Contro lo smartworking.
Dott. Savino Balzano, Lei è autore del libro “Contro lo smart working” edito da Laterza: in che modo il lavoro ha da sempre rappresentato un presidio per la democrazia?
Che il lavoro costituisca un presidio per la partecipazione democratica è la nostra Costituzione a sancirlo. Spesso l’articolo 1 è stato citato in maniera impropria: molti ricorrono ad esso al fine di rivendicare per tutti il diritto al lavoro. Questo non è del tutto scorretto, ma certamente in quei casi sarebbe più opportuno ricorrere all’articolo 4 che, appunto, prescrive come “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Sostenere che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” significa infatti sancire un rapporto intimo, indissolubile, proprio tra lavoro e democrazia. Almeno in due modi. Il primo, più intuitivo è questo: se tutti avessero un lavoro, ai sensi del principio di piena occupazione celebrato dal citato articolo 4, ne conseguirebbe che fondare la Repubblica sul lavoro significhi fondarla su qualcosa che appartiene all’intera comunità e, pertanto, renderla pienamente e compiutamente democratica. Il secondo, invece, passa attraverso un preciso modello di lavoro: non è sufficiente infatti riconoscere freddamente ai lavoratori il solo diritto formale alla partecipazione democratica. Lo sapevano bene i Padri della Costituzione quando, all’articolo 3, imprimevano un preciso comando allo Stato, scrivendo come “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La precarietà, del e nel lavoro, certamente è il principale ostacolo alla partecipazione democratica: un lavoratore precario, esposto al rischio della ritorsione arbitraria esercitabile da un datore di lavoro malintenzionato, ritiene disponga di sufficienti presidi di protezione e tutela alla partecipazione democratica nell’azienda e nel Paese? Ritiene che sia davvero libero di esprimere la sua cittadinanza, animato come spesso è dal timore di perdere il proprio lavoro e dunque i mezzi per la sua sussistenza e per quella di chi gli è caro? Lo smart working incide negativamente in questo paradigma perché scompone la comunità del lavoro e indebolisce ancora di più la posizione di partenza delle persone che, isolate e sole, con ogni probabilità saranno naturalmente propense alla resa e al ritiro dal campo della partecipazione democratica.
Quale futuro per il lavoro dipendente?
Guardi, è una domanda difficile. Forse potrebbe aiutarci scomporla e individuare qualche caratteristica propria del lavoro dipendente e provare a riflettere circa lo stato di salute di ognuna. Direi che un paio possono bastare per farsi un’idea. Prima di tutto il lavoro dipendente dovrebbe essere caratterizzato da un aspetto fondante, per così dire, ovverosia quello della totale assenza di rischio di impresa a suo carico. Oggi temo che questo elemento sia abbondantemente venuto meno e per almeno due ragioni: prima fra tutte l’esplosione dei contratti precari, quelli che un tempo venivano definiti atipici e che oggi rappresentano invece la più lugubre delle tipicità, che per loro stessa definizione espongono il lavoratore, costantemente e quotidianamente, al rischio (appunto!) di perdere il lavoro e quindi tutto; in secondo luogo perché ormai nei piani industriali delle grandi aziende, delle grandi multinazionali (che vanno sempre e comunque tenute ben distinte dalla afflitta piccola e media imprenditoria italiana), si pretende che i lavoratori rinuncino a qualcosa, a importanti istituti retributivi conquistati in anni e anni di lotte, affinché si possa rilanciare l’azienda e renderla più competitiva nei mercati globali (spesso questi sacrifici vengono indotti dietro la minaccia dei licenziamenti collettivi). Si richiede quindi ai lavoratori di partecipare direttamente alla funzione del capitale, rischiando proprie risorse come invece dovrebbe fare il solo imprenditore, con l’aggiunta della beffa di non conferire ad essi alcuna quota aziendale. In poche parole: tutti i rischi e nessuno dei profitti.
La seconda grande caratteristica di cui vorrei parlare è quella relativa al tempo: da sempre il lavoro dipendente è pagato in base al tempo impiegato dalla persona e non, come qualcuno vorrebbe, in base ai pezzi lavorati (come avviene per il cottimista). Questa caratteristica del lavoro dipendente è sotto attacco ormai da tantissimo tempo e la retorica cui si ricorre per farlo è sempre la stessa: superare la vetustà di un modello di lavoro rigido, pavido e quasi meschino verso un modello ambizioso e flessibile dove prevalga la logica del merito. Quella del merito è una delle narrazioni più perniciose: non esiste il merito nel mondo del lavoro, quasi mai, e costituisce solo un argomento (questo sì qualunquista) per erodere presidi di diritto generali. Oggi ormai è ampiamente affermata la quota variabile della retribuzione, ancorata a logiche quantitative e di produttività: istituti retributivi universalistici e davvero democratici vengono soppiantati da logiche votate all’arbitrarietà, alla piena discrezionalità, e alla divisione della comunità del lavoro. Su questo specifico punto ci sarebbe tantissimo da dire, ma evidentemente non ne abbiamo la possibilità in questo momento e rimando al libro per un approfondimento.
