e, spesso, liberata dal suo male. A volte, non ha bisogno nemmeno che gli vengano dette delle parole o che gli vengano indicati rimedi o riti. Se ne va grata, perché è stato curata con l'accoglienza e l'ascolto-empatico.

 

Amaral Bernardo Ammaral, 2008

 

 

 

 

 

Togo

 

 

 

 

 

Mali

 

 

 

 

 

Senegal

 

 

 

 

 

Malawi

 

 

 

 

 

Togo

 

 

 

 

 

Mozambico


 

 

 

Il sorriso di un bimbo africano è indimenticabile:
solo accennato, il più delle volte fragoroso che diviene aperta risata,
manifesta sincerità assoluta, la gioia del momento, il piacere di poco più del niente quotidiano,
lo stupore e felicità per la tua inutile presenza.
Il pianto è altrettanto indimenticabile, ma lacerante, straziante:
sommesso, dirotto, non è mai capriccio, ma esigenza, privazione, dolore,
perché ha subito il dovere di nascere,
ma gli è stato negato il diritto di vivere come un bimbo dovrebbe vivere.

 

 

 

 

 

Namibia

 

 

 

 

 

Togo

 

 

 

 

 

Uganda

 

 

 

 

 

Kenya

 

 

 

 

 

Namibia

 

 

 

 

 

Togo

 


 


I Tamberma -che chiamano se stessi "betammari-be", ovvero "coloro che sanno costruire"- svolgono tutti i lavori di edificazione delle straordinarie "tékyèté" a mani nude impiegando solo materiali come terriccio, legno e paglia (usata come legante). Con le dita delle mani lasciano sulle pareti impronte destinate a diventare delle vere e proprie decorazioni. I compiti durante l'edificazione sono ben distinti: gli uomini devono costruire fisicamente i muri, mentre le donne hanno l'onere di sobbarcarsi i lavori più duri: recuperare la terra e l'acqua. Saranno loro, le future regine del "tékyèté", ad occuparsi -quando la costruzione sarà terminata- della sua manutenzione. Provvederanno a rinforzare i muri bagnandoli con il burro di karité o il succo di néré (un frutto della foresta), che secondo i Tamberma hanno proprietà collanti e impermeabilizzanti. E prima della stagione delle piogge, si occuperanno di ristrutturare le pareti esterne, tappando le crepe con una mistura di terra e di sterco di vacca.

 

 

 

 

 

Camerun

 

 

 

 

 

Togo

 

 

 

 

 

Namibia

 

 

 

 

 

Senegal

 

 

 

 

 

Togo

 

 

 

 

 

Camerun

 

 

 

 

Venerdì, 18.
E' da poco spuntato il giorno, ma sono ormai parecchie ore che i miei occhi vagano nell’oscurità di questa stanza. Non sono riuscita a prendere sonno, e la cosa non è del letto scomodo, del caldo o degli insetti che incuranti tormentano la mia pelle. A tenermi sveglia sono state le immagini, gli odori e le sensazioni che come un’onda anomala mi hanno investita appena i miei piedi hanno toccato il suolo africano, e che adesso si rincorrono e si mescolano veloci nella mia mente. E ho sentito l’improvviso e impellente bisogno di metterle nero su bianco, perché per quanto sia profonda un’emozione ci mette poco a svanire, e io non voglio dimenticare il modo esatto in cui mi sono sentita.
Così, cercando di non fare rumore sono sgusciata fuori dalla mia stanza con una matita fra i denti e un bloc—notes in mano e mi sono messa a scrivere. Sono arrivata ieri, con due borsoni pieni di oggetti di vario genere che mi sono affrettata a depositare in albergo, uno dei pochi dotato di corrente elettrica e con tutti i vetri al loro posto. E’ la prima volta nella mia vita che mi trovo faccia a faccia con me stessa, in un continente enorme e sconosciuto, con un obiettivo ben preciso da raggiungere; i battiti accelerati del mio cuore non sono dettati dalla paura e l'ebbrezza della libertà mi fa sentire euforica.
Ho cominciato a girovagare per le stradine sterrate di questa città, con la mia reflex al collo, anche se non avevo intenzione di mettermi subito a lavorare e mi ero concessa un giorno per ambientarmi. E immediatamente le mie scarpe si sono coperte di polvere e il sorriso mi si e congelato sulle labbra. Avevo fatto così tante ricerche, letto così tanti libri e visto così tanti documentari in occasione di questo viaggio che credevo sarei stata pronta; e invece mi sono scontrata con la povertà, quella che ti lascia senza parole, incapace di reagire e immancabilmente ti fa vergognare con te stesso in quanto essere umano. Le case cadevano a pezzi, tutti andavano in giro scalzi e coperti di stracci, ad ogni angolo di strada si incontravano mendicanti, la faccia scavata e la pancia gonfia, che elemosinavano qualcosa da mangiare.
Ma l'urto più forte e arrivato proprio nell’osservare i bambini. I bambini ridevano, sporchi e circondati da mosche spingevano un vecchio cerchio con un legnetto, si rincorrevano e tracciavano disegni nella terra. Non ero sola, mi faceva compagnia un intero gruppo di turisti che, paralizzati nel bel mezzo della strada, guardavano a bocca aperta questo spettacolo dolceamaro: eravamo increduli e a disagio di fronte alla felicità di chi non aveva niente. Ho abbassato gli occhi e mi sono sentita terribilmente stupida nel ricordare quella volta in cui mi ero messa a piangere per non aver trovato delle scarpe celesti che si abbinassero al mio vestito.
Sabato, 19.
Ho cambiato alloggio, ma il bisogno di raccontare a qualcuno quello che sto vivendo e sempre lo stesso; ed oggi come ieri a raccogliere le mie emozioni è un foglio di carta che, senza giudicare, assorbe le mie trepidanti parole. Devo calmarmi e fare un po’ di ordine, anche se sono così confusa che non so da che parte cominciare.
Come prima cosa ieri mattina, sul tardi, sono andata all’unico telefono di tutta la città e ho chiamato il mio capo; gli ho raccontato tutto quello che avevo visto e, come risposta, ho ricevuto la peggiore sgridata della mia vita. Mi ha urlato di non lasciarmi impressionare così facilmente e di avere un po’ di spina dorsale; non mi aveva mandata fin li per una gita turistica, voleva le foto sul suo tavolo lunedì mattina, e non foto qualsiasi, foto che facessero male, foto per la copertina del suo grande settimanale, foto da sbattere in faccia al mondo, senza alcuna censura. La posta in gioco era alta, allo scatto più commovente sarebbero andati 10.000 euro. Mi ha intimato di mettermi al lavoro, di scovare le situazioni più degradate, tristi e di documentarle a dovere. Era la nostra grande occasione per sfondare e non dovevo lasciarmela sfuggire; che per una buona volta la smettessi di piagnucolare e imparassi a controllarmi, ad essere fredda. Sono rimasta in silenzio, ma mi chiedevo, è giusto vendere la sofferenza?
Nonostante ciò sono salita su una vecchia jeep con una guida di nome Nerj, pronta ad un viaggio estenuante alla volta del villaggio dove avrei dovuto scattare le foto. Dal'Italia mi ero portata i giocattoli di quando ero bambina, ma nel trambusto di quel mio primo giorno in Africa mi ero completamente dimenticata di averli con me, così li ho caricati in macchina e siamo partiti. Dopo circa sei ore di viaggio, Nerj ha rallentato e si è fermato in mezzo alla strada sterrata, in mezzo al nulla. Sorridendo ha indicato la mia borsa e ha detto "Se vuoi, puoi dare qui tuoi giochi”. Io ho provato a ribattere che non vedevo nessuno a cui avrei potuto donarli ma, prima che potessi finire di parlare, ha avvicinato le mani alla bocca ed ha emesso un fischio potentissimo. Giuro che ho sentito la terra tremare, e un vero e proprio nugolo di bambini, di tutte le età, ha preso d’assalto la nostra macchina: ci provo, ma mi riesce davvero difficile esprimere con le parole la gioia dei loro occhi; mi accarezzavano continuamente, i capelli, le mani, le braccia e, anche se non capivo la loro lingua, bastava la tenera eloquenza dei loro gesti a farmi venire le lacrime agli occhi. E per la prima volta nella mia vita mi sono sentita davvero importante per qualcuno.
Sono arrivata al villaggio ma, nella serata di ieri e in tutta la giornata di oggi non ho scattato una sola foto; e di scene crude, come le chiama il mio capo, ne ho viste tante, troppe. Gli abitanti hanno paura della mia reflex, ed io ho paura dell’immagine di me stessa che vedo riflessa nei loro occhi. E ora in questa vecchia capanna alle parole si mescolano le lacrime e non so più chi sono.
Domenica, 20.
Questa mattina ho passeggiato per il villaggio senza macchina fotografica. Era l’alba, ma tutti lavoravano ormai da ore. Mi sono avvicinata ad una donna, che indossava un’ampia veste colorata e senza sosta triturava dei semi con un grosso pestello. Senza pensarci ne ho afferrato uno anch’io e hanno cominciato ad aiutarla. Non so per quanto tempo abbiamo lavorato fianco a fianco, in silenzio, so solo che ad ogni colpo mi sembrava di sconfiggere le mie paure e, paradossalmente, mi sentivo a casa.
In quel mentre è cominciato a piovere: tutti sono corsi nel bel mezzo del villaggio e hanno cominciato a cantare, a danzare, a ridere, ed io con loro. E mi sono sentita rinascere e ho capito che per ventun anni avevo sentito la vita, ma non l'avevo mai ascoltata davvero. Ora sono sull’aereo di ritorno e la memory—card è vuota. Non vincerò nessun premio, forse sarò addirittura licenziata. E scopro che non mi importa, perché le immagini più belle non hanno bisogno di essere sviluppate, le porto già impresse nel mio cuore. Guardo fuori dal finestrino e sorrido, arrivederci Africa.

