Febrar 2022. Il metodo Giacarta.

 

 

 

 

“El mestée del mes” di febbraio è dedicato a un libro-inchiesta sulla storia dei terribili massacri di cui si resero responsabili gli Stati Uniti in diversi paesi del mondo all’epoca della “Guerra fredda”. Un tragico racconto di colpi di stato e omicidi di massa funzionali agli interessi del capitalismo globale e alla creazione del nuovo ordine mondiale.
L’autore, Vincent Bevins, è un giornalista pluripremiato. In veste di corrispondente dal sud-est asiatico del “Washington Post” si è occupato degli effetti del massacro del 1965 in Indonesia. In precedenza ha lavorato come corrispondente dal Brasile per il “Los Angeles Times”, coprendo anche le zone limitrofe, da Londra per il “Financial Times”. Ha scritto per “The New York Times”, “The Atlantic”, “The Economist”, “The Guardian”, “Foreign Policy”, “The New York Review of Books”, “Folha de Sao Paulo”, “The New Republic”, “The New Inquiry”, “The Awl”, “The Baffler” e “New York Magazine”.
Il libro da cui sono estratti due capitoli, uno riguardante l’Indonesia, l’altro riguardante il Cile, è “Il metodo Giacarta” (2020), ovvero (sottotitolo) “la crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo”.
Per un altro "mestée" riferito agli USA, clicca sulla locandina.

 

 

 

 

 

 

Note alle stime riportate nella mappa.

 

ARGENTINA, BOLIVIA, BRASILE, CILE, PARAGUAY, URUGUAY.
Le stime variano. Quella piú bassa pubblicata nel 1992 dagli Archivos del Terror parla di almeno 50.000 vittime. Cfr. National Geographic Resource Library, Archives of Terror Discovered; La Federación Latinoamericana de Asociaciones de Familiares de Detenidos-Desaparecidos (Fedefam) ha invece calcolato 90.000 vittime, ma il numero comprende altri paesi, come la Colombia, che non rientravano nell'Operazione Condor. Io ho considerato la stima di Víctor Flores Olea, Operation Cóndor, in "El Universal", 10 aprile 2006. L'Argentina è stato il paese piú colpito, con 30.000 morti stimati.
COLOMBIA.
La violenza è stata commessa contro la Unión Patriótica (Up), il partito di sinistra fondato nell'ambito dei negoziati di pace del 1985 con la guerriglia. Cfr. Deutsche Welle, In Colombia, It's Dangerous to Be Left Wing, in http://www.dw.com/en/in-colombia-its-dangerous-to-be-left-wing/a-44131086. DW riferisce di almeno 3.000 morti, mentre gruppi di analisti piú vicini all'Up, vittima della violenza, calcolano 5.000 morti; per una trattazione piú approfondita, cfr. Centro Nacional de Memoria Históríca, Todo paso' frente a nuestros ojos. Genocidio de la Unión Patriótica 1984-2002.
COREA DEL SUD.
La stima comprende il massacro di Jeju (1948), cosí come i comunisti e i membri della Lega di Bodo giustiziati nel 1950. Do Khiem e Kim Sung-soo, Crimes, Concealment and South Korea 's Truth and Reconciliation Commission, in "Japan Focus: The Asia-Pacific Journal", 1 agosto 2008.
EL SALVADOR.
La commissione per la verità calcola un numero totale di 85.000 vittime, con l'85 per cento dei casi costituiti da esecuzioni extragiudiziarie e sparizioni forzate. "Chi ha testimoniato ha attribuito quasi l'85 per cento dei casi ad agenti dello Stato, gruppi paramilitari loro alleati e squadroni della morte"; cfr. United States Institute of Peace, From Madness to Hope: The 12-year war in El Salvador. Report of the Commission on the Truth for El Salvador, p. 36.
FILIPPINE.
Amnesty International, Statement on Ferdinand Marcos' Burial at Lnmb, 18 novembre 2016, in http://www.amnesty.org.ph/news/statement-on-ferdinand-marcos-burial-at-lnmb/ .
GUATEMALA.
Cfr. supra, pp. 253-54.
HONDURAS.
Comisionado Nacional de los Derechos Humanos, "Los Hechos hablan por si mismos": Informe preliminar sobre los desaparecidos en Honduras 1980-1993.
INDONESIA.
Cfr. supra, p. 173.
IRAN.
La Repubblica Islamica ha giustiziato sostenitori del partito di sinistra Mojahedin del popolo iraniano, del partito Tudeh e dell'Organizzazione Fedaian. Amnesty International calcola una cifra tra i 4.672 e i 4.969 morti. Cfr. Blood-Soaked Secrets: Why Iran 's 1988 Prison Massacres are Ongoing Crimes Against Humanity, in https://www.amnesty.org/en/documents/mde 13/9421/2018/en/.
IRAQ.
Per le cifre del 1963, cfr. Patrick Cockburn, Revealed: How the West set Saddam on the bloody road to power, in "The Independent", 29 giugno 1997; la nuova repressione del 1978 contribuí ad aumentare la popolarità di Saddam a Washington prima che invadesse l'Iran (1980) e ripristinasse l'alleanza con gli Stati Uniti; Prashad, The Darker Nations cit., p. 160.
MESSICO.
Nel corso della "Guerra sporca" del Messico, le forze di sicurezza e i militari eliminarono soggetti accusati di fare parte dei molti gruppi armati di sinistra che operavano nel paese e massacrarono i manifestanti a Tlatelolco nel 1968. Le forze di sicurezza collaborarono con i funzionari statunitensi e con la dittatura brasiliana. Cfr.Adela Cedillo e Fernando Herrera Calderón, Introduction: The Unknown Mexican Dirty War, in Idd. (a cura di), Challenging Authoritarianism in Mexico: Revolutionary Struggles and the Dirty War, 1964-1982, Routledge, London 2012, p. 8; Gladys McCormick, The Last Door: Political Prisoners and the Use of Torture in Mexico 's Dirty War, in «The Americas», LXXIV (2017), n. 1, pp. 57-81; e Alexander Aviña, Specters of Revolution, Oxford University Press, New York 2014, pp. 151-55, 176-80.
NICARAGUA.
Stime approssimative parlano di 10.000 vittime tra il 1979 e il 1981 e di 40.000 vittime ulteriori tra il 1981 e il 1989; Bethany Lacina, The Prio Battle Deatbs Dataset, 1946-2008, Version 3.0: Documentation of Coding Decisions, International Peace Research Institute, Oslo.
SRI LANKA.
Per la spiegazione del motivo per cui il paese è compreso in questo elenco è la testimonianza dell'Alto commissario del Regno Unito David Gladstone, cfr. supra, p. 337, nota 6. Le cifre sono tratte da Tom H. J. Hill, The Deception of Victory: The Jvp in Sri Lanka and the Long-Term Dynamics of Rebel Reintegration, in "International Peacekeeping", XX (2013), n. 3, pp. 357-84, anche se Thushara Hewage e David Gladstone definiscono "prudenti" le stime, rispettivamente, di 40.000 e 60.000 vittime.
SUDAN.
Lo stesso Scp, il Partito comunista sudanese, ha registrato 37 esecuzioni di membri del partito da parte dello Stato, ma considera un numero maggiore di vittime per cause diverse dall'impiccagione, comprese quelle tra le 5.000 persone imprigionate e le persone che furono colpite al di fuori delle strutture giudiziarie.
TAIWAN.
Burke, Revolutionaries for the Right cit., p. 14.
THAILANDIA.
Jularat Damrongviteetham, Narratìves of the "Red Barrel" Incident: Collective and Individual Memories in Lamsin, Southern Thailand, in Kah Seng Loh, Ernest Koh e Stephen Dobbs (a cura di), Oral History in Soutbeast Asia: Memories and Fragments, Palgrave Macmillan, New York 2013, p. 101.
TIMOR EST.
Cfr. supra, p. 236.
VENEZUELA.
Si iniziano a registrare uccisioni extragiudiziali a partire dal 1959; per un trattamento piú ampio, cfr., ad esempio, Manuel Cabieses Donoso, Venezuela, okey, Ediciones del Litoral, Caracas 1963, p. 269; e Agustín I. Arzola Castellanos, La desaparición forzada en Venezuela, 1960-1969, Fondo Editorial Tropykos, Caracas 2005. Al lancio di questo libro, José Vicente Rangel disse che in Venezuela le "sparizioni" iniziarono durante la presidenza di Raúl Leoni (1964-69). E interessante che John P. Longan, il funzionario statunitense di cui si parla supra, p. 184, fosse attivo sia in Guatemala che in Venezuela. Per le osservazioni di Rangel, cfr. Rangel asegura que desapariciones forzosas de América Latina comenzaron en Venezuela, in "Chamosaurio", https://chamosaurio.wordpress_com/2008/06/09/rangel-asegura-que-desapariciones-forzosas-de-america latina-comenzaron-en-venezuela/.
VIETNAM.
Ian G. R. Shaw, Scorched Atmospheres: The Violent Geography of the Vietnam War and the Rise of Drone Warfare, in "Annals of the American Association of Geographers", CVI (2016), n. 3, p. 698.