Quello che però possiamo anticipare è che lo smart working incide fortissimamente su tale ambito: per sua stessa definizione è votato al superamento dell’orario di lavoro, all’ancoraggio della retribuzione ai risultati. Peraltro si presta a distorsioni ormai notissime: ad esempio all’allungamento spropositato, a dispetto del tanto sbandierato intento di conciliare meglio i tempi di vita e lavoro, del tempo dedicato all’attività lavorativa. Proprio per questo si insiste da anni sul tema della disconnessione, in massima parte ad oggi purtroppo relegato al solo ruolo di buon proposito.
Quali insidie per il lavoratore nasconde lo smart working?
È davvero impossibile riassumerle in una risposta però voglio proporvi una suggestione. In molti scrivono di questo tema, del lavoro agile, come se fosse una novità assoluta, dimenticando ad esempio che esso è stato introdotto nel 2017, ma anche e soprattutto che è stato preceduto dal telelavoro che esiste da almeno vent’anni nel nostro Paese. Non solo, ciò che più mi stupisce (per modo di dire…) è che esso venga trattato quasi noi ci trovassimo all’anno zero per il mondo del lavoro: come se quest’ultimo nascesse oggi, come per magia, e non fosse frutto di un lungo processo evolutivo e, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi trent’anni, erosivo. Lo smart working, se inteso come nuovo e generalizzato paradigma del lavoro, calerebbe come una mannaia su un mondo del lavoro precario, fiacco, inaridito e soprattutto scomposto: i legami solidaristici che caratterizzavano la comunità del lavoro del trentennio glorioso non esistono più o, quantomeno, sono decisamente assottigliati. Questo significa che il nuovo modello organizzativo, se foriero dei pericoli che intravedo, potrebbe rappresentare la mazzata finale.
Lo smart working garantisce maggiore tempo libero al lavoratore?
È una leggenda. Il tema del lavoro non retribuito nel nostro Paese è davvero annoso: ci sono molti studi che certificano come, a dispetto dell’inalienabilità del diritto alla retribuzione sancito dall’articolo 36 della nostra Costituzione, molto del lavoro prestato non venga retribuito. Alcuni esempi: molti lavoratori sono costretti a svolgere attività supplementari e straordinarie e queste ultime non vengono registrate o pagate (se rispetti pedissequamente l’orario di lavoro ti fanno notare come a fine turno ti «caschi la penna», quasi fosse assurdo pretendere che il tempo sottratto alla vita privata venga compensato economicamente); molti altri hanno contratti part time fasulli, che di questi ultimi hanno solo lo stipendio, mentre i tempi di lavoro sono full time; etc.
Immaginate cosa potrebbe accadere nel privato di un’abitazione, lontano dagli sguardi solidaristici (si auspica) dei colleghi. Quello che colpisce nel pensiero dei liberisti di oggi è la contraddizione epocale nella quale sono piombati: storicamente impegnati a proteggere la dimensione privata dall’ingerenza del pubblico, l’abbandonano ora alle grinfie della produzione cui si consente di sfondare l’uscio di casa per divorare ogni cosa. Il tempo libero non aumenta, anzi! Se già prima il tema del lavoro gratuito era ampiamente presente nelle dinamiche del mondo del lavoro, col lavoro agile questa tendenza si acuisce enormemente perché il confine tra tempo libero e lavoro diviene gassoso e assai poco definito. Senza contare che si ambisce (lo hanno scritto anche nel Piano Colao) a superare persino il limite massimo di ore lavorabili giornalmente: non è un sospetto il mio, la mia valutazione non è frutto di una diffidenza preconcetta perché questo proposito lo hanno espresso palesemente.
In che modo, con l’eliminazione del luogo di lavoro, rischiano di svanire anche le sue tutele?
I profili sono numerosissimi: sono tanti i diritti connessi alla fisicità del luogo di lavoro. Si pensi al trattamento economico delle missioni, ai presidi di diritto in materia di trasferimento, e questo solo per fare due esempi. Peraltro, in caso di assunzione dello smart working come modalità ordinaria e generalizzata di prestazione lavorativa, è presumibile che le aziende riorganizzeranno tutto il patrimonio immobiliare e anche questo avrà delle conseguenze giuridiche perché molte sedi di lavoro non esisteranno proprio più: che ne sarà dei diritti ad esse connessi? Senza contare la questione delle questioni: la salute e la sicurezza legate al luogo di lavoro.
Lavorare da casa, perché la storia della gente che lavora da bordo piscina o dal cottage in montagna è solo una balla, acuisce le differenze, a dispetto di quanto sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione: tanti italiani non dispongono di case adeguate al lavoro a distanza.
Che ne sarà dei diritti alla salute e alla sicurezza in smart working?