 

 Irene Lombardi, 2012

 

 

 

 

 

Namibia

 

 

 

 

 

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La reale bellezza della vita risiede nella condivisione. E' questa la martellante frase che accompagna l'esistenza di Tiziana sin dal giorno in cui ha conosciuto Malayka; e lei, giornalista di guerra, che per trent’anni ha girato il mondo, descritto popoli, luoghi ed eventi, ha la sensazione di aver appreso in un solo istante tutto ciò che ha ricercato per una vita intera.
Accadde tutto quattro anni fa quando, avendo ricevuto un particolare incarico, si diresse in Africa, nelle terre dello Zambia. Incontrò Malayka durante il suo primo giorno in uno strano villaggio. Tra i numerosi bambini che le vennero incontro, fu sorpresa da uno che, invece, rimase in disparte a giocare con la terra, intonando una melodia. Lo raggiunse poco tempo dopo. «Cosa stai cantando?» gli chiese utilizzando, come meglio poteva, il linguaggio del luogo. "E’ un inno alla terra e al suo colore" gli rispose, senza distogliere lo sguardo dalle costruzioni di fango che aveva fatto sul terreno. "Il marrone e il mio colore; qual'è il tuo?"
La bellezza di un adolescente risiede nella sua incrollabile voglia di sognare. Tiziana che, fino a quella mattina, aveva sempre visto la terra come il letto dei soldati morti, senti crollare dentro di sé il muro "anti-dolore” che in tanti anni di carriera aveva eretto. Rimase li, immobile, totalmente rapita da quegli occhi neri e quel sorriso bianco. Ogni rumore intorno a loro sembrava essere cessato come se il mondo, insieme a quel bambino, fosse in attesa della sua risposta. Tornò per un secondo bambina anche lei.
"Il mio colore e il blu, quello del mare però; quello del cielo è uniforme. Il cielo ti fa venire voglia di volare, di alzarti, di sollevarti da tutto e da tutti, ma e una stampa colorata che ti ricorda un limite che non c’è: ti sembra di toccarlo, ma non ci arrivi mai. Invece io preferisco l'azzurro del mare, perché è un colore che puoi non solo toccare ma anche ascoltare".
Si guardarono intensamente; mi sorrise e si avvicinò a lei presentandosi. In Africa il saluto è come un rito, un momento da sottolineare, un istante in cui smettere di fare qualsiasi altra azione. Esso consiste nel porgere all'altro la mano, sostenendo il braccio destro con quello sinistro e compiendo un profondo inchino. È una regola: la persona che per prima incrocia lo sguardo dell'altra ha il compito di avvicinarsi e inchinarsi, mentre colui che e salutato porge la sua mano "dall’alto”. Non è un gesto di sottomissione, poiché chi si inchina non si prostra come schiavo ma come servitore dell’altro; ed è proprio attraverso il saluto che due vite entrano a contatto tra loro, anche solo per pochi secondi.
Noi occidentali abbiamo perso, o forse non abbiamo mai avuto, questa considerazione circa il saluto. Da quel momento l'anima di Tiziana si legò indissolubilmente a quella di Malayka. Egli la prese per mano e cominciò a mostrarle il villaggio. Quando si impara dagli altri ci si rende conto che ogni cosa creata ha un suo particolare motivo di esistere; e lei apprese tutto ciò vivendo attimo dopo attimo, chiacchierando con le timide donne africane e osservando i bambini che venivano da lei a chiederle cosa fosse quella che per noi è una semplice macchina fotografica. Nei giorni seguenti sperimentò la fatica e come essa sia sempre accompagnata da un pizzico di gioia e soddisfazione; si cimentò ad esempio nella costruzione di piccoli strumenti a corda simili alle chitarre, e fece giocare i bambini dipingendo i loro volti con dei colori a tempera portati dall'Italia.
Una di quelle sere assistette addirittura ad una loro festa. Si beveva una strana bevanda, il "monkoyo” e si fumava in lunghe pipe di legno un tabacco dall’aroma aspro e stordente, mentre tre donne suonavano gli strumenti che avevano costruito il giorno prima. Quella sera Tiziana conobbe anche Okalà, il capo villaggio: era alto e robusto come i cedri che difendevano la solitudine del suo "palazzo” e i suoi occhi grandi e profondi ricordavano le immense distese di quel territorio. Ella capì subito che il suo viaggio in Africa sarebbe iniziato da quell'uomo e da quel popolo e quel viaggio sarebbe continuato per sempre, inesorabilmente.
La saggezza di Okalà non aveva limiti: davanti a lui tutte le cose apprese per una vita intera sembravano perdere di significato. Dinanzi a quell'uomo, una sola emozione e un solo pensiero presero in lei il sopravvento; così si fece coraggio e gli chiese: "Cos’e l'Africa?" Okalà la guardò intensamente e le persone intorno a loro si zittirono, curiose della risposta di quel gigante misterioso. Ma egli non rispose con una frase. Semplicemente alzò il braccio e indicò una donna che si trovava in disparte a una decina di metri alla loro. I lunghi capelli neri mettevano in risalto il vestito dai colori sgargianti. Eppure non era il suo abito quello a cui Okalà voleva che si prestasse attenzione. Ciò che quel vecchio saggio voleva fare notare era il modo in cui quella donna stava facendo addormentare il suo bambino.
In Africa le donne sono solite porre dietro le proprie spalle il proprio bimbo, il quale, sostenuto da una "cesta” di stoffa ben salda, viene cullato da una dolce melodia e dal corpo della mamma che si cimenta in una danza dai movimenti lenti e armoniosi. Gli occhi lucidi di Tiziana rimasero a fissare quell'evento, mentre le altre donne che avevano smesso di suonare stavano intonando anche loro le note di quella ninna nanna.
"Vale sempre la pena fissare una stella, una persona, un’emozione, un punto, un sorriso pensò Tiziana. "Vale sempre la pena stare con se stessi per essere con gli altri. E noi uomini del progresso alla continua ricerca d'affetto, non abbiamo ancora scoperto quanto sia bello l'amore dato senza essere cercato”.
Mentre era immersa in questi pensieri, Okalà aveva appena preso in Braccio Malayka il quale le stava porgendo una piccola ghirlanda di fiori. Tiziana scoppiò in una fragorosa risata; ed è fra quei sorrisi colorati e contagiosi che il suo animo si riempì di pace. In mezzo a tutte quelle persone solidali e amorevoli si sentiva "a casa", come in nessun altro luogo. Trascorse gli ultimi due giorni intervistando i bambini: era curiosa di scoprire quali oggetti desiderassero. Le risposte furono semplici: una casa ad un piano, un tetto solido, il profumo di qualcosa da mangiare, un viale sterrato, il tramonto sul mare, un’altalena. Fu allora che comprese: quei ragazzi volevano soltanto continuare a guardare il mondo con i loro occhi e non con i nostri.
Tornò in Italia frastornata. Tuttavia ogni cosa in lei appariva finalmente chiara. Forse i viaggi migliori sono quelli che non esistono prima della partenza, quelli per cui "la ragione stessa del viaggio è viaggiare”; e sebbene ognuno di noi segua il proprio destino, in realtà stiamo compiendo tutti lo stesso viaggio. Ecco perché oggi Tiziana può affermare di aver fatto tanti viaggi, ma di aver conosciuto un solo popolo.
Dopo la sua esperienza nello Zambia, rimase a casa per una settimana cercando di scrivere il suo articolo. Avrebbe dovuto parlare del tasso di povertà riscontrato, delle pessime condizioni igieniche del luogo, delle costruzioni scadenti, della mancanza di fondi; ma ogni volta che prendeva in mano la penna si infastidiva al pensiero che non poter descrivere invece lo sguardo della dottoressa e dei volontari italiani che si prendevano cura dei bambini, l'incrollabile fiducia di Malayka, o i movimenti di quella donna dal sorriso splendido che sosteneva il figlio sulla schiena. Non aveva la minima intenzione di stilare un articolo crudo e oggettivo. Così, per la prima volta, Tiziana smise di prestare attenzione alle procedure del mercato giornalistico e, con il cuore in mano, scrisse questo: "l'Africa va al di la di tutto, perché è bellezza; e la bellezza va al di la di tutto".
In Africa ho visto la povertà, ma ho conosciuto anche la gioia; ho provato la fatica, e nella fatica ho compreso il reale senso della vita che risiede nella condivisione. Ecco perché voglio affidare la conclusione di questo mio articolo alle parole di un libro che ho letto recentemente, con la speranza che esse possano risvegliare gli animi umani e spronarli a lottare per coloro che invece non possono farlo: "La miseria non è naturale: è creata dagli uomini; e combatterla non è fare carità, ma giustizia".


