Il futuro di "Blade runner" è qui (o quasi).
Il 2019 è l'anno di Blade Runner, la pellicola iconica di Ridley Scott del 1982 nella quale il regista immaginava -con molte differenze- il futuro allucinato di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick (originariamente ambientato a San Francisco nel 1992, data troppo "vicina" ai tempi della produzione del film). Ed eccoci qui. A distanza di trentasette anni, quasi nulla di quanto meticolosamente pensato dal cineasta appare datato, anzi: la città in cui si muovono il cacciatore di androidi Rick Deckard e i replicanti quali Pris Stratton o Roy Batty resta uno straordinario incubo retro-futuristico capace di sostenere il test del tempo nonostante molti dei suoi vaticini si siano provati poco corretti.
Le automobili volanti o "spinner" non sono (ancora) diffuse; per strada si vedono schermi pubblicitari animati di varie dimensioni ma non è frequentissimo imbattersi in installazioni colossali simili a quelle della metropoli verticale di Scott, così debitrice del Metropolis di Fritz Lang; non siamo ancora in grado di allontanarci dal pianeta Terra e andare ad abitare su colonie extraterrestri; soprattutto, a quanto ci risulta, non vi sono robot identici in tutto e per tutto agli esseri umani che richiedano un test per stabilirne la natura meccanica. Poco importa perché Blade Runner rimane un'opera densa e soverchiante, talmente satura di dettagli in ogni singolo fotogramma da risultare a oggi un'esperienza cinematografica per molti versi ineguagliata. Ecco tutte le caratteristiche del film sulle quali vale la pena soffermarsi ora che nel 2019 siamo davvero.
La Los Angeles cyberpunk di Blade Runner -ispirata tra l'altro alla rivista Métal Hurlant e al lavoro di Moebius, nonché realizzata dallo scenografo Lawrence G. Paull con David Snyder, direttore artistico- ha scritto una pagina della storia del cinema, ma ha anche messo radici profondissime nell'immaginario collettivo. Buia, inquinata, multietnica, poliglotta e soprattutto verticale poiché sovrappopolata al punto che si invogliano i cittadini terrestri a trasferirsi sulle colonie extraplanetarie, la città è soprattutto un Eden del consumismo che esplode quello reale degli Stati Uniti negli anni Ottanta.
Merito anche della formazione di Ridley Scott nel mondo della pubblicità -si ricordi il celeberrimo spot Apple del Macintosh intitolato 1984, il cui immaginario echeggia in tutto il film- che aiuta a trasformare la società distopica dei "lavori in pelle" in una sorta di (anti)paradiso artificiale, un luogo poco ameno nel quale spinta all'acquisto, opulenza e miseria estreme coesistono in contrasto stridente.
La spersonalizzazione di un mondo basato sulla compravendita universale veicola la solitudine umana: Deckard, il maxindustriale Tyrell, JF Sebastian e i personaggi della vicenda che ripensa profondamente il capolavoro di Philip K. Dick sono infatti figure in movimento su un fondale talmente caotico da distruggere lo stesso istinto alla comunicazione. Non è un caso che il Metropolis di Fritz Lang sia confluito/citato nella costruzione di una quotidianità distorta e mercificata, nella quale le esigenze di produzione hanno la meglio sulle pulsioni sociali o comunitarie. Solo i cartelloni pubblicitari di Blade Runner sono, infatti, costati centomila dollari. Una cifra altissima per i tempi.
I replicanti.
No, i robot nel vero 2019 non camminano tra noi; puliscono i pavimenti sbattendo qua e là tra i mobili della casa, ci aiutano a trovare informazioni su Google dal nostro smartphone, magari sfruttano la tecnologia Bluetooth per farci ascoltare playlist da Spotify ma anche al picco della loro diffusione grazie a speaker economici quali Amazon Echo non ci assomigliano per nulla (per ora). La peculiarità della società immaginata, invece da Dick e rivisitata da Scott sono i replicanti: creature che è difficile distinguere dalle persone "vere" al punto che un test -il Voight-Kampff- si rende necessario per valutarne le risposte emotive poco convenzionali stabilendone la natura di macchina o meno.
Gli spettatori del 2019 non possono fare a meno di pensare a Westworld, la serie tv di Jonathan Nolan e Lisa Joy che forse ha raccolto più di ogni altra (assieme a Battlestar Galactica) l'eredità robotica di Blade Runner mettendo in scena "lavori in pelle" che ancora una volta sono schiavi del consumo e schiavi in genere. Al nocciolo della pellicola del 1982 -e anche del sequel dell'anno scorso di Denis Villeneuve, Blade Runner 2049- sta infatti il grande interrogativo: cosa vuol dire essere umani? Chi decide? Una delle questioni centrali dell'universo narrativo riguarda proprio il protagonista Rick Deckard interpretato da Harrison Ford, sulla cui anatomia aleggia -volutamente- un grande punto interrogativo.
I costumi.
A oggi i costumi di Blade Runner, opera dei designer Charles Knode and Michael Kaplan, restano uno dei punti di forza della pellicola e uno degli aspetti che la rendono istantaneamente riconoscibile. Una delle influenze centrali per gli abiti di scena fu quella del costume designer Adrian, celeberrimo a Hollywood negli anni Quaranta per aver vestito i protagonisti de Il Mago di Oz e Scandalo a Filadelfia: il suo lavoro su Katherine Hepburn, in particolare, avrebbe condizionato le tenute retro-futuristiche di Sean Young che nel film interpreta la replicante Rachael, generando una miscela perfetta di fascino vintage e stile asiatico. Decisamente più ispirato al punk il look di Pris Stratton, l'androide potentissima cui presta il volto Daryl Hannah.
Le macchine volanti o "spinner".
Non tutti sanno che, nel suo anno di uscita, Blade Runner non fu esattamente un successo al botteghino superando di poco (circa sei milioni) il budget di ventotto milioni di dollari della produzione. Pare che Ridley Scott abbia condotto alla soglia dell'esaurimento nervoso l'equipe a causa della spinta alla precisione e al rigore che a oggi la contraddistinguono, e ne hanno fatto un classico senza tempo. Tra stop e rallentamenti, comunque, uno dei grandi colpi di fulmine del regista fu Syd Mead, "visual futurist" autore tra le altre cose della sconcertante visione di numerosi fondali poi ricostruiti ex novo in set laboriosissimi. E delle auto volanti o "spinner". Queste ultime sono, infatti, il frutto del lavoro di diciotto ore al giorno, in cinque mesi, di cinquanta persone e a oggi non sono affatto diffuse sebbene, per esempio, sia nata la Terrafugia TF-X.
La tecnologia.
È vero, i vaticini "macroscopici" di Blade Runner non si sono rivelati azzeccati nel 2019. Eppure qualcosa di quel ch'è immaginato nella pellicola esiste davvero e funziona a pieno regime. Per esempio, il controllo vocale: da Siri, ad Alexa a Sky Q oggi effettivamente possiamo fare richieste alle macchine con la voce e venire accontentati. E che dire della macchina Esper per ingrandire i dettagli di immagini digitalizzate? Forse non con la medesima, sconvolgente precisione di dettaglio ma a oggi la maggior parte dei nostri device consentono l'ingrandimento con il tocco delle dita (anche il riconoscimento digitale, infatti, è una realtà). Quanto alla macchina addetta al test Voight-Kampff, è una sorta di lie detector simile, però, ai test di Turing: al momento, data l'assenza di replicanti o di cloni in stile Battlestar Galactica, non si è resa necessaria. Ma chissà.
Federico Cella, Marina Pierri, 2019