April 2022. 中文寫作

 

 

 

 

 

 

 

 

“El mestée del mes” è dedicato ad una disamina dell'origine della scrittura cinese, estrapolata da un testo di Silvia Ferrara sulla creazione di scritture di diversi popoli in diverse condizioni storico-geografiche. Il volume è propriamente titolato “La grande invenzione”, ovvero “storia del mondo in nove scritture misteriose”. Il titolo del "mestée" dovrebbe significare "Scrittura cinese": non conoscendo nessun cinese, mi sono affidato al traduttore Google in cinese tradizionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 
Non sarebbe strano che il nostro futuro ci portasse tutti in Cina. Almeno, io non mi sorprenderei. La Cina ha inventato la scrittura più longeva e stabile della storia. Il cinese, inteso come lingua, che vediamo oggi è quasi lo stesso delle prime iscrizioni di 3200 anni fa. E il cinese, inteso come scrittura, è l'unico sistema al mondo a essere ancora usato per notare la lingua per la quale è stato inventato. Una culla stabile, e una sinergia indomita, resistente a ogni sollecito al cambiamento. La scrittura cinese è inamovibile, resta da millenni orgogliosamente la stessa. E allo stesso modo complicata.
Chissà come mai, gli albori sono già sorprendenti. Abbiamo visto come in Egitto e in Mesopotamia i primi passi si muovano a tentoni, con poche parole, una frase qui, una lì, nulla di complesso. In Cina, no. Tutto complicatissimo da subito. Vediamo già un sistema formato, un repertorio completo di segni, dal primo momento in cui lo incontriamo: non un proto-, non placchette-etichette, non tavolette numeriche con quattro nomi incisi sopra. Il primo cinese che troviamo ha frasi di senso compiuto e quasi tutte comprensibili. E questo non ha precedenti.
Ma allora la scrittura cinese è stata inventata dal giorno alla notte? Spunta come un fungo alla fine del secondo millennio a.C., già finita e completa? Improbabile. Più plausibile è che quello che vediamo, che vedrete tra poco, sia uno stadio già successivo, di parecchio (non possiamo sapere quanto) posteriore all’invenzione. La sintassi è flessibile, il numero dei caratteri già sostanzioso, fra i tremila e cinquemila, disegnati bene, chiari. Centinaia di iscrizioni su corazze di tartarughe, scapole bovine e oggetti di bronzo, sepolti in varie tombe, concentrate nella capitale della dinastia Shang, ad Anyang, nella Cina centro-settentrionale.
La domanda da farsi è se quello che rimane, rimane solo perché le iscrizioni si trovano su materiale resistente alle intemperie, non deperibile in poco tempo come il papiro o la pergamena. Carapace di tartaruga e metallo sono perfetti sostegni per durare nel tempo. Potremmo presupporre che quello che osserviamo sia solo un minimo campione fortunato, e che una quantità indeterminabile di iscrizioni non ci abbia raggiunto perché la voracità del tempo se l'è inghiottita senza pietà. E più verosimile questo scenario, invece che immaginare qualche scriba super letterato che nella corte della dinastia Shang concepisce un sistema finito e infiocchettato come quello cinese del 1200 a.C., in un batter d'occhio.
Allora se le prime fasi sono precedenti, quanto indietro si deve far risalire quest'invenzione? Segni neolitici sparsi per tutta la Cina, da Bann Po tsuen a occidente a Liang juu a oriente, risalenti al 5000 a.C. circa, sono stati indicati come antecedenti, ma sono in dubbio, anche se alcuni sono simili a quelli di Anyang. Non sono sufficienti però per costituire un repertorio finito. Non si possono chiamare “scrittura” dei semplici segni sparsi, dalla geometria cruda. Che la scrittura vera e propria abbia preso spunto da simboli già esistenti non è un'ipotesi assurda, anzi, in altre regioni funziona, ma è molto difficile riuscire a provare una continuità di uso e significato in un lasso di tempo di millenni. Come si fa a ricostruire? E come connettere due punti distanti chilometri senza un elemento intermedio che faccia da vettore: manca il percorso, e senza percorso ci perdiamo.
E i problemi di date non si fermano qui. Il 1200 a.C. è di molto posteriore alle invenzioni in Mesopotamia e Egitto. Due millenni dopo. Due millenni sono lunghi, le genti si muovono, rapporti fra popoli anche distanti si formano, le idee si sfiorano. E anche se l'archeologia non offre prove di nulla di tutto ciò, dobbiamo chiedere per onestà intellettuale: forse la Cina non inventa nulla, e c'è di mezzo lo zampino di un’influenza esterna, di un prestito da una di queste aree già letterate?