Eleonora Gioveni, 2012

 

 

 

 

 

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Una caratteristica delle donne Herero è che il pannicolo posteriore determinato dalla parte finale della colonna vertebrale, cioè il coccige, si piega in su diventando orizzontale per cui esse hanno il sedere molto sporgente.
Le donne Herero sono famose per il loro vistoso, colorato e ricco abbigliamento che risente della colonizzazione europea e della “civilizzazione” forzata da parte dei missionari tedeschi. Correva l’anno 1873 quando la moglie di un missionario protestante tedesco si mise in testa di vestire le sconvenienti nudità delle donne Herero nientemeno che con abiti di foggia vittoriana, moda che imperava in quel periodo in Europa.
Blusa stretta, chiusa fino al collo, con maniche a sbuffo, gonna a campana, bianca o rossa, lunga fino ai piedi e molto gonfia, mantenuta tale da 6 o 7 sottogonne, e in testa un copricapo colorato a forma di corna di vacca, “confezionato” utilizzando una striscia rettangolare di stoffa che viene arrotolata e attorcigliata intorno a un giornale o altra sorta di materiale.

 

 

 

 

 

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Suddivisi in piccoli gruppi o in orde plurifamiliari, i San vivono, assai miseramente e in zone inospitali, di raccolta e caccia allo stato nomade, seguendo tecniche e sistemi uguali a quelli che, probabilmente, seguivano le popolazioni della preistoria.
I San sono considerati i più antichi abitanti dell’Africa meridionale.
L'arma principale dei San è l'arco semplice a sezione tonda con frecce avvelenate a testa mobile in osso o in ferro. L'unico animale domestico che conoscono è il cane, con il quale vivono in una sorta di commensalismo e che utilizzano poco per la caccia essendo i San perfetti conoscitori delle abitudini di tutti gli animali del proprio habitat. La caccia è l'occupazione principale dell'uomo che, tuttavia,non trascura la raccolta, della quale s'incaricano più specificamente le donne e i ragazzi, e che è praticata con l'ausilio di un bastone da scavo.
Dato il nomadismo, i San erigono campi provvisori formati da semplici ripari unifamiliari di rami e frasche, talvolta disposti in modo da assumere l'aspetto di una capanna ad alveare. Sono organizzati in famiglie esogamiche patrilineari, ed il matrimonio segue la norma uxorilocale. Prevale la famiglia nucleare e l'uomo deve lavorare per i suoceri almeno fino alla nascita del primo figlio, ed, in genere, ogni famiglia vive isolata dalle altre in un territorio assegnato di volta in volta dal gruppo di appartenenza.
Più famiglie, per un complesso mai superiore alle 50 unità, costituiscono un'orda distinta da un nome proprio; più orde possono costituire una sorta di tribù (più propriamente “frazione”) che può giungere ad avere anche qualche migliaio di componenti. Orde e frazioni non hanno capi né struttura politica; gli anziani godono di una certa autorità, limitata però alle funzioni di capocaccia o alla scelta del luogo dove accamparsi.
Rigide sono le loro regole morali: dalla proibizione di parlare, incontrare e guardare la suocera, all'evitare di guardare in faccia il suocero, alla condanna a morte per l'adulterio e l'incesto, ai severi riti d'iniziazione per i ragazzi (maschi e femmine), all'uccisione dei gemelli e dei neonati deformi. L'uccisione dei gemelli consegue le credenze religiose dei San che credono l'uomo costituito da due corpi: quello invisibile, alla morte, migra in cielo, l'altro dimora nella tomba ma può mutarsi in animale. Questo dualismo si riscontra nel loro pantheon dove le principali divinità sono il signore dei morti, il malefico Gauab, e il signore dei vivi, il benefico Kang (o Kaggen).


Shikamana web site, 2011

 

 

 

 

 

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Un giorno o l'altro bisognerà liberarsi di tanta correttezza politica, di tanto perbenismo intellettuale, e osare dire come uno la pensa veramente. No, gli uomini non sono tutti uguali; sì, le razze esistono, e si dividono in inferiori e superiori. E superiore a tutte è l’africana.
Prendete uno di noi, cittadino di un qualsiasi paese europeo, con le sue abitudini, le sue certezze, il negozio di alimentari sotto casa, la tv, il riscaldamento, la metropolitana, la settimana bianca e le ferie esotiche comprate all’agenzia di viaggi. Paracadutatelo in una città africana, in una periferia di baracche, oppure in un villaggio lontano da tutto. Non credo che reggerebbe a lungo a quella vita durissima. Soccomberebbe presto. Gli africani, invece, tirano avanti e sono capaci, nella loro miseria, nell'incertezza dell’oggi e del domani, di un sorriso, di un gesto d’ospitalità, di un atto di solidarietà tirato fuori -come nel miracolo di un prestigiatore- dal vuoto della più totale privazione.
L’Africa è un continente di sopravvissuti. Agli stenti, alle guerre, alle angherie di un potere che è pressoché ovunque arbitrario, vessatorio, corrotto e concepisce se stesso come privilegio, mai come servizio. Alla violenza, che è parte integrante della tradizione, ma anche l’unico frutto della modernità che abbondi. Alla mancanza di garanzie, di sicurezze, di autorità che non siano quelle del villaggio: gli anziani, i capi, lo stregone. Sono, gli africani, un’umanità che ha fatto della pazienza una virtù continentale, dell'umiltà la regola numero uno della sopravvivenza, dello humour l'unica forma di svago, d’intrattenimento, di distrazione. Nessuno come loro sa ridere di sé medesimo, dei potenti, dei casi della vita. Sono, gli africani, i napoletani del mondo: e, come questi, eccellono nell’arte di arrangiarsi, nel genio di trovare espedienti che sono al tempo stesso soluzione ai problemi e sberleffo a chi li ha creati.
Se si potesse trasformare in prodotto nazionale lordo la capacità che hanno gli africani di inventare, riciclare, adattare se stessi e le cose, di superare gli ostacoli con una soluzione trovata guardandosi intorno, allora sì che l'Africa sarebbe ricca, ricchissima. Chiunque visiti un paese dell’Africa comincia, necessariamente, dalla sua capitale, dove lo sbarca l’aereo col quale è arrivato. A questo visitatore immaginario propongo un facile esercizio. Vada, molto per tempo la mattina, ad appostarsi su una qualunque arteria della città, preferibilmente di periferia. Ecco, si piazzi lì mentre fa ancora buio, spenga il motore della sua auto, e aspetti.
Sorge il sole sulla città, annunciato dal canto del gallo, anche se siamo a Johannesburg o a Nairobi. Echi lontani, echi contadini, ma presto l'immobilità è rotta dal rombare di camion colossali, che si avviano nella semioscurità lasciandosi dietro nuvole di neri scarichi. C’è sempre un traffico, un commercio, un carico da portare a qualche remota destinazione con immancabile ritardo; c'è sempre qualcosa che deve arrivare oppure che deve partire e questo gesto, così banale da noi, dell’inviare e del ricevere è ancora, in Africa, un rischio, un'alea, un’avventura.
Poi, dietro al fracasso degli autotreni, quando comincia ad albeggiare, ecco arrivare la gente, come in una battaglia la fanteria tiene dietro ai mezzi corazzati. Per quanti sforzi faccia di attenzione, per caldo che sia il caffè nel thermos che si è portato dietro nel suo posto di osservazione, il nostro viaggiatore non riuscirà a capire da dove diavolo sono venuti. Un attimo prima non c’erano, e adesso ecco che brulicano ai lati È della strada. Camminano. Gli africani camminano. Saltano su dall’argine, vengono da una capanna di terra o di lamiera che si nasconde dietro una fila di banani, s’inerpicano sull’asfalto e prendono a camminare.
È appena l’alba e loro sono lì, per via, lindi per quanto possono, lavati, a pancia vuota, gli scolari con l'uniforme della scuola, i calzettoni, le scarpe nere ben affibbiate, le madri con le sporte o con la secchia in testa. Comincia la battaglia quotidiana. Il perenne movimento che è ogni giorno una vittoria, perché dietro quell’andare e venire di primo mattino c’è una casa senza riscaldamento, spesso senz’acqua né elettricità, una cena grama cucinata con la legna o col carbone, una famiglia pigiata tra quattro mura nel buio e nel fumo, un’esistenza formicolante e precaria. L’Africa si presenta così, da qualunque punto si cominci a conoscerla. Un continente in marcia, che dà il senso prepotente di uno scopo, anche se si tratta di uno scopo elementare: raggiungere un pozzo, una scuola, un mercato. Bighellonare non è un verbo africano.
Si obietterà che l’Africa non esiste, che esistono più di cinquanta diversi paesi e un infinitamente maggior numero di tribù. È pur vero. Ma a me è sempre parso che ci sia un comun denominatore, che si tratti dell’altopiano etiopico o dei ghetti del Sudafrica, della foresta ghanese o della savana orientale, dei Masai o degli Ibo. È questo universale camminare, questo primo rispondere con le gambe e con i piedi alla scarsità, alla mancanza di mezzi, alla ineguaglianza della sorte, alle sfavorite condizioni di partenza.
Un mondo povero, che ha sempre destato l'umiliante indifferenza dei benestanti; ma capace di impartire una lezione magistrale a chiunque la sorte dovesse mettere un dì nelle sue stesse condizioni. Una lezione su come trasformare la precarietà in ricchezza e la sopravvivenza in arte. Una lezione fatta di tanti capitoli.
La macchina.
Scordatevi dell'airbag, dell’abs e di altre futilità. Qui non sono ancora arrivate e ci vorrà molto tempo prima che vengano considerate beni necessari. Se ne può fare ancora a meno. Anche della cintura di sicurezza; anche degli ammortizzatori, delle pastiglie dei freni e di altri accessori all’apparenza indispensabili. Un’automobile, nell'accezione africana, non è altro che un motore capace di trasportare il maggior numero di persone possibile. Quattro cilindri, quattro ruote e una carrozzeria stipata all’inverosimile. Non esistono statistiche attendibili sugli incidenti stradali (come su qualsiasi altra cosa) e forse è meglio così.
Il viaggio.
Ne consegue che viaggiare è sempre un’avventura. Si sa quando si parte, non quando si arriva. "Morirò su una strada africana", profetizzava cupo un collega francese, grande inviato. È ancora vivo, adesso lavora in redazione e forse rimpiange quelle strade. Sono pericolose, ma sono anche terreno di solidarietà, di ospitalità, di facile amicizia. Oggi, poi, di un altro viaggio si parla: quello quasi impossibile verso l’Europa, la speranza di un lavoro che spesso si tramuta in disperazione.
Il gioco.
I giochi dei bambini sono la dimostrazione più vistosa della grande capacità africana di riciclare. Sono diventati anche uno dei più comuni souvenir che il turista europeo si riporta a casa. Automobiline fatte con le lattine di Coca-Cola, barattoli che diventano birilli, aeroplani di filo di ferro e altri fantastici oggetti che danno una seconda vita ai rifiuti dei ricchi. Le città africane sono spaventose fonti di inquinamento ma ugualmente —sia pure in piccolo— laboratori di riciclaggio.
La malattia.
Resta un mistero, per noi europei, il modo in cui gli africani affrontano e vivono la malattia. Uno sguardo superficiale lo chiamerebbe fatalismo, invece dev'essere, più probabilmente, una maggiore capacità di soffrire. Quando ci ammaliamo, noi ci sentiamo in diritto di essere assistiti e curati. È qualcosa che la società, la sanità pubblica, ci deve. Diversamente in Africa. La sanità è catastrofica ovunque, eccezion fatta per il Sudafrica e poche altre realtà particolari. Il malato sa di dover contare soprattutto su se stesso, semmai sulla solidarietà dei vicini, ben poco sulla pubblica assistenza. Forse per questo si ha l'impressione che qui più che altrove la malattia sia un fatto privatissimo, circondato da riserbo, timidezza, pudore, e che il malato si richiuda su se stesso più che affidarsi ad altri.
Il tempo/1.
L’arretratezza, la povertà, la mancanza di mezzi di comunicazione e di informazione, ci inducono a non considerare gli africani nostri contemporanei. Bensì testimoni viventi del passato, uomini e donne che vivono ancora in un tempo ormai andato. È un errore. Gli africani sono cittadini dell'oggi e del mondo, spesso incredibilmente informati a dispetto della mancanza di liberi giornali o di tv. Vivono in perfetta sincronia col pianeta, solo che sono più sfavoriti di altri suoi abitanti. Semmai c’è da chiedersi se non siano più preparati di noi a un domani di scarsità, di risorse più limitate e più condivise, dunque meno disponibili per tutti.
Il tempo/2.
In Africa non vale il detto che il tempo è denaro. Il tempo è gratis e se ne fa un gran scialo. Il tempo non è una ricchezza quantificabile, ma un’infinità. Una condizione umana. La virtù cardine è il saper aspettare. La differenza capitale con la vita quotidiana europea è forse questa: le giornate non si riempiono di cose fatte, ma di attese. Che un impiegato si degni di riceverti. Che giunga il pezzo di ricambio al camion rotto sul ciglio della strada. Che venga la sera e con essa un po’ di refrigerio. Come dice la scritta su un "matatu", quei pullmini che stanno a metà tra un taxi e un autobus e fanno da mezzo di trasporto universale in tutta l’Africa: "Il tempo è denaro? Prendi tempo!".