 

 

 

 

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Sterminio.


Si dice che nei momenti epocali o durante le rivoluzioni il tempo rallenti e sappiamo che in circostanze traumatiche e violente quasi si ferma. Quando testimoni e vittime parlano dei sei mesi successivi al 30 settembre 1965, lo fanno in modi diversi. Gli uomini e le donne anziani, che raccontano altre parti delle proprie vite in termini di anni o decenni, iniziano a parlare di settimane, giorni, ore e minuti precisi.
Anche le comunicazioni, ora rese pubbliche, del governo statunitense sugli stessi eventi sono molto precise sulle date. Ciò che segue è una cronologia selezionata di quei mesi, ricostruita seguendo il modo in cui ci parlano oggi questi due tipi di voci così diversi.

 

5 ottobre.
Giacarta. - Il 5 ottobre in Indonesia è la Giornata delle forze armate. Nella capitale di solito si svolge una parata militare, nel 1965 ci fu invece il funerale di Stato dei generali caduti e una dimostrazione del nuovo dominio dei militari. Sukarno non volle partecipare, temendo per la propria incolumità. Ormai il presidente era costretto ad appoggiare pubblicamente la nuova leadership militare o sarebbe sembrato un sostenitore dello sconfitto e screditato, ed evidentemente demoniaco, Movimento 30 settembre.
Il ministro della Difesa Nasution tenne un accorato discorso di condanna della perfidia della rivolta comunista e riconobbe la leadership di Suharto.
Nell’arcipelago i rappresentanti locali del Partito comunista indonesiano parteciparono alle festività come al solito sventolando orgogliosamente le bandiere con la falce e il martello alle celebrazioni militari.

Washington, DC. - Il 5 ottobre il Dipartimento di Stato ricevette un telegramma dall'ambasciata statunitense a Giacarta firmato dall'ambasciatore Howard Green.
Green descriveva la situazione in Indonesia:
“Le seguenti linee guida potrebbero fornire una parziale indicazione in merito all'atteggiamento che dovremmo prendere:
a. Evitare un esplicito coinvolgimento nello sviluppo della lotta di potere.
b. In segreto, tuttavia, indicare chiaramente alle persone chiave nell'esercito, come Nasution e Suharto, il nostro desiderio di fornire assistenza dove possiamo; nello stesso tempo trasmettere loro il nostro presupposto di evitare assolutamente che appaiano nostri
coinvolgimenti o interferenze.
c. Mantenere e se possibile allargare il nostro contatto con i militari.
d. Evitare mosse che potrebbero essere interpretate come segni di mancanza di fiducia nell'esercito (come trasferire precipitosamente i nostri dipendenti o tagliare il personale).
e. Diffondere la storia della responsabilità, del tradimento e della violenza del Pki (questo sforzo prioritario è forse l'assistenza immediata più necessaria che possiamo fornire all'esercito se possiamo trovare il modo di farlo senza che la cosa sia identificata come una mossa unicamente o principalmente americana)”.
Lo stesso giorno il nuovo ambasciatore spedì un altro resoconto, più diretto, di quello che aveva di fronte Washington in Indonesia. “Se si muove in fretta, ora l’esercito ha l'opportunità di agire contro il Partito comunista”, scrisse. “Ora o mai più.”