Questo è uno dei grandi temi del mondo del lavoro di oggi: negli ultimi dieci anni abbiamo avuto quasi ventimila morti sul lavoro accertati e in media due persone al giorno muoiono di lavoro in Italia. Il problema non è tanto nelle norme in materia, quanto nella loro stessa esigibilità: esiste un filo rosso, zuppo di sangue, che lega la precarietà ai morti sul lavoro. Un lavoratore precario, magari con figli a carico, non denuncerà mai il datore di lavoro che non rispetti le norme in materia di salute e sicurezza e questo per il timore di perdere quel poco che ha. Lo smart working incide pesantemente in materia di salute e sicurezza: i vincoli per il datore di lavoro sono assai vaghi e decisamente ridotti rispetto a quelli previsti per il telelavoro. Inoltre, incidendo il lavoro agile anche sulle dinamiche collettive e di potere, indurrà i lavoratori ad ulteriore remissività in caso di mancato rispetto delle norme. È un cane che si morde la coda.
Tra i rischi da Lei paventati c’è quello che, dietro l’isolamento generato dallo smart working, si comprometta la possibilità dei lavoratori di essere comunità: con quali conseguenze?
Nei miei scritti cerco di sottolineare sempre un aspetto, che è poi il denominatore del mio approccio allo studio sui diritti dei lavoratori: le riforme in materia di lavoro sono riforme di potere. È giusto continuare a riflettere sui diritti perduti e su quanto ciascuno di noi abbia lasciato per strada, per carità, ma non basta: è determinante soffermarsi lungamente sulle conseguenze che insistono sulla dimensione collettiva, di comunità, di quella che un tempo era definita classe. Il punto è che indebolendo i lavoratori sul piano individuale, con l’aggravante di una disoccupazione (voluta!) che mette i lavoratori in concorrenza tra loro, si inficia la loro capacità di resistenza, lotta, contrasto e rivendicazione. Lo smart working ha un potenziale d’impatto esponenziale e questo è assolutamente intuitivo: se assunto come paradigma generalizzato destrutturerà definitivamente la comunità del lavoro, la distruggerà una volta per tutte. Non possiamo permetterlo.
In che modo lo smart working si traduce in risparmio per le aziende?
Anche a questo ho dedicato un intero capitolo del mio libro. I risparmi sono tantissimi. Primi fra tutti quelli connessi alla gestione degli spazi: pulizie, reti energetiche, comunicazione e chi più ne ha più ne metta. Poi ci sono i servizi messi in alcuni casi a disposizione dei lavoratori, si pensi alle navette per condurre le persone nelle sedi disagiate. Poi il costo del lavoro: in smart working non vengono riconosciuti i c.d. buoni pasto, come pure varie indennità. C’è inoltre tutto il versante della salute e sicurezza, che come visto vede ridursi notevolmente gli obblighi in capo ai datori di lavoro e conseguentemente i costi. C’è poi il costo delle mense aziendali, la riduzione dei costi relativi a missioni e trasferte. Un bel po’ di roba insomma. Va benissimo, ci mancherebbe altro, nessuno vuole che si aggravino le spese in capo alle aziende. Il punto è un altro: questi risparmi vanno socializzati oppure no? Insomma, se (come detto all’inizio) spesso i lavoratori sono chiamati a partecipare economicamente al rilancio delle aziende, perché specularmente non vengono invitati a prendere parte al banchetto dei risparmi? Le grandi multinazionali sono gelose della proprietà del capitale solo laddove c’è da raccoglierne i guadagni: quando giunge il momento di metter mano alla tasca, sono invece leste nel chiamare a raccolta i lavoratori.
Come potete constatare, la questione collettiva è sempre presente: tralasciare le dinamiche politiche e sindacali, quando si tratta di lavoro, rappresenta un errore imperdonabile.
Cosa ci dice invece sull’impatto ambientale, sul tema del traffico automobilistico, sulla possibilità di ripopolare il Sud facendo lavorare i giovani in smart working? Alcuni sottolineano questi effetti positivi.
Io confesso di essere atterrito dalla inconsistenza di un dibattito tarato su questi elementi. Davvero qualcuno pensa di proporre come soluzione al surriscaldamento globale quella di tenere la gente in casa? Di superare così il problema della congestione nella nostra viabilità? Allora chiudiamo per sempre anche teatri, università, scuole e ogni agenzia di socializzazione: prevedo una riduzione drastica delle polveri sottili nell’aria. Davvero vogliamo ripopolare i borghi e il Sud (dal quale sono stato costretto a emigrare in prima persona quando avevo diciott’anni!) svuotando le nostre strade e prosciugando i luoghi di lavoro?
Analisi del genere mi paiono davvero risibili, offensive nella loro pochezza e superficialità: come proporre ad un paziente col braccio rotto di curarsi con una pomata analgesica. Certi problemi si affrontano, nella loro incommensurabile gravità e attualità, con politiche specifiche e con investimenti pubblici. Il resto sono chiacchiere da bar intrise di inconsapevolezza. Abbiamo bisogno di serietà in una fase come questa, in uno snodo tanto delicato per la storia dell’Italia: dobbiamo decidere il senso che vogliamo dare alla nostra cittadinanza, che paese vogliamo essere, quale ruolo continuare a riconoscere ai nostri principi costituzionali.
Intervista a Savino Balzano, 2022.