Saremmo disonesti se liquidassimo la questione con un sì o con un no. Il dubbio di un'influenza resta. Ma forse è solo eccesso di cautela. La verità è che le voci di una trasmissione indiretta della scrittura da un’altra cultura sono sempre più flebili, sempre più sottili. La scrittura creata in Cina e troppo, per dirla in termini chiari, “cinese”, troppo particolare, sui generi: in termini di struttura, per essere null'altro che un prodotto di questa terra. La Cina ha quindi inventato la scrittura, tanto quanto la Mesopotamia o l’Egitto. La nostra terza invenzione.
Le prime iscrizioni sono dei testi, lunghi anche fino a cinquanta righe, incisi sulle corazze inferiori, dette plastron, di tartarughe. I plastron sono la sezione della pancia del guscio di tartaruga, e offrono una superficie liscia e piatta, che sembra invitare l'incisione dei segni. Possiamo pensare che fossero state scelte per essere iscritte proprio per la loro resistenza, ma la verità è che non abbiamo idea del motivo. Molti di questi plastron non portano iscrizioni (sono anepigrafici). Il mistero sul perché si usassero questi oggetti è abbastanza impenetrabile.
Altre iscrizioni, su scapole di bove, sono più scomode per la scrittura, non hanno la stessa piattezza dei plastron, e anche in questo caso non abbiamo idea del perché siano state scelte come supporto. La durabilità sembra un pre-requisito, ma dovremmo ventilare anche l'idea che sia tutto casuale. Non sappiamo tante cose su questi oggetti, ma di certo sappiamo che cosa c’è scritto sopra.
Su questi oggetti sono incise delle pratiche divinatorie del più alto strato della società cinese, quello della corte reale di Anyang, e sono dei tentativi di comunicare con l'aldilà. E qui entriamo nel reame del paranormale. Ma, anche in questo campo, la Cina segue uno spirito tutto suo. Gli indovini oggi usano, soprattutto in America, delle tavolette incise con le lettere dell'alfabeto e i numeri dall’1 al 9, che si chiamano ouija (il nome deriva, sembra, dal francese “oui” e dal tedesco “ja”, cioè sì affermativo). Servono per comunicare con l'aldilà durante le sedute spiritiche. Il cursore si sposta sulle lettere per formare le parole e comunicare il messaggio dei morti, che vengono interrogati con domande dirette. Di solito la risposta è stile m'ama non m’ama, sì o no. In queste cose si ambisce a messaggi asciutti e tranchant, così i morti fanno meno fatica e i vivi hanno il loro contentino.
Ad Anyang il fine è uguale, ma la pratica è un po' diversa, perché la scrittura non è il medium della comunicazione. Il rito avveniva sempre prima dell'incisione del testo. Il testo era la ciliegina sulla torta che dettagliava a imperitura memoria che cosa era effettivamente accaduto, a mo' di cronistoria.
Ecco come si svolgeva la divinazione.
Probabilmente, l'interrogazione avveniva in forma orale. Le domande giravano intorno al re: come andranno le sue imprese? Come sarà il raccolto? E che disastri dobbiamo aspettarci questa settimana? Poi si riscaldavano con il fuoco delle sezioni precise dei carapaci di tartaruga o delle scapole bovine e si aspettava che si formasse una crepa sulla superficie. Quella crepa era il messaggio e doveva avere una forma ben definita perché il responso fosse valido. Alla fine si incideva direttamente sulla crepa il testo della domanda che si era pronunciata e si emetteva il verdetto: profezia negativa o positiva. Il testo era disposto in colonne verticali e seguiva uno schema quasi formulare: la data, la settimana (di dieci giorni), il tipo di profezia e il nome del funzionario responsabile per la domanda. E poi arrivava la domanda.
Per farvi capire quanto sia articolato e completo questo cinese dei primordi, vi riporto un testo a caso, che racconta: “Cinque giorni dopo, in verità arrivò da Occidente un messaggero che portava cattive notizie. Zhi Guo fa sapere che i Tu Fang hanno attaccato il nostro confine orientale e hanno preso due insediamenti. I Gong Fang, in aggiunta, hanno invaso le nostre terre del fronte occidentale”.