 

7 ottobre.
Banda Aceh. - La provincia di Aceh, sulla punta della grande e ricca isola di Sumatra ha una storia di comunismo e di fervente fede islamica, che spesso si erano sovrapposti nei giorni in cui in Indonesia fioriva il comunismo islamico e la maggior parte dei membri del Pki in quella regione erano credenti devoti. Aceh -calda, densa e verdissima- è l’estremità più occidentale dell'lndonesia, con la Malesia a est, al di là dello Stretto di Malacca. Lì le forze armate avevano organizzato molti civili come parte della Konfrontasi di Sukarno con la giovane nazione malese. Secondo le interviste rilasciate a quel tempo da persone del posto, il Pki non aveva una cattiva reputazione, neanche tra i musulmani più conservatori, finché non arrivò la propaganda anticomunista in seguito agli eventi del 1 ottobre.
Nel 1965 il comandante dei militari di Aceh era lshak Djuarsa, un accanito anticomunista che aveva studiato a Fort Leavenworth in Kansas. Il 7 ottobre lasciò la capitale, Banda Aceh, per un frenetico giro della provincia dove tenere discorsi a folle raccolte in fretta.
Secondo i testimoni presenti proclamò: “Quelli del Pki sono kafir (infedeli). (...) Li estirperò dalle radici! Se trovate dei membri del Pki in un villaggio e non li ammazzate, sarete voi a essere puniti!”
Djuarsa incitò la folla al grido di Morte al Pki! Morte al Pki! Morte al Pki!
La gente di Aceh Centrale capì che veniva loro detto di ammazzare i comunisti, altrimenti sarebbero stati ammazzati loro.
Si crede che sull'isola di Sumatra la strage iniziò quel giorno. Qualche uccisione avvenne “spontaneamente” a opera di civili che agivano per proprio conto dopo aver ricevuto quel tipo di ordini, ma non fu la regola: i militari e la polizia iniziarono ad arrestare un enorme numero di persone. Molte persone di sinistra si consegnarono spontaneamente pensando che fosse la cosa più sicura e prudente da fare.
I militari rimisero in funzione le strutture civili che avevano creato durante la campagna antimalese. Nel corso della Konfrontasi, l'esercito aveva istituito organizzazioni paramilitari che potevano essere usate per applicare la legge marziale e schiacciare i comunisti.
La frase usata da Djuarsa, “estirparli dalle radici”, era già stata usata prima, a mezzanotte del 1 ottobre, da Mokoginta, un altro comandante militare di Sumatra che aveva studiato a Leavenworth. Queste parole sarebbero diventate il pubblico e costante ritornello del programma di sterminio di massa.

 

8 ottobre.
Il quotidiano dell'esercito “Angkatan Bersendjata” pubblicò la vignetta di un uomo che prende a colpi d'ascia un grande tronco. Sul tronco c'è l’acronimo indonesiano per il Movimento 30 settembre, “G 30S”, e sulle radici quello del Partito comunista, “Pki”. La didascalia diceva: “ESTIRPATELI DALLE RADICI”.
Ma all’interno dell'esercito indonesiano l’operazione aveva un altro nome: Operasi Penumpasan - Operazione Annientamento.

 

19 ottobre.
Giacarta. – All’inizio di ottobre Magdalena notò appena un po' di caos nella politica della capitale. Di certo non era al corrente che le cose a Giava Centrale, dove era cresciuta, fossero molto peggio che a Giacarta.
Sua nonna si era ammalata, così prese un permesso dal lavoro alla fabbrica di magliette e salì su un treno diretto al suo villaggio per andare a trovarla. I problemi di salute affliggevano la sua famiglia da sempre. Quando arrivò, la nonna era già morta.
Magdalena aveva intenzione di assistere ai funerali, passare un paio di settimane con la famiglia in lutto e poi tornare al lavoro a Giacarta. Andò a dormire nella sua casa di Purwokerto, nel letto di quando era bambina.

 

20 ottobre.
Washington, DC. - Il Dipartimento di Stato ricevette un telegramma dell'ambasciatore Howard Green. Green riferiva che il Pki aveva subito “arresti, attacchi e, in alcuni casi, esecuzioni dei quadri di partito, che avevano comportato alcuni danni alla sua forza organizzativa”. Il telegramma proseguiva:
“Se la repressione dell'esercito ai danni del Pki continua e i militari rifiutano di cedere la loro posizione di potere a Sukarno, la forza del Pki potrebbe essere ridimensionata. A lungo termine, tuttavia, la repressione nei confronti del Pki non funzionerà se l'esercito non deciderà di attaccare il comunismo in quanto tale.”
Green concluse: “ln ogni caso, l’esercito sta facendo ogni sforzo per distruggere il Pki e io ho sempre più rispetto per la determinazione e l’organizzazione con cui sta portando avanti questo compito fondamentale”.