Pietro Veronese, 1998

 

 

 

 

 

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La vita della donna Maasai è ritmata da un numero limitato di celebrazioni. La sua presenza presso la famiglia inizia con l’"embarnoto" e "enkerai".
Durante l’infanzia, "entitoisho", la bambina rimane a casa e impara a pascolare gli agnelli che rimangono vicino all’"enkang", la casa. Con il passare del tempo, la bambina inizierà a seguire le donne al fiume per attingere acqua e raccogliere legna. Con la pubertà giunge il tempo dell’"emurata", la circoncisione (clitoridectomia).
Questa cerimonia, a differenza di quella maschile, è privata. Dopodiché, la giovane passa attraverso alcuni stadi ("enkairbatani", novizia, "embarnoti", rasata/giovane, "esiankiki", in età da marito) per essere pronta al matrimonio. Con il matrimonio, fatto col rito di "enkiyama", la donna entra nell’"olporror" del marito, ma rimane membro del proprio clan. La donna sposata vorrà diventare "entoomononi", madre, prima possibile. Con l’età arriverà il titolo di "kokoo", nonna. La "kokoo" ha un ruolo importante nella conduzione della casa e nell’educazione dei bambini, lavorando dietro le quinte farà sentire la sua autorità.

 

 

 

 

 

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"Maam Cumba Lambaye" (“la madre dei gatti”) è il genio tutelare di Rufisque ("Teng Ghegg", in lingua wolof), magica città che sorge sulla costa sud della penisola del Capo Verde, in Senegal. A Tiawlène, un quartiere della periferia di Rufisque, abita Fat Seck, grande veggente guaritrice, una delle poche persone abbastanza forti da ospitare in permanenza dentro di sé, senza impazzire, il proprio "rab" (spirito infestante).
Fat ha dedicato la propria vita a curare le possessioni degli altri, grazie ad un dono che le ha trasmesso sua nonna, che proviene dall’antichità della sua famiglia e che lei stessa trasmetterà ad una discepola (non necessariamente legata da parentela), quando saprà che “è giunta l’ora”. Dietro la casa, un vasto campo è pieno di recipienti che contengono acqua, latte, sangue, pezzetti di legno e ossa d’animali sacrificati. Ogni recipiente ("canarì") corrisponde ad un malato, venuto da Fat Seck per farsi guarire, e contiene il "rab" o "ginn", lo spiritello malvagio che perseguitava e faceva impazzire. A volte, però, l’ossessione deriva da pratiche umane, qualche nemico ha assunto un "marabù" (stregone malvagio) per praticare un interdetto ("xalá"). In tali casi, l’esorcismo si fa più complesso: è necessario praticare una “contro–magia” e liberare forze che devono ricadere su qualcuno, non soltanto sull’animale sacrificato, ma anche sull’autore del maleficio.
Per ogni guarigione, Fat Seck prepara tre oggetti: un gran "canarì" (vaso di terracotta), pieno di latte cagliato; una calebassa (specie di zucca seccata e vuotata), nella cui acqua galleggiano pezzetti di legno, che rappresentano la famiglia del paziente, ed i suoi rapporti col mondo esterno; un pestello da mortaio infilato nel suolo, cioè il paziente stesso ed il suo destino terrestre. Tutt'intorno, vengono deposti ossa e corna degli animali sacrificati.
I poteri di Fat Seck sono noti. Un pomeriggio, ci rechiamo insieme a Tiawlène. La vecchia ci riceve, attorniata da donne della famiglia, ci scruta con i suoi occhi penetranti, rivela i nostri segreti più intimi, poi ci fa chiedere dall’interprete perché siamo venuti (Fat Seck comprende il francese, ma non vuole parlarlo: capisce di più guardando nelle persone, di quanto la loro bocca possa dirle). Il cortile è pieno di "canarì", che imprigionano i "ginn" usciti dai malati guariti, le pelli degli ultimi animali sacrificati si stanno seccando al sole.
Prima della partenza, Fat Seck ci regala due bastoncini di legno, uno ciascuno, e ci invita a ritornare dopo qualche giorno: ci sarà una cerimonia di "ndepp", un esorcismo. Uno "ndepp medio”: per le possessioni più violente è richiesto il sacrificio d’un toro, per le più lievi bastano due galletti. Il sacrificio cui stiamo per assistere prevede un capretto, come vittima sacrificale. Il martedì successivo, alle nove e mezzo del mattino, entriamo nel cortile.
Fat Seck è rimasta in camera sua, a ricevere visite e offrire consulti. L’officiante dell’esorcismo è una donna piuttosto giovane, Senabou: par di capire che sia l’erede designata del rab di Fat. C’introduce nel cortile della cerimonia e ci fa uscire, ci permette o ci proibisce di fotografare secondo i momenti, per rispettare i significati e le persone interessate (la malata e la sua famiglia). Un solo uomo partecipa alla cerimonia. Coperto d’amuleti intorno alla vita e alle braccia, sgozza il capretto e fa colare il sangue in una calebassa.
Poi, la cerimonia si frammenta. L’uomo appende il capretto per le corna e comincia a scuoiarlo meticolosamente, seguendo un rituale prefissato e mettendo da parte, in un recipiente, alcune parti: il cuore, il fegato, una zampa. Su questi organi, ancora sanguinanti, sarà scaricata una parte delle forze maligne che infestano la paziente. Da un’altra parte, in un angolo del cortile dei canarì, una giovane donna sta facendo meticolose abluzioni col sangue della vittima. Infine, quasi di fronte al capretto scuoiato, un gruppo di donne prende un canarì nuovo, vi pratica un foro, e poi si fa consegnare le budella del capretto e comincia ad annodarle: una serie di nodini, uno dietro all’altro, come una corona del rosario. Una di loro ha la faccia terribilmente erosa. Non è lebbra, non è una scottatura: anche l’osso della mandibola è orribilmente deformato.
Veniamo allontanati, facciamo una chiacchierata con l’officiante che si prepara all’esorcismo vero e proprio. Quando ritorniamo nel cortiletto, la paziente è seduta e ci volge le spalle. L’officiante la copre con un panno, le impone le mani, recitando formule. Poi le impone sul capo due galletti vivi e li fa roteare più volte intorno alla sua persona, sempre più lentamente, scuotendoli ad ogni giro verso le membra del capretto, appositamente raccolte da parte. L’uomo continua a scuoiare. La paziente rimane seduta e canta, con le mani sulle ginocchia, le palpebre rivolte verso l’alto. Senabou scuote più volte il panno, con forza, la ricopre, le toglie il "rab" dal capo e da ogni altra parte del corpo e lo scarica su certe parti del capretto.

 

 

 

 

 

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Le donne Makua hanno un fascino arcano, con segni e suggestioni che si perdono nella notte dei tempi, non scevro da un pizzico di civetteria, tracciano arabeschi e disegni sul proprio volto con il "musiro". L’impasto biancastro, ottenuto sfregando i rami dello ximbuti (olax distiflora) con l’aggiunta di acqua, viene utilizzato con la duplice funzione di crema facciale e maschera di bellezza. Le donne che ne fanno uso solo solite pensare che sia anche un ottimo repellente per gli insetti e, talvolta, ne consigliano l’impiego anche nella cura della febbre, del mal di gola ed altri mali minori. Sovente in questi casi il musiro viene mescolato con altre sostanze suggerite dalla “medicina tradizionale” e tende ad assumere un colore giallastro. Da sempre l’uso del "musiro" ha altri significati, anche se oggi se ne è perso il ricordo.

 

 

 

 

 

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Appena la donna Achewa si accorge che è incinta avvisa il marito e i suoi familiari, oppure direttamente sua madre. E'importante che i parenti siano avvisati perché tutti gli sposati della parentela dovranno astenersi dalle relazioni coniugali fino alla nascita del figlio.
Per la prima maternità si prevede una speciale cerimonia per la moglie, sempre condotta dalle "maestre" che hanno ancora un sacco di raccomandazioni da farle: "Non dormire sulla schiena o sulla pancia ma sempre sul fianco, non toccare i bambini degli altri, non mangiare le uova altrimenti tuo figlio nascerà calvo, nell'ultimo mese non bere birra, non presentarti alla presenza del capo, non mangiare la carne di animali deformi perché tuo figlio potrebbe nascere con le loro sembianze, non uccidere i serpenti, non guardare una donna che sta allattando, non deridere gli zoppi, non salutare i visitatori quando se ne vanno, non accettare nessun complimento o augurio per la prossima maternità e fai finta di non essere incinta, "dai da mangiare" al bambino che cresce in te compiendo l'atto coniugale giacendo sul fianco una volta al giorno con tuo marito fino al settimo mese di gravidanza, se però ti accorgi che nel frattempo tuo marito ha relazioni adulterine non lasciarlo avvicinare a te altrimenti tuo figlio nascerà morto..."
Quando poi arriva il momento del parto, di solito la donna deve trovarsi nella capanna della madre a cui nessun uomo, adulto o bambino, deve avvicinarsi durante l'evento. In compenso tra donne anziane e "maestre" il piccolo spazio è sempre pieno di gente. A capo di tutte c'è la levatrice del villaggio, in genere una praticona che non si cura dell'igiene e che spesso riempie di "medicine" inutili se non addirittura dannose il corpo della gestante specie se il parto si rivela laborioso.
La soglia del dolore della donna africana deve essere altissimo perché pur in mezzo a sofferenze atroci non si lamenta e non grida: stesa su una stuoia e con la testa appoggiata alle ginocchia della madre che la sorregge da dietro, lei soffre in silenzio per mettere al mondo una nuova vita. Se interviene qualche complicazione durante il travaglio, per esempio per la posizione del bambino, allora per lei sono dolori: oltre a non far niente per aiutarla si arriva subito alla conclusione che lei o il marito hanno compiuto adulterio durante il periodo della gravidanza. Prima si corre dal marito e lo si sottopone a uno stretto interrogatorio. Se lui giura e spergiura di essersi comportato bene, è la volta della donna: le si avvicinano a turno per dirle di confessare il nome dell'amante, e se non parla viene pure malmenata fino a che lei dice i primi nomi che le vengono in mente, al che, se sopravvive, seguirà un caso giudiziario.
Se una donna muore durante la gravidanza o durante il parto, il marito è considerato colpevole e deve pagare una forte somma per sdebitarsi. Il cadavere della donna, anticamente, era esposto su una piattaforma in cima a un albero. Se il bambino sopravviveva alla morte della madre era considerato uno stregone e sepolto vivo, ed anche oggi si trova difficoltà a trovare una donna che lo allatti: è uno dei pochi casi in cui il gruppo familiare non si sente responsabile per quella creaturina considerata "malefica".
Per tutti gli altri orfani non c'è problema, tanto che in Africa non c'è mai stato bisogno di orfanotrofi. Se invece il parto e tutto il resto va bene, c'è grande gioia nella capanna e, per conseguenza, nel villaggio. Ma i riti segreti non sono ancora finiti e il marito non è ammesso nella capanna perché il bambino è ancora "freddo": lo si lava, gli si fa bere la "medicina" e gli si mette attorno alla vita e al collo una serie di amuleti per preservarlo dagli influssi maligni degli spiriti. Segretamente viene seppellita la placenta, il cordone ombelicale e i primi capelli del bambino (affinché gli stregoni non li usino per fare le loro "medicine di morte").
Si passa poi a dare un nome al bambino e lo si presenta alla famiglia e al padre, il quale lo prenderà in braccio, ma solo dopo aver ingoiato una "medicina" che lo difenderà da ogni conseguenza funesta. Per un mese e mezzo il bambino non è ancora considerato "persona", e se morisse sarebbe sepolto dalle sole donne. Arriva il giorno della purificazione della donna e dell'introduzione del bambino nella famiglia: una cerimonia comune a tutte le tribù del Malawi. Si inizia con un rito della fertilità.
La madre prende suo figlio e se lo stringe al seno stando attenta che ci sia contatto pelle contro pelle, si stende sulla stuoia giacendo su un fianco e ha con il marito, o chi per lui se questi è assente, un rapporto coniugale interrotto. Poi, se il figlio è un maschio, il padre lo prende in braccio e velocemente spicca un salto sul fuoco attraversandolo e poi riconsegna il bambino alla madre, se invece è una femmina, sta alla madre passare sul fuoco con la figlia in braccio e poi consegnarla al marito. Infine la donna usa lo sperma per ungere il suo seno e il corpo del figlio nonché il laccio che d'ora in avanti il piccolo porterà intorno alla vita. Seguono due atti coniugali fatti a dovere, e si ritorna nella normalità. Il giorno dopo è festa per tutti,e finalmente il bambino, a cui sono stati tolti gli amuleti intorno al collo, ai polsi e alle caviglie, è considerato della famiglia, e tutti lo possono toccare. Rimangono le ultime raccomandazioni da fare alla giovane coppia: per sei mesi astinenza dai rapporti coniugali, nel frattempo il marito non deve andare con altre donne altrimenti il figlio si ammalerà o morirà.


Giuseppe Stranieri, 2009

 

 

 

 

 

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I vodu sono entità spirituali estremamente attive, dotate di una natura ambivalente e multiforme. I vodu sono potenze astratte in grado di manifestare la loro energia ovunque, legate alle forze cosmiche, a un luogo specifico, a un elemento vegetale, a un uomo nato in circostanze o con caratteristiche fuori dal comune o anche a un particolare oggetto. Essi “non sono la realtà materiale in quanto tale, ma piuttosto la forza o la potenza che si manifesta in essa e per essa. Il vodu non è ciò che si vede o ciò che appare, ma essenzialmente ciò che non si vede e ciò che non appare” (Gilli). Ciascun vodu ha bisogno di un supporto su cui materializzarsi, ed è con la mediazione di questo oggetto, magico e sacro al tempo stesso, che l’uomo entra in contatto con la potenza di queste entità. Secondo alcune interpretazioni i vodu sono dei mediatori tra Mawu e gli uomini.
(…)
I vodu sono garanti dell’ordine sociale, morale e dell’equilibrio individuale di ciascun individuo, nonché della continuità dell’ordine cosmico e della tradizione. Il rapporto tra gli uomini e le divinità è incessante perché la carica di energia da esse rappresentata deve essere continuamente regolata e manipolata dagli uomini attraverso i rituali.
(…)
I vodu fanno parte di un mondo che riconosce il disordine e la contraddizione come elementi intrinsechi dell’esistenza e con i quali l’uomo deve costantemente confrontarsi; essi stessi sono disordine e al contempo fissano le leggi, mutevoli ma rigorose, che consentono di sopravvivere e danno all’uomo gli strumenti con cui districarsi in una esistenza per nulla semplificata. Il concetto di vodu nasconde al suo interno una complessità inspiegabile, una idea di mistero e di inconoscibile che rimane sottesa a ogni realtà.


Alessandra Brivio, 2004

 

 

 

 

 

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Verso i 30 anni, il giovane Turkana può sposarsi e così raggiunge un secondo grado di maturità. Ma è un processo lungo e complesso. Iniziato il corteggiamento e ottenuto il consenso della ragazza, in genere ancora adolescente, il giovane deve ottenere l’approvazione del padre. Se esso è positivo, il genitore si reca con gli anziani alla casa della famiglia della sposa e avvia il contratto matrimoniale.
È questo il punto cruciale, dove la "società del bestiame" si rivela provvidenziale. Il prezzo della sposa, infatti, può raggiungere i 40-50 capi di bovini e cammelli, 100-150 di pecore e capre, un discreto numero di asini e beni di uso immediato (coperte, tè, zucchero, tabacco). Domanda e offerta subiscono sconti durante la contrattazione, ma la somma rimane sempre alta, e non è scontato che il padre sia disposto a sborsarla, specie se vuole procurarsi un’altra moglie: da qui la necessità di rivolgersi a zii, affini e amici.
Raggiunto l’accordo tra le due famiglie sul prezzo da sborsare, lo sposo chiama alcuni amici e rapisce la ragazza. La sposa è consenziente, naturalmente, ma il rapimento deve avvenire col maggiore baccano possibile: la ragazza grida e si divincola per mostrare l’attaccamento ai genitori; i rapitori devono fare apparire che si tratta di un bottino di razzia, tanto per non smentire la propria fama. A colpo fatto, gli anziani benedicono gli sposi, che cominciano a convivere. Riprendono le trattative tra le due famiglie per la consegna del bestiame, che generalmente viene fatta a rate. La prima deve essere la più consistente, perché i parenti della sposa acconsentano alla cerimonia definitiva: l’uccisione del bue. Con questa cerimonia viene sancita la legittimità del matrimonio a tutti gli effetti, anche se il pagamento delle altre rate durerà molti anni o tutta la vita.

 

 

 

 

 

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L’"hogon", il grande capo, è il garante dell’ordine naturale e di quello sociale del mondo. La sua autorità politica può estendersi su tutta la comunità dogon, come quella dell’"hogon" di Aru o su comunità più piccole che possono corrispondere ad un quartiere, un villaggio o un gruppo di villaggi. L’"hogon" è in contatto diretto con l’entità ctonia che incarna il principio fecondante della terra madre, il "lebe".
La scelta dell’"hogon" segue il principio di anzianità, alla morte di uno subentra il più anziano del clan che a conclusione della cerimonia di investitura è considerato un essere sacro. In virtù della sua purezza, che va preservata da ogni possibile contaminazione che potrebbe influire con gli elementi atmosferici, vive recluso ai margini della società. I suoi pasti sono preparati dalla moglie o da ragazze impuberi, ed in sua presenza o in quella del suo bastone, ogni litigio deve cessare. Giudice e “creatore di pace”, la sua casa è uno spazio di asilo per i fuggitivi che diventando suoi “schiavi” non sono più perseguibili.
Al tempo stesso è l’unico ad avere il potere di espellere dal suo territorio gli individui come stregoni o assassini che turbano l’ordine sociale.
Responsabile del culto di "lebe", il grande serpente, l’antenato mitico, l’"hogon" ha il potere di agire sulla natura e sui fenomeni naturali, favorendo la pioggia e la crescita dei cereali. E’ opinione popolare che l’"hogon" non tocchi mai l’acqua e che ogni notte il "lebe" gli renda visita leccandolo e con la sua saliva lo purifica e rigenera, così come strisciando tra i campi coltivati purifica e rigenera il terreno garantendo la fertilità della terra e la rinascita del miglio.


Lelia Pisani

 

 

 

 

 

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Quella degli El molo è essenzialmente una vita di pescatori: sono abilissimi nell'uso di arpioni, lenze e reti o nasse, quanto coraggiosi nello sfidare le onde del lago, a volte gigantesche, con una zattera composta da due tronchi di palma dum, legati insieme da corde vegetali. L'arpione è la loro unica arma tipica: è fatto di un pezzo di ferro, a cui è fissata una corda vegetale, che permette di recuperare l’arnese e tirare la preda verso la zattera. Il lungo manico è ricavato dalla radice di acacia, raccolta in luoghi esenti da tabù. Naturalmente la dieta degli el molo è basata essenzialmente sul consumo di pesce, soprattutto pesce persico e tilapia. Coccodrilli, tartarughe e ippopotami procurano a volte un apprezzatissimo cambio nel menù.
Il dattero di palma e bacche di sokotei costituiscono il secondo nutrimento, specie per i giovani. Marginale è il consumo di latte, fornito dalla modesta quantità di bestiame, allevato per scambi matrimoniali. La carne d’ippopotamo è considerata nutrimento di prima classe e, quando ne sentono il bisogno, gli el molo organizzano tutti insieme battute di caccia in grande stile. È sempre un’impresa pericolosa, rivestita di senso mitico: l’ippopotamo è considerato quasi una divinità, un dio che dona la sua stessa vita per la buona salute del "popolo del lago". L’ippopotamo è al centro di una speciale cerimonia, detta "ngwere", celebrata ogni due o tre anni a Moite.
In tale festa vengono ricordati gli antenati con danze e canti, accompagnati dallo sbattere di due bastoncini. Il capo gruppo spiega le parole dei canti, dato che pochi ormai conoscono la lingua. Quando viene aperta la caccia al pachiderma, i giovanotti vengono frustati dai vecchi, per stimolarli alla ricerca dell'animale. Una volta localizzato, il giovane prescelto deve lanciarglisi contro con coraggio, se non vuole buscarsi altre frustate. L'uccisore dell'ippopotamo diventa una persona tabù: per tutta la durata della cerimonia non potrà cibarsi della carne della vittima; in compenso è acclamato come eroe della festa e avrà diritto a fregiarsi di un amuleto fatto di osso dell'animale, appeso al lobo dell'orecchio.

 

 

 

 

 

Togo

 

 

 

 

 

Mali

 

 

 

 

 

Mali

 

 

 

 

 

Kenya

 

 

 

 

 

Namibia

 

 

 

 

 

Kenya


 

 


Ci sono due mal d'Africa.
Il nostro, che è come un sogno. E il loro, che è come un incubo.
Il mal d'Africa bianco è dolce come la vita.
Quello nero è amaro come la morte.
Per noi il mal d'Africa è un bellissimo ricordo.
Per loro, è un pessimo futuro.
Il vero mal d'Africa non viene a chi parte.
Rimane a chi resta.
Prima o poi il mal d'Africa a noi passa. A loro no.
Non c'è da stupirsi se dall'Africa ci portiamo via il mal d'Africa,
dal momento che abbiamo sempre portato via tutto.
Diamanti e avorio, oro giallo e oro nero,
gazzelle e leoni, uomini e donne.
Noi lo chiamiamo mal d'Africa.
Loro dovrebbero chiamarlo mal d'Occidente.
Prima che i bianchi mettessero piede nel continente nero
il mal d'Africa non esisteva.
Lo capisce anche un bambino. Soprattutto se africano.

 

Oliviero Toscani

 

 

 

 

 

Kenya

 

 

 

 

 

Mozambico

 

 

 

 

 

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Nei primi 15 anni il Samburu è un "nkerai"(bambino) o "layeni"(ragazzo-pastorello). Ma con l’iniziazione entra nella maturità. L’iniziato, dopo essere stato rasato e fornito di sandali nuovi, coperto da una pelle di pecora, spalmata dalla madre con grasso e polvere di carbone, viene circonciso davanti alla porta della propria abitazione, con l’assistenza di un padrino. In genere il circoncisore non è un Samburu. Il circonciso non deve mostrare paura né lamentarsi per il dolore: sarebbe una vergogna per tutta la famiglia.
Dopo la cerimonia il giovane riceve regali, cibo e, dal padrino, arco e frecce. Quindi rimarrà a casa per circa un mese nell’osservanza di restrizioni rituali, quindi comincia ad andare a caccia di uccelli: un’occupazione di tre mesi chiamata "laibartani". Poi raggiunge gli armenti lontani per dedicarsi al pascolo e alla difesa del bestiame. Per una decina d’anni intrecciano atti di coraggio a una vita di vanitosi elegantoni.
Ma per diventare un "moran", il giovane deve passare attraverso tre stadi, con relative cerimonie dette "imugit": sono riti di passaggio obbligatori e punti fermi dell’educazione impartita dagli anziani. Inizia con lo "imugit" delle frecce (o uccelli), durante il quale viene ucciso un bue: di fronte a sua madre, il giovane giura di non mangiare più carne in presenza di donne sposate. Solo da questo momento diventa "moran" e può dipingersi il corpo con l'ocra rossa.
Segue lo "imugit" del nome, quando il giovane ha circa 20 anni. Anche questo rito è accompagnato dal sacrificio di un bue, ucciso per soffocamento: esso non deve cadere a terra, ma tenuto sollevato dai giovani per i quali la cerimonia è celebrata. Il bue dovrà essere mangiato interamente e le ossa bruciate. Lo "imugit" del toro, in cui viene ucciso un altro bue, chiude praticamente il periodo del «moranato»: il giovane è pronto per il matrimonio e passa nella seconda classe di età.

 

 

 

 

 

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Togo


 


Se andate in Africa fatevi portare in una scuola primaria o in un asilo:

l’esperienza è straordinaria, inimmaginabile,

di una profonda intensità emotiva difficilmente paragonabile.
Sarete avvolti immediatamente da decine di bimbi incontenibili, urlanti, ridenti,

e vedrete tutta questa gioiosa esultanza contrastare

con l’assoluta povertà di quanto intorno a loro.

 

 

 

 

 

Kenya

 

 

 

 

 

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La pastorizia tra i Rendille è attività comune a uomini e donne, dall'infanzia al matrimonio; in seguito le mansioni vengono distinte: l'uomo l'abbandona gradualmente per avvicinarsi alla vita politica e la donna si dedica ai lavori domestici, tra cui l'approvvigionamento d'acqua, legna da ardere e periodica costruzione della casa.
Trenta abitazioni in media formano un villaggio, che non ha una collocazione territoriale stabile, ma, secondo esigenze igieniche e di pascolo, viene smontato e ricomposto altrove, rispettando la consuetudine: la casa del capo al centro e tutte le altre intorno, in ordine d'importanza decrescente verso la periferia. Una siepe di rami spinosi circonda sempre l'abitato, entro il quale sono disposti i recinti per il bestiame e si aprono alcuni spazi che la gente utilizza, di tanto in tanto, per eseguire danze o canti corali.
Sotto un albero frondoso, accanto al villaggio, si riunisce quotidianamente il consiglio di anziani, per esaminare i problemi inerenti alla vita pubblica ed esercitare funzioni di corte giudiziale, quando occorre.
Ogni famiglia tiene attorno all’accampamento un piccolo numero di cammelle, dalle quali le donne mungono il latte per il fabbisogno quotidiano. Le mandrie, invece, pascolano lontano: ragazzi e guerrieri custodiscono cammelli e bovini, ragazze e donne non sposate capre e pecore. I Rendille vivono quasi in simbiosi con il proprio bestiame, legati da vincoli sacrali; ciò si manifesta soprattutto durante le lunghe abbeverate: i pastori, soprattutto le ragazze, chiamano le bestie per nome, parlano loro come si fa tra amici; ne cantano le lodi e ne esaltano le qualità, quasi fossero membri di famiglia.
Diversamente da molte società africane, la donna rendille gode di grande rispetto e considerazione: la casa è territorio femminile e il marito non ci mette il becco. Se un uomo vuole parlare privatamente con altri uomini, non può mandare via la moglie: è lui che deve andarsene in un posto dove non ci sono altre case, oppure mandare gentilmente la consorte a fare una commissione. Se un matrimonio si rompe e non ci sono figli, la casa rimane alla moglie per sempre, anche se la rottura avviene durante le trattative per le nozze.

 

 

 

 

 

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In Cameroun, Amélie adesso ha 24 anni, non va più con le compagne al fiume: "Ne avevo tredici quando mia madre si è accorta che cominciavano a ingrossarsi i seni. Mi ha detto: questo non va bene, adesso gli uomini cominceranno a guardarti perché sanno che sei una donna. Allora faremo come ha fatto mia madre con me, come tutte abbiamo imparato a fare". Ogni mattina e ogni sera con una pietra arroventa al fuoco ha cominciato a passare e ripassare il suo petto, indifferente alle sue urla di dolore, "per cancellare il nocciolo all’interno e farlo scomparire". E’andata avanti così per cinque terribili mesi, prima che il petto diventasse piatto e vuoto. La madre era felice. Soltanto dopo tre anni il seno è ricomparso.
Per nascondere la femminilità precoce delle adolescenti tutto va bene: pestelli dei mortai, pietre, spatole, la buccia delle banane, la scorza di un frutto della foresta, tutto arroventato con cura.Una tradizione vuole che sia il fratello più piccolo o uno dei cugini della vittima a usarli, affinché il trattamento sia più efficace. Alle ragazze, soprattutto nel Nord dove molti sono i musulmani, viene imposta anche una cintura per schiacciare il petto; una striscia di gomma spesso ricavata dalla camera d’aria di un vecchio pneumatico che le avvolge e le stringe.
Gli uomini i mariti i fratelli sanno ma non dicono nulla: sono cose di donne, spetta alle madri occuparsi delle figlie.

 

 

 

 

 

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L'Africa si caratterizza per l'allegria contagiante, l'anima vibrante, il canto, la danza e il ritmo coinvolgente, il carattere caldo e festoso.
C'è, senza dubbio, una grande differenza di atteggiamenti tra gli africani e gli altri popoli di fronte alla sofferenza, la miseria e l'insicurezza della vita. Migliaia di famiglie e di bambini africani vivono ogni giorno in situazione di completa incertezza riguardo al domani. Trascorrono il giorno con la fame, senza sapere dove trascorrere la notte e se mangeranno il giorno seguente, tuttavia, continuano a danzare, accompagnati dai canti,dal ritmo dei tamburi e dal battito delle mani. Visitando le famiglie e le popolazioni africane, fortemente flagellate dalla sofferenza nei quartieri poveri delle città, nei campi dei rifugiati o nei luoghi dove si ammassano gli sfollati, si rimane profondamente sorpresi per la loro capacità di soffrire con serenità e sempre con il volto sorridente.
Per l'africano la vita è una festa. Ringrazia la divinità per il poco e trova sempre dei motivi per celebrare, con allegria, ogni istante che passa come un dono. A volte, mi sorprendo a pensare alla famiglie ricche dell'Occidente, che, pur sedendo attorno ad una mensa stracolma di ogni ben di Dio, sono senza allegria, con i volti tristi e sempre pronte a lamentarsi, mentre le famiglie africane con molti figli, con un po' di cibo e di bevande, fanno festa tutto il giorno, riempiendo l'ambiente di allegria.


Amaral Bernardo Ammaral, 2008

 

 

 

 

 

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Camerun

 

 

 

 

 

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È molto significativa la relazione di intimità che unisce il figlio alla madre non solamente durante la gestazione e l'allattamento, ma durante tutta la vita. Il bambino africano passa la maggior parte delle ore del giorno sul dorso della madre. La madre lavora, suda con la sua creatura sul dorso.
Questo contatto diretto, da corpo a corpo, permette una profonda ed intensa osmosi termica, idrica ed emozionale, molto importante per la sicurezza e l'equilibrio psichico ed emozionale del bambino.

Amaral Bernardo Ammaral, 2008

 

 

 

 

 

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Per passare nella società delle donne adulte, le ragazze Tsongha devono sottoporsi a un rito iniziatico, chiamato "khomba", nel corso del quale viene utilizzato un agente allucinogeno, il "mondzo", identificato con la pianta psicoattiva Datura fastuosa L. Il "mondzo" è chiamato anche "muri wa ku bonisa", che significa “ciò che apre gli occhi”. La droga è costituita dalla radice della pianta, polverizzata e utilizzata per preparare un infuso denso,che viene bevuto dalle novizie da larghe conchiglie utilizzate come ciotole.
Il rito iniziatico "khomba", che è costituito da una serie di riti di fertilità, è istituito ogni anno subito dopo il periodo della raccolta dei prodotti agricoli, verso la fine di maggio. Nella fase finale di questi riti l’assorbimento del "mondzo" è accompagnato da danze frenetiche e mimiche al suono di tamburi battuti con ritmi molto veloci. Le novizie vengono denudate, esposte al cocente sole, immerse nell’acqua, fustigate lievemente con una verga ricavata dal fusto della pianta di datura e sono sottoposte a una incessante azione pedagogica da parte delle tutrici che regolano lo svolgimento dei riti. Alle novizie vengono insegnati i precetti della vita adulta, i comportamenti che devono tenere nei confronti del futuro marito, il modo in cui devono allevare i figli, i tabù relativi ai periodi mestruali, all’accoppiamento, al parto, ecc.
Una caratteristica peculiare del rito "khomba" riguarda l’induzione di fenomeni di sinestesia, che associano l’ascolto dei battiti dei tamburi con la visione di elementi geometrici di colorazione bluastra ("mavalavala"). Nel caso non si presentino queste visioni, alla novizia viene somministrata un’ulteriore dose di datura. Durante il rito le novizie indossano una sottana di colore blu, dipingono di blu il loro viso e portano delle bandierine di colore blu. Il colore blu è associato agli spiriti degli antenati e in queste associazioni simboliche rientra anche un piccolo serpentello innocuo chiamato "xihundze" (identificato come Dendrophis subcarinatus), che è solito abitare nei tetti di paglia della capanne dei villaggi tsongha. Questo serpente è rispettato e venerato come incarnazione degli spiriti antenati. Durante il rito "khomba", mediante lo stato visionario indotto dalla datura, le novizie contattano gli spiriti (odono la loro voce), in particolare quelli che regolano la fertilità, e tale contatto è simboleggiato dalla visione dei serpentelli blu.


Giorgio Samorini, 2011

 

 

 

 

 

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La società tradizionale africana è fortemente segnata dal senso dell'incontro. La vita è un incontro. Vivere è incontrare continuamente nuove terre, nuove realtà, nuove persone e nuove esperienze. Ciò spiega la spiccata tendenza dell'africano ad inventare occasioni di incontro, di celebrazione e di festa. Anche la ragione dell'irresistibile attrazione degli africani verso il mercato, non tanto come un luogo di compravendita, ma soprattutto come luogo di incontro per rivedere gli amici, rinnovare i legami e fare nuove esperienze.
Fin dalla nascita il bambino africano viene introdotto, attraverso cerimonie e riti di presentazione, in un processo graduale di incontri con i differenti livelli della esistenza, così da armonizzarsi completamente con tutte le forze che costituiscono l'unità e la partecipazione vitale di tutto il cosmo.
Dopo il parto la madre e il bambino non possono uscire dal luogo riservato (protetto), prima di circa sette giorni, fino a che non si svolgano le cerimonie e i riti di presentazione del nuovo essere agli elementi fondamentali della natura: terra, acqua, aria (nei suoi quattro venti o punti cardinali) e il fuoco.
Con queste cerimonie il bambino viene integrato ed armonizzato con le principali forze cosmiche, affinché non venga escluso come elemento estraneo al sistema. Seguono, poi, i riti di presentazione e di armonizzazione con le persone, il clan e la società. Con questi riti si dà al bambino la nascita sociale, etnica e culturale. Durante questo tempo il neonato viene iniziato, in modo rituale e simbolico, alle tradizioni e alle attività che caratterizzano il clan: caccia, pesca, agricoltura, pastorizia, guerra, ecc. Nei clan che si dedicano alla caccia, si mette nella manina del bambino di sesso maschile un piccolo arco simbolico e vengono pronunciati voti, affinché cresca e diventi un uomo forte, capace di mantenere la sua famiglia con la sua attività di cacciatore.
Nel giorno in cui il bambino esce con sua madre viene organizzato un grande incontro di festa con la presenza di tutta la gente: i membri della famiglia, i parenti, gli amici, i vicini, ecc. È il primo incontro del neonato con la società allargata oltre le frontiere del proprio clan. In questo giorno viene dato ufficialmente al bambino il nome di famiglia previamente designato attraverso l'oracolo degli antenati o ispirato dal sogno dell'anziano del clan.
La nascita religiosa avviene sotto l'albero degli antenati, con la presentazione rituale del neonato ai suoi antenati protettori. Il suo nome viene pronunciato per la prima volta pubblicamente ed acclamato da tutta l'assemblea riunita. Ora che il neonato è una persona con un nome proprio dentro il clan, deve essere inculturato attraverso un'educazione che gli permetta di assumere, identificarsi ed armonizzarsi completamente con il suo clan, assumendo le norme e i valori culturali dei suoi antenati. Userà questo nome fino al termine dei riti di iniziazione che avverrà nella gioventù, quando l'iniziato potrà scegliere per sé il nome da adulto.
L'incontro con l'altro si estende e matura durante la vita, attraverso una densa rete di relazioni di amicizia e di alleanze, dentro e fuori del clan, per raggiungere la sua massima espressione nel matrimonio e nella trasmissione della vita con la generazione di figli. Questi incontri continuano con patti ed alleanze che permettono all'individuo di allargare al massimo la rete dei suoi incontri, influenzando così gli altri clan. Per questo l'africano anziano cerca di avere molti figli e figlie per poterli sposare in vari clan ed ampliare in tal modo il suo prestigio e l'influenza sociale.
L'incontro con la morte è un altro momento solenne nella vita dell'africano. Tale incontro viene preparato per tempo durante la vita della persona ed è prolungato per molto tempo dopo la morte. L'incontro con la morte è in Africa un incontro che, a sua volta, genera e motiva altri incontri tra i membri della famiglia, tra questi e gli antenati e il cosmo con cerimonie e riti finalizzati a restaurare l'armonia e la partecipazione vitale universale lacerata dalla morte. L'incontro con la morte apre la porta per l'incontro definitivo con gli spiriti degli antenati. Ciò costituisce una grande aspirazione per l'africano: attingere la piena maturità della persona umana, diventare uno spirito protettore ed entrare nella comunità di coloro che già hanno oltrepassato la barriera della morte e che ora si dedicano a garantire la vita, la felicità e l'armonia dei suoi discendenti. Il culto degli antenati (parentais) è un'occasione privilegiata per il rincontro della grande famiglia del clan, i vivi e i morti, per celebrare la sua unità come famiglia, per ricordare la sua origine e il suo passato comune, per rinnovare le sue speranze nel futuro.

 

Amaral Bernardo Ammaral, 2008

 

 

 

 

 

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La società tradizionale africana e la sua cultura sono strutturate in funzione dell'oralità. Il pensiero, l'azione e la relazione sono organizzate in armonia con i principi dettati dalla tradizione ereditata dagli antenati e trasmessa oralmente di generazione in generazione. La parola parlata, proclamata, cantata o, semplicemente, gesticolata svolge un ruolo di estrema importanza. È la parola che articola, spiega e chiarisce i meccanismi che reggono i vari aspetti della vita della comunità: religioso-sacro, potere politico e diritto legislativo. È ancora la parola primordiale pronunciata dal patriarca fondatore del clan che indica la direzione sicura, in caso di dubbio; che stabilisce la comunione e ristabilisce l'armonia in caso di conflitti e contrasti.
La parola è il ponte di unità e continuità tra il passato, il presente e il futuro. La parola rituale ricrea il cosmo e garantisce la continuità dell'unità vitale universale. Poiché l'oralità è un tratto strutturale importante della cultura tradizionale, essenzialmente fondata sulla parola, è ovvio che la capacità dell'ascolto sia la virtù più apprezzata nella società tradizionale africana. Una caratteristica fondamentale di questa cultura è l'esigenza della fedeltà al contenuto del messaggio (tradizione), ereditato dagli antenati e trasmesso alle generazioni successive, senza perdere la sua forza unificatrice ed illuminante per il clan. Per capire quanto sia importante per gli africani l'ascolto, basta guardare lo spazio e il tempo che gli viene riservato nella vita, nel linguaggio e nei rapporti tra le persone, come nelle cerimonie e nei riti.
I giovani devono sviluppare la capacità di ascoltare attentamente e silenziosamente, così da non perdere gli stessi dettagli di ciò che è stato trasmesso loro dagli anziani. L'ascoltare africano coinvolge tutta la persona: non si tratta di ascoltare solo con gli orecchi, ma con il cuore, con l'intelletto e con tutto il proprio essere. Ascoltare così acquista un significato molto profondo: è interiorizzare, assimilare e fare attenzione alle esperienze legate alla memoria collettiva del clan, per poterle trasmetterle come si partecipasse direttamente. Ascoltare è immergersi nell'esperienza fondante di ciò che sta all'origine della tradizione.
Infatti, quando un africano narra gli avvenimenti della storia dei suoi antenati, dice: "noi", come se fosse stato presente e fosse protagonista e testimone diretto di ciò che sta narrando. Altra caratteristica importante della cultura tradizionale è l'ascolto attento, affettivo, paziente e rispettoso. L'africano ha tutto il tempo per ascoltare il suo interlocutore. Non troncherà mai la parola che sta per essere pronunciata, perché questa parola ha la forza, la vita e la personalità di chi la pronuncia. L'ascolto-presenza solidale, molte volte silenziosa ma intensa, è un'altra caratteristica molto comune negli africani. Accanto all'ammalato, alla persona angosciata, soprattutto a causa della morte di qualcuno, gli amici rimangono ore e ore, perfino giorni, non per pronunciare parole, ma semplicemente per essere presenti. Tale presenza accompagnata da gesti semplici, un'attenzione, un sorriso, uno sguardo di amicizia, produce frutti assai benefici nel cuore e nell'animo dell'altro.


Amaral Bernardo Ammarala, 2008

 

 

 

 

 

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Abbiamo perso l’abitudine al contatto con la terra, anzi, alla base della nostra idea di civiltà sembra esserci l’esigenza di sollevarsi, distanziarsi dalla terra, frapporre filtri all’aderenza alla terra. Eppure il nostro corpo percepisce questo distacco come un danno. L’impossibilità di scaricare l’energia che il corpo stesso crea ci estranea dalla terra.
La “civiltà”, regole igieniche, convenzioni sociali, paure fisiche,ha stabilito una serie di veti a toccare la terra. Così noi abbiamo allontanato il corpo da questo primigenio bisogno terragno, abbiamo perso il piacere di toglierci le scarpe,di appoggiare, far combaciare la pianta nuda del piede alla terra, ruvida, polverosa, fangosa… materialmente concreta.
In Africa il bambino vede la terra appena nasce, in casa, nella capanna, nell’ospedale, all’aperto. La tradizione vuole che il piccolo appena venuto al mondo tocchi la terra, riceva subito la benedizione della grande Madre, e che la madre per riposare si adagi sulla terra.


Enrico Bossan, 2003

 

 

 

 

 

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Mentre sto per fare questo viaggio di ritorno,
molto anticipato e non voluto da me, verso il cielo,
ti giuro che non dimenticherò.
Non dimenticherò che i denti che ho cresciuto per masticare,
non hanno avuto niente da mangiare,
per giorni, settimane, mesi.
Non dimenticherò che le uniche cose
che il mondo mi ha potuto assicurare nella vita,
sono la fame, la sete, le guerre e le epidemie.
Non dimenticherò che, nonostante la terra sia piena di grattacieli
ed altri edifici di ogni genere,
gli unici posti che ho trovato per dormire sono le grotte e sotto i ponti.
Non dimenticherò di non essere stato mai vaccinato,
di non aver mai avuto i medicinali per curarmi,
di essere stato convinto da te,
che il diritto alla vita dipende dalla provenienza geografica, dalla razza e dalla religione.
Non dimenticherò che hai, direttamente o indirettamente,
partecipato a tutti i mali che hanno portato
allo spegnimento precoce della mia miserabile vita.
E tu che hai fatto di tutto per cercare di salvare la mia vita,
senza neanche conoscermi, devi sapere che, anche se non ce l'ho fatta,
molti altri bambini che stanno lottando tra la vita e la morte potrebbero farcela,
grazie a te. E io non dimenticherò.

 

Blessing Sunday Osuchukwu