Immaginate un osso bovino che racconta due o tre settimane di attacchi dei nemici. E poi sogni, previsioni del tempo, e sacrifici fatti in onore di una serie di spiriti, tra cui spiccano quelli degli antenati reali. Sono mini-storie, mini-racconti, fatti e date, un bollettino preciso. E un'ossessione per le date, per i giorni propizi, per le combinazioni favorevoli, il numero giusto. Questo sistema da almanacco sembra ricordare i rituali dell’I Ching. Corsi e ricorsi storici, quando le tradizioni sono dure a morire. Plus ça change...
La gloriosa storia di Lady Hao.
La storia della scrittura cinese si intreccia a quella di una donna. La tomba di Fu Hao è la più ricca delle tombe del periodo Shang, e la sua scoperta nel 1976 una delle più importanti dell'archeologia cinese. Non solo perché la tomba è stata ritrovata miracolosamente sigillata e intatta, ma per la finestra che ci regala sull'invenzione e la gloriosa storia di Fu Hao.
Fu significa “signora”, e la tomba è dedicata solo alla celebrazione della sua vita. Lady Hao è stata una donna a dir poco formidabile. La sua posizione, una alla quale poche donne nell’antichità avrebbero potuto ambire. La sua tomba straripa di oggetti di giada (più di settecento), di bronzo (circa duecento), corazze di tartarughe iscritte. Trecentocinquanta iscrizioni con il suo nome. Tutta la sua vita qui dentro. Era una delle sessantaquattro mogli (non scherzo) di Wu Ding, il primo di nove re della dinastia Shang. Lady Hao non era una delle tante mogli. Dalle iscrizioni e dalle armi trovate nella sua tomba, sappiamo che era un comandante militare, a capo di varie campagne, con tredicimila soldati e vari generali ai suoi ordini. Era il capo più temuto della dinastia Shang che ebbe l'ardire di affrontare i temibili Tu Fang del Nord.
Oltre a questo, era anche attenta consigliera del marito. E un’indovina professionista. Il fatto che il re le desse questa responsabilità è testimonianza dell'enorme potere di Lady Hao, e della grande stima che Wu Ding nutriva per lei. Il re segue con la divinazione le gestazioni della moglie, e si preoccupa della sua salute e di quella del nascituro. Il pronostico del re è molto interessante. Wu Ding ha identificato due giorni della settimana di buon auspicio per i parti, la tartaruga è piena di crepe, le domande sono state poste tante volte. E le risposte? “Tre settimane e un giorno dopo, il giorno jiayin, il bambino è nato. Non è andata bene. Era una femmina”.
Auguri e figli maschi anche in Cina, ma in questo caso era andata male. In un clima da “figli maschi”, Lady Hao è un unicorno. Non è solo un esempio di donna al potere, è un esempio di forza intellettuale rarissima. Lady Hao è un’amazzone, una valchiria, una potentissima stratega, una sacerdotessa, una politica influente. Ed è Lady Hao a catalizzare, incanalare, accendere la scrittura.
Non riesco a pensare a un esempio simile, di donna potente e allo stesso tempo così piena di lungimiranza. Budicca comandava le armi, la regina Vittoria comandava e basta, Caterina la Grande proteggeva l'arte. Ma Lady Hao aveva una marcia in più: aveva capito il valore della cultura prima di tutti, quando ancora la cultura non aveva un nome. Lady Hao vedeva il futuro. Alla fine, forse, nella storia dell’uomo e del suo dominio incontrastato, di donne come Lady Hao non ce ne sono davvero state altre.
Ho menzionato prima che la scrittura cinese è particolare. Ed è proprio la sua struttura diversa dalle altre a suggerire che si tratti di un'invenzione e non di un’idea presa da altri e adottata a livello locale. Anche il cinese, come il sumerico, è ricchissimo di parole monosillabiche. Il rebus si presta molto bene a un'applicazione estensiva. Partiamo da qui. Perché è qui che la storia cinese diverge, acquista caratteristiche uniche, diventa multivalente. Partiamo dalla classe dei determinativi, detta fase III, che servivano come in sumerico a distinguere parole omofone.
Facciamo un esempio. Già dall'età del Bronzo, il segno dell'elefante (pronunciato *dzjangx) era usato per una parola assonante, *hsiang, “immagine”, “apparenza”. Il significato cambia, ma il suono è pressoché lo stesso. E fin qui abbiamo il rebus, o polivalenza semantica. A questo si aggiunge un altro tipo di gioco, quello della polivalenza fonetica. E allora un “pittogramma” - prendiamo, per esempio, quello usato per la parola k'ou, “bocca” - poteva essere usato anche per la parola o verbo ming, “nome”, “chiamare”: tra le due parole c'è una congruenza di significato, ma il suono è diverso e il segno è dunque polifonico. Da subito, quindi, la necessità di due tipi di determinativi: quelli semantici, legati al significato, e quelli fonetici, legati al suono. E in questo momento formativo, quando cioè le parole dovevano essere disambiguate in significato e in suono, che avviene una cosa unica.
Il determinativo si fonde alla parola e insieme diventano una cosa sola, parte integrante dello stesso carattere. Questa simbiosi produce segni composti da due elementi, la parte originale, con il suo significato, e il determinativo, sia semantico sia fonetico. Prendendo di nuovo gli esempi già citati, vediamo come al segno per hsiang si aggiunge un elemento secondario (in questo caso il segno per “uomo”) per rendere il suo secondo senso, cioè “immagine”, mentre per “elefante” il segno-base rimane invariato. Ecco il determinativo semantico. Per quello fonetico, al segno base per “bocca”, k’ou, si aggiunge un elemento per rendere il suono ming e specificare cosi che si intende indicare il verbo “chiamare”, pronunciato ming.
Per fare un altro esempio, vediamo il segno 洋 “oceano”, che consiste nella combinazione grafica di “acqua” e “pecora”. Ovviamente a livello semantico la pecora non c’entra, ma c'entra a livello fonetico perché pecora si pronuncia come oceano, cioè yáng. Il sistema è coerentissimo, perché per ogni segno si ha un’indicazione di significato e di suono insieme. Come due cose inserite una dentro all’altra che si saldano e fanno clack.
Questa fusione, questo clack, è unico. Ed è per questo motivo che definire la scrittura cinese “ideografica” è un affronto, oltre che un errore. Anche se nascono dal disegno, i caratteri cinesi non notano “idee”, ma parole specifiche (morfemi) della lingua cinese, con un suono preciso e identificabile solo in quella lingua. E il sistema riflette sia il significato sia la pronuncia. E dunque è un sistema di scrittura logografico sillabico, con una base di composti fono-semantici, almeno nell'ottanta per cento del suo repertorio. La lingua cinese si presta perfettamente al gioco del rebus: inanella segni associandoli a suoni simili, crea polivalenze. Con certosina pazienza, la scrittura è stata incanalata nella struttura bipartita dei composti, come nel gioco del mahjong, che peraltro si basa su caratteri cinesi. Ma ancora meglio del mahjong, perché i pezzi della scrittura sono migliaia.
Dai segni del periodo delle tartarughe (OBI, che sta per Oracle Bone lnscriptions) a oggi, vediamo una linea ininterrotta. Il segno per campo coltivato, per bocca, per tartaruga, per cavallo, occhio, elefante, montagna, fuoco e molti altri riconoscibili, a livello grafico, dall'inizio, dal 1200 a.C. Oggi le forme sono diverse, ma la base iconica rimane fortissima.
Questa resistenza, questo attaccamento alle cose rappresentate, e alla precisione del loro suono, è sorprendente, costituisce la vera forza di questa scrittura. E la prima fase sorprende ancor di più per essere già così regimentata, incasellata, tutta a posto. La simbiosi suono-significato e il determinativo che la completa ricordano le legioni addestrate di Lady Hao, che combatte i nemici con ordine.
Forse il cinese sarà la lingua del futuro, forse no. Che la scrittura si propaghi, invece, è molto inverosimile. Non solo perché è complicata e aliena alla cultura occidentale, ma perché dovrebbe sovrastare secoli di strapotere dell'alfabeto. E più plausibile avvenga il contrario, cioè che il pinyin (il cinese alfabetico, detto anche “romanizzato”) si diffonda con il diffondersi della lingua. Quel che è certo è che non deve sorprendere che una scrittura così iconica abbia fatto da àncora alla lingua cinese, in millenni di uso ininterrotto, di resistenza quasi militare al cambiamento. Quale che sia il destino della scrittura cinese a livello globale, in Cina resterà di certo immobile, legata all'arte della calligrafia e cristallizzata nella sua armonia estetica. Non conquisterà il mondo, ma la sua iconicità così resistente e imperiosa può aiutarci a spiegare un’altra cosa: la traiettoria in cui ci stiamo movendo tutti, oggi, in tutto il mondo. La verità è che siamo irrimediabilmente attratti dall’iconicità: le icone hanno una forza gravitazionale sempre presente nel rapporto con la scrittura. Ne riparleremo più avanti, ma che il futuro dei segni sia nelle immagini è fuori di dubbio.