Purwokerto, Giava Centrale. - Nel primo pomeriggio, a meno di ventiquattro ore dal suo arrivo, due ufficiali di polizia si presentarono alla casa di famiglia di Magdalena.
“Deve venire con noi. Deve darci delle informazioni”, le dissero.
Tutta la casa scoppiò in pianti e grida. La famiglia di Magdalena aveva sentito che di recente nel quartiere c’erano stati degli arresti, ma non sapevano che lei appartenesse a un sindacato Sobsi a Giacarta, e né loro né Magdalena pensavano che ciò potesse rappresentare un problema.
Alla stazione di polizia gli ufficiali iniziarono l’interrogatorio urlando. Le dissero che sapevano della sua appartenenza al Gerwani, il Movimento delle donne affiliato al Partito comunista. Ma lei non era un membro di quell'organizzazione. Non sapeva cos'altro dire ai poliziotti. Secondo la mitologia diffusa dal nuovo comando indonesiano, ciò significava che lei aveva fatto parte del gruppo di donne che ballavano nude mentre mutilavano i genitali dei militari di alto rango. Non sapeva di cosa stessero parlando, disse loro.
Gli interrogatori andarono avanti a singhiozzo per sette giorni. Poi gli ufficiali portarono Magdalena in un’altra stazione di polizia, a Semarang, dove appena arrivata perse i sensi: stava male ed era distrutta, le girava la testa. Aveva diciassette anni. Non sa bene quanto tempo passò nella seconda stazione prima che due ufficiali di polizia la stuprassero. Per i poliziotti era Gerwani, quindi non era un essere umano né una donna ma una depravata assassina, una nemica dell’lndonesia e dell'islam. Una strega. E lei ora era sotto la responsabilità di questi uomini.

 

22 ottobre.
Washington DC. - Quando a Giava iniziarono le uccisioni, il Dipartimento di Stato ricevette rapporti dettagliati sulla portata e la natura delle operazioni militari. Un “leader della Gioventù islamista” riferí che, nelle perlustrazioni che avevano come esito gli omicidi, le truppe erano accompagnate da “assistenti”.
Il consigliere alla Sicurezza nazionale McGeorge Bundy scrisse al presidente Johnson che gli eventi in Indonesia dopo il 30 settembre “sin qui sono un'impressionante riprova della validità della recente politica degli Stati Uniti nei confronti di quel paese”.
Lo stesso giorno l'ambasciatore Marshall Green inviò un telegramma al Dipartimento di Stato:
“A tutt'oggi non ci sono indicazioni di incapacità da parte dell'esercito (...). Concordiamo sul fatto che sarebbe praticamente impossibile tenere segreta un'eventuale assistenza diretta da parte dell'Usg (Governo degli Stati Uniti) (...). Se fosse fornita assistenza e ciò diventasse di dominio pubblico, ci chiediamo se per l'esercito sarebbe un aiuto o piuttosto un danno (...). Abbiamo il sospetto che se le autorità militari avessero realmente bisogno del nostro aiuto in merito, ce lo farebbero sapere".
Due settimane dopo la Casa Bianca autorizzò la sede della Cia di Bangkok a fornire armi di piccolo calibro al suo contatto militare a Giava Centrale “da usare contro il Pki”, insieme a materiale sanitario; le forniture sarebbero state fatte arrivare dalla sede della Cia di Bangkok.
Ma dopo sette anni di stretta cooperazione con Washington, i militari erano già ben equipaggiati. Inoltre, per arrestare civili che non oppongono quasi nessuna resistenza non c'è bisogno di usare sofisticati armamenti. Per i funzionari dell'ambasciata e della Cia, invece, quello di cui l'esercito aveva davvero bisogno erano informazioni. In collaborazione con gli analisti della Cia, il funzionario politico dell’ambasciata, Robert Martens, preparò elenchi di nomi di migliaia di comunisti e di persone sospettate di esserlo e li passò all'esercito, in modo che queste persone fossero uccise e “depennate” dalla lista.
Da quello che sappiamo, fu almeno la terza volta nella storia che funzionari statunitensi fornivano agli alleati elenchi di comunisti e presunti tali affinché venissero catturati e uccisi.
La prima fu in Guatemala nel 1954, la seconda in Iraq nel 1963 e ora, nel 1965, in Indonesia, ma questa volta a una scala molto più grande.
“Fu davvero un grosso aiuto per l'esercito”, disse Martens. “Probabilmente le mie mani sono sporche di sangue, ma non è poi così grave”.

 

25 ottobre.
Purbalingga, Giava Centrale. - Sakono si svegliò presto e fece in bicicletta i sei chilometri che lo separavano dalla locale stazione di polizia. Arrivò, entrò e scrisse il suo nome su un piccolo pezzo di carta. Gli ufficiali erano abbastanza gentili e non ci badavano quasi più: ormai era una routine.
Quando Sakono sentì parlare del Movimento 30 settembre, all'inizio era favorevole: da quello che aveva appreso dalle notizie alla radio, era un movimento interno all'esercito che aveva fermato un colpo di Stato ai danni del suo eroe di quando era bambino, il presidente Sukarno. Ma poi le notizie divennero più confuse. Nel suo villaggio il quotidiano “Harian Rakjat” non arrivava più e la sezione locale della Gioventù del popolo non gli dava nessuna risposta, così continuò ad aspettare di cominciare il suo lavoro di insegnante, mentre cercava disperatamente qualche brandello di informazione da Giacarta, come sempre da quando era adolescente.
Quando il racconto degli eventi cambiò e iniziò a essere diffuso solo dall’esercito e dai media stranieri, Sakono capì che la sinistra era sospettata di qualcosa ma non diede molta importanza alla cosa. Venne a sapere che chiunque appartenesse a un’organizzazione affiliata al Pki doveva farsi controllare regolarmente dalla polizia.
Prima d'allora non aveva mai avuto a che fare con le forze dell'ordine, ma non se preoccupò più di tanto. Non aveva molte cose da fare e non era allarmato: qualunque cosa fosse accaduta a Giacarta, non avrebbe interferito coni suoi piani. Immaginava che da insegnante sarebbe stato il miglior rivoluzionario possibile. “Quando l’istruzione va avanti, va avanti anche il paese”, pensava. Continuò ad aspettare, ad aiutare la famiglia nei campi e a far passare il tempo.

 

29 ottobre.
Galena, Maryland. - Frank Wisner, durante un soggiorno nella fattoria di famiglia, trovò la pistola di uno dei suoi figli e si sparò.

 

2 novembre.
Purbalingga, Giava Centrale. - Sakono andò ancora una volta a farsi controllare dalla polizia. Ancora una volta uscì dalla stazione, prese la bici e tornò al villaggio. Arrivato a casa, verso le 2 del pomeriggio, trovò ad aspettarlo due ufficiali di polizia. Uno di loro aveva una lettera. Gli dissero che la lettera significava che doveva seguirli. “E una questione della massima importanza. Deve affrontarla subito”, disse l’ufficiale.
Sakono andò con loro.
Quando entrò in prigione si sentiva a posto. Non aveva fatto niente di male così immaginò che lo avrebbero interrogato, gli avrebbero dato qualche informazione e l'avrebbero scagionato. Non era un membro a pieno titolo del Pki, ma era stato variamente e orgogliosamente coinvolto con il Partito comunista da quando era molto giovane, così incontrò subito un sacco di vecchi amici. C’era Sutrisno, il quadro di partito che gli aveva dato lezioni di marxismo-leninismo quando era giovane. Era lì anche Suhada, il suo vecchio amico, basso e cicciottello, un tipo divertente che faceva sempre discorsi fantastici e portava sempre gli occhiali: era nel Comitato centrale.
Praticamente era una rimpatriata. Erano tranquilli, quasi allegri. Iniziarono a cantare canzoni rivoluzionarie, non per sfidare la polizia, ma per una sorta di allegra solidarietà.
“Andiamo avanti senza paura
Difendiamo ciò che è giusto
Avanti, insieme,
Vinceremo certamente
Andiamo avanti, andiamo avanti
Tutti insieme, tutti insieme.”
Quella notte, mentre tutti dormivano, portarono via dodici prigionieri. Portarono via Sutrisno. Portarono via Suhada. Portarono via i suoi amici Kamdi, Sumarno e Suharjo.
Non fecero più ritorno. La mattina seguente nessuno fece colazione. Nessuno cantò. Nessuno sorrideva né parlava. Non poteva essere successo: era l'opposto di quello che Sakono aveva imparato e a cui aveva creduto per tutta la vita. L'esercito e la polizia erano i difensori della rivoluzione. Il sistema indonesiano era basato sulla legge e l’ordine, sul giusto processo, sulle prove e la giustizia. Nei suoi diciannove anni di vita non aveva quasi mai assistito a una violenza.
“Non sono un rivoltoso! Non ho mai impugnato un’arma! Non mi ribellerei mai contro il mio paese! Non ho mai fatto niente di male in tutta la mia vita!”, continuava a gridare Sakono, ma lo faceva in silenzio, nella sua mente, mentre tremava dal terrore all'idea di essere il prossimo a venire portato via. Cos'era successo ai suoi amici? Sakono aveva sentito delle voci, come tutti in quella regione. Qualcuno veniva portato al fiume Serayu di notte. Gli legavano le mani e lo gettavano in acqua, o forse prima gli sparavano, oppure lo accoltellavano. Gli omicidi di massa divennero evidenti: i corpi ammassati erano così tanti da ostacolare il corso del fiume e il tanfo che emanavano era orribile. Ma su chi fosse stato ucciso, dove e in che modo, c'erano solo voci.
Era una nuova caratteristica della violenza di massa. Le persone non venivano ammazzate nelle strade, non venivano giustiziate ufficialmente, le famiglie non erano sicure che fossero morte: venivano arrestate e poi scomparivano nel cuore della notte. I parenti spesso non avevano idea se i loro cari fossero ancora vivi e questo li paralizzava ancora di più dalla paura. Le loro proteste o la loro ribellione sarebbero costate la vita a chi era in prigione? Sarebbero stati portati via anche loro? Anche di fronte a prove schiaccianti degli omicidi di massa, l'istinto umano spera sempre che un figlio o una figlia possano ancora salvarsi. Questo blocca le persone e rende le popolazioni molto più remissive, più facili da sterminare e da controllare. Gli storici che studiano la violenza in Asia credono che le “sparizioni” forzate siano state usate per la prima volta in quelle circostanze.
Chi li uccideva? Come ad Aceh, i prigionieri venivano portati via di notte dai militari o dai poliziotti in luoghi particolari dove venivano ammazzati, ma molto spesso a premere il grilletto o affondare il machete non erano gli agenti o i soldati in uniforme.
La principale organizzazione islamista del paese aveva un settore giovanile e un'ala armata, l'Ansor e il Banser. Le parole sono acronimi ma il fondatore del Banser disse che voleva che suonasse come Panzer, i famosi carri armati di Hitler; disse anche che nel 1964 aveva iniziato a studiare il Mein Kampf per imparare come si trattavano i comunisti. Questi gruppi parteciparono alle esecuzioni a Giava Centrale e Orientale. Ad Aceh, i militari minacciarono civili indiziati, individui politicamente sospetti o emarginati, per costringerli a compiere gli omicidi. Spesso queste persone per riuscire a sopportare quello che avevano fatto si davano all'alcol. Qualunque cosa fosse successa, chiunque fosse stato, ormai quasi tutti gli amici di Sakono erano morti e i cadaveri si accumulavano ovunque.

 

6 novembre.
Washington, DC. - Il Dipartimento di Stato ricevette un telegramma da Giacarta da parte dell'ambasciata statunitense che riportava ulteriori notizie sui progressi dell'esercito. Il messaggio finiva con queste testuali parole:
“L'ufficio informazioni dell'esercito ha anche riferito che forze speciali (Rpkad) a bordo di autoblindo mentre entravano nella città di Surakarta (non è stata riportata la data) sono state bloccate in un villaggio dei dintorni da nove “streghe” del Gerwani affiliato al Pki. Le donne hanno insultato i militari e cercato di impedire loro il passaggio. Dopo aver chiesto loro con calma di allontanarsi e aver sparato colpi in aria, le forze speciali sono state “costrette dalla loro intransigenza a troncare il respiro a queste nove streghe Gerwani”.
3. Miscellanea (sic): ieri Bandung ha rinominato parte della sua strada principale “General Yani Boulevard” dando inizio a quella che crediamo sarà una tendenza molto diffusa. E un bene che il generale abbia un nome facilmente pronunciabile.
Green".

 

22 novembre.
Boyolali. - A Boyolali, nella provincia di Giava Centrale, la mattina del 22 novembre, le forze armate trovarono, arrestarono e giustiziarono D. N. Aidit, leader del Partito comunista indonesiano. Aidit si era messo in fuga da quando aveva capito che i militari lo stavano cercando.
L’esercito annunciò al mondo che Aidit aveva confessato di avere avuto l’intenzione di prendere il paese; un resoconto in tal senso venne poi pubblicato dal “Newsweek”. Dopo l'uscita del numero, un telegramma proveniente dall'ambasciata riferì al Dipartimento di Stato che il personale diplomatico sapeva che era “impossibile credere che Aidit avesse fatto una dichiarazione del genere” perché, secondo la versione dei militari, avrebbe citato un documento falso, documento che era noto “essere stato evidentemente diffuso come parte di un’operazione di “propaganda nera”.

 

13 dicembre.
Giacarta. - Dopo il 1 ottobre 1965, Francisca continuò a lavorare, mentre Zain smise quando i militari chiusero il quotidiano “Harian Rakjat”. Francisca andava nell’ufficio della Afro-Asian Journalist Association ogni giorno e il personale lavorava alla successiva edizione e per la Conferenza Tricontinentale in programma all’Avana nel 1966. Nonostante tutto quello che stava accadendo, Sukarno e un vecchio leader comunista, Nyoto, erano riusciti a organizzare una conferenza a Giacarta per protestare contro le basi militari americane nel mondo e in ottobre Francisca aveva aiutato “Afro-Asian Journalist” a darne notizia.
Ma Francisca sapeva che erano in corso arresti in tutta la città. Qualche suo collega, specialmente i giornalisti, smise di andare al lavoro. Fino a quel punto non c’era quasi nessuna informazione attendibile su quello che stava succedendo. Ognuno pensava a se stesso, nessuno sapeva di chi si potesse fidare. Ogni sera Francisca prendeva la macchina e tornava dall'ufficio diritta a casa a Menteng con Zain. Passò due mesi così, mentre il mondo degli intellettuali di sinistra di Giacarta diventava ogni giorno più piccolo.
Alle quattro del mattino del 13 dicembre, tre uomini bussarono alla porta e li portarono via. Francisca e Zain non opposero resistenza. Gli agenti dissero a Francisca che sarebbe stata trattenuta solo per rispondere a qualche domanda e che sarebbe tornata a casa molto presto, poi caricarono lei e Zain su una Land Rover e li portarono in piazza dell’Indipendenza. I bambini restarono a casa da soli.
Poco dopo il loro arrivo, gli uomini portarono Zain in un’altra stanza. Francisca vide un uomo che stava entrando in un'altra porta iniziare a togliersi la cintura. Fu lasciata sola in una sala interrogatori con un ufficiale militare, che tirò fuori una pistola e la posò sul tavolo. Lei perse i sensi. Era sicura di morire.
Ma in qualche modo ce la fece: l’interrogatorio era finito. Poteva essere durato parecchie ore o un’ora soltanto. Era stordita. La portarono nell'ufficio del medico militare, quello che minacciava le mogli degli agenti. Perché era lì? Forse per essere uccisa in un altro modo? Poi portarono Zain. Era chiaro che fosse lì per dire addio. Era anche chiaro che fosse stato torturato: poteva vedere le bruciature di sigaretta sulle sue braccia, ma non quante ce ne fossero, non si riuscivano a contare. Poi lo portarono via e lei rimase da sola nell'ufficio del dottore.
Rimase lì a penare per otto giorni. Di notte dormiva su una specie di panca che sembrava il lettino di un ginecologo. Non mangiava e perse circa sette chili, ma non lo sapeva, non sapeva niente. Di giorno i dottori al lavoro la ignoravano. Sembrava che non sapessero perché era lì ma sapevano che era una specie di comunista e che quindi non meritava cure mediche.
Venne invece notata da una paziente, una donna, probabilmente la moglie di un soldato.
Francisca non riusciva a smettere di piangere. Non sapeva dove fossero i suoi bambini. Non sapeva se Damaiati, Kandida, Anthony e Benjamino, il più piccolo, stessero bene. Per giorni la polizia ignorò le sue lacrime. Ma questa donna si accorse di lei e le chiese cosa fosse successo. Francisca cercò di spiegarglielo.
“Hai figli?”, le chiese la donna.
“Ne ho quattro!”, rispose Francisca e ricominciò a piangere.
La donna si rivolse a un dottore e gridò: “Perché non vi prendete cura di questa donna?”
Il dottore si arrese e le restituì un po' di umanità. Evidentemente chiamò qualcuno perché Francisca fu trasferita nell'ufficio dell’esercito. Si scopri che la polizia aveva trattato il suo caso in modo sbagliato e poi si era dimenticata di lei. Fu portata nel carcere femminile. Non aveva ancora contatti con la sua famiglia. Nel carcere femminile incontrò una giovane donna di soli diciannove anni, una ragazza di campagna incinta del primo figlio. Guardava Francisca, madre di quattro figli e trentanovenne, con ammirazione. La giovane donna piangendo disperatamente disse a Francisca che suo marito era già stato ucciso.

 

16 dicembre.
Washington, DC. - I funzionari statunitensi erano in stretto contatto con i militari e dissero loro chiaramente che l'assistenza diretta all'Indonesia sarebbe ripresa se il Pki fosse stato distrutto, Sukarno rimosso e gli attacchi agli investimenti degli Stati Uniti fermati. Gli aiuti erano anche subordinati alla volontà dell’Indonesia di adottare i piani economici approvati dal Fondo monetario internazionale e dagli Stati Uniti.
Secondo un telegramma di dicembre del Dipartimento di Stato, l'unica cosa che sembrava volessero sapere i capi dell'esercito era “quanto valore può avere per noi l’annientamento del Pki“. Il valore era molto alto.
Ma i funzionari statunitensi erano anche molto preoccupati perché il futuro governo militare non aveva ancora rovesciato i piani di Sukarno di nazionalizzare le compagnie petrolifere americane, la questione economica di gran lunga più importante del momento. Secondo l'analisi delle comunicazioni desecretate fatta dallo storico Bradley Simpson, “avvertirono apertamente e ripetutamente l'emergente leadership indonesiana” che, se la nazionalizzazione fosse andata avanti, Washington avrebbe ritirato il suo sostegno e il loro controllo del potere sarebbe stato a rischio. La Casa Bianca arruolò nella battaglia funzionari australiani e giapponesi. Vinsero.
La vittoria è descritta nel telegramma del 6 dicembre inviato da Giacarta al Dipartimento di Stato. Suharto arrivò a un incontro di alto livello in elicottero, irruppe nella stanza e “disse in modo inequivocabile a tutti i convenuti che l'esercito non avrebbe consentito nessuna mossa affrettata contro le compagnie petrolifere”. E poi se ne andò.

 

1 gennaio 1966.
Bali. - La violenza arrivò nell'isola di Bali a dicembre. E’ quasi come se, iniziata all’estremità più occidentale dell'lndonesia, si fosse mossa verso est attraverso i centri più popolati, da Giava Centrale a Giava Orientale e poi fino a Bali. Come il movimento del sole, ma al contrario.
Il massacro di Bali probabilmente fu il peggiore di tutta l'Indonesia. Mentre il nuovo anno stava iniziando, l'isola fu lacerata dalla violenza.
Agung Alit era appena un ragazzino, ma sapeva che stavano cercando suo padre. Anche suo padre, Raka, lo sapeva, così, invece di dormire a casa, passava la notte nel vicino tempio indù. Agung stava a casa. Mentre dormiva, notte dopo notte a casa sua arrivavano degli uomini che frugavano in giro e chiedevano dov’era Raka. Alla fine lo trovarono. Agung fu svegliato e la sua famiglia gli disse che il padre era andato via e non sapevano quando sarebbe tornato.
La gente di Bali sapeva che nello scoppio della violenza c'era qualcosa di molto sospetto. La gente veniva ammazzata a colpi di grandi machete che però non erano tipici dell'isola. I balinesi usavano i klewang, un'arma tipica del luogo dalle lame più sottili. Qualcuno doveva aver portato i machete da un'altra isola. E come altrove la gente del posto partecipava alle uccisioni. Agung sentì dire che suo padre era stato portato via da un vicino, un uomo che la sua famiglia conosceva.
I machete comparvero a Bali più o meno nello stesso periodo in cui arrivarono le campagne di propaganda anticomunista dei militari, coordinate a livello nazionale. Si diceva che le donne Gerwani avessero intenzione di prostituirsi per comprare armi per la rivolta comunista e di castrare i soldati che cedevano alle loro lusinghe. I gruppi addetti alla propaganda giravano nelle zone rurali per diffondere storie come questa e portare nelle case il messaggio che la gente doveva “stare con il G30S o aiutare il governo ad annientare il G30S. Non era contemplato rimanere neutrali”.
Alcuni omicidi vennero eseguiti da membri del Pni, il partito nazionalista fondato da Sukarno molto tempo prima, altri da bande locali di paramilitari che si erano già opposte al programma governativo di riforma fondiaria nazionale.
Il giovane Wayan Badra, il tredicenne figlio del prete indù del quartiere di Seminyak, notò che due bravi insegnanti comunisti della sua scuola se ne erano andati e non avevano più fatto ritorno. Poi senti cosa stava succedendo sulle spiagge. Portavano persone dalla città a est per ucciderle sulla sabbia. La spiaggia era un luogo pubblico e di notte era deserta. I corpi venivano lasciati lì. Alcuni venivano recuperati dalle famiglie, altri erano portati al villaggio di Badra dove venivano cremati dopo un rito funebre anonimo celebrato dal padre di Wayan.
Per gli indù balinesi la perdita del corpo di un membro della famiglia è una profonda tragedia spirituale di enorme significato. Così dopo qualche anno dalla fine delle violenze, Agung andò con la sua famiglia a cercare il corpo del padre per dargli un funerale onorevole e cremarlo. Camminarono per quattro chilometri fino al luogo dove qualcuno aveva detto che avrebbero trovato i resti. Trovarono un campo pieno di corpi.
Iniziarono a cercare tra le ossa e a raccogliere teschi.
Qualcuno gridò: “Questo è il signor Raka!”
Ma no, il teschio non sembrava quello giusto. I capelli non corrispondevano. Forse è quest'altro? Continuarono disperatamente a cercare tra i cadaveri decomposti per diversi minuti prima che qualcuno si rendesse conto che era un'impresa folle. “C’erano troppi teschi, troppi scheletri”.
Camminarono per un’ora per tornare a casa elaborando la consapevolezza che non lo avrebbero mai potuto seppellire e sconvolti dall'enorme mare di uomini in cui erano appena entrati. In totale fu ucciso quasi il 5 per cento della popolazione di Bali, vale a dire ottantamila persone, probabilmente la più alta percentuale di tutto il paese.
I balinesi erano stati tra i più convinti sostenitori del progetto politico multireligioso di Sukarno perché, in un paese a maggioranza musulmana, concedeva agli indù più libertà. Una grave crisi economica all'inizio degli anni Sessanta aveva reso le promesse di redistribuzione da parte dei comunisti più allettanti per alcuni e più minacciose per altri. Il Pni uccise il governatore Suteja, insieme ad alcuni membri della sua famiglia e diffuse la leggenda che Suteja fosse morto per nyupat, cioè che avesse scelto di essere ucciso per reincarnarsi in una persona migliore. Ad alcuni balinesi venne davvero chiesto se volessero il nyupat, ma la richiesta era priva di senso: chi rifiutava veniva ucciso comunque. Nel giro di pochi mesi furono giustiziati, ammazzati uno per uno, a causa dell'appartenenza a un partito politico disarmato che fino a poche settimane prima era del tutto legale e popolare.
Poco tempo dopo a Seminyak, la spiaggia che servi da luogo di sterminio, fu costruito il primo hotel per turisti.

 

14 gennaio.
Washington, DC. - Il Dipartimento di Stato ricevette una valutazione dettagliata della situazione in Indonesia dall'ambasciatore Marshall Green:
“Prima del 1 ottobre 1965 l’Indonesia era a tutti gli effetti uno Stato asiatico comunista (...). Gli eventi degli ultimi mesi hanno avuto tre effetti principali sulle strutture di potere e la politica indonesiane:
1. Nell'immediato futuro il Pki non sarà più un importante elemento di potere. L'efficacia dell'azione dell'esercito e dei suoi alleati islamici ha completamente disgregato l'apparato organizzativo del partito. La maggior parte dei membri del Politburo e del Comitato centrale è stata uccisa o arrestata. La stima dei membri del partito uccisi arriva a diverse centinaia di migliaia.”
Il memorandum elencava il piano per la reazione degli Stati Uniti:
“1. Assicurarsi che le nostre azioni e le nostre dichiarazioni non abbiano in alcun modo l'effetto di sostenere Sukarno e i suoi tirapiedi. (...)
f. Senza essere direttamente coinvolti, promuovere accordi tra il (governo dell'Indonesia) e le compagnie petrolifere americane. (...)
h. Nei limiti della prudenza, fornire consigli e assistenza, apertamente o in segreto, a gruppi anticomunisti competenti e responsabili affinché intraprendano attività vantaggiose”.

 

11 marzo.
Bogor. - Mentre le uccisioni proseguivano, i funzionari del Dipartimento di Stato espressero ripetutamente la loro frustrazione per il fatto che Suharto non avesse ancora assunto il pieno controllo e deposto formalmente il presidente Sukarno. Da ottobre Sukarno era rimasto quasi sempre relegato nel palazzo della città di Bogor e privato di gran parte dei suoi poteri, ma aveva ancora il titolo ufficiale di presidente e qualche influenza.
Sukarno reagì ai massacri con disperazione e insieme rassegnazione. Non poteva ricevere resoconti completi dalle varie zone del paese, ma sapeva che erano in atto violenze e sembrava sopraffatto dall'enormità della propaganda anticomunista. A un gruppo di funzionari e di giornalisti disse: “E’ sempre la stessa cosa (...) coltelli, coltelli, coltelli, coltelli, coltelli, una fossa per migliaia di persone, migliaia di persone (...) ancora e ancora la stessa cosa!”. Esortava alla moderazione ma nessuno lo ascoltava, mentre le forze di Suharto decimavano letteralmente il numero degli esponenti di sinistra della politica indonesiana.
Nel periodo dei massacri la situazione economica si deteriorò, il che ridusse ulteriormente quello che restava del potere di Sukarno. Secondo Subandrio, il suo ex ministro degli Esteri, Suharto si accordò con diversi uomini d'affari per limitare la fornitura di generi di prima necessità come riso, zucchero e olio, in modo da provocare un'altissima inflazione. Suharto incoraggiò gruppi di studenti anticomunisti, spesso provenienti dalle stesse scuole che Benny aveva frequentato pochi anni prima, perché protestassero contro la lievitazione dei prezzi. Il governo degli Stati Uniti stava intenzionalmente destabilizzando l'economia.
Mentre intorno a lui infuriavano le proteste studentesche, il ro marzo Sukarno convocò i principali funzionari governativi al palazzo presidenziale di Giacarta nel tentativo di mantenere il controllo del paese. Ma il giorno dopo paracadutisti leali a Suharto, sotto la guida del generale Sarwo, circondarono il palazzo.
Sukarno, seguito da Subandrio, di corsa e a piedi scalzi, saltò su un elicottero per scappare e rifugiarsi a Bogor, ma lì fu costretto a firmare una lettera che cedeva il potere esecutivo a Suharto.
Le interpretazioni della lettera, la cosiddetta Supersemar, sono ancora controverse. Nessuno ha mai visto l'originale.
In ogni caso, Suharto la usò per subentrare al potere con effetto pieno e immediato. Nei suoi primi provvedimenti mise al bando quello che restava del Partito comunista e poi arrestò molti membri del governo di Sukarno, tra cui Subandrio. Gli Stati Uniti aprirono subito i rubinetti degli aiuti economici. La morsa sull'economia venne allentata e le aziende statunitensi iniziarono a studiare opportunità di profitto. Pochi giorni dopo il trasferimento del potere, alcuni rappresentanti della compagnia mineraria americana Freeport erano nella foresta della Nuova Guinea Occidentale in cui trovarono subito una montagna piena di minerali preziosi. Ertsberg, come viene chiamata oggi, è la più grande miniera d’oro del mondo.

 

17 marzo.
Washington, DC. - Telegramma da Giacarta:
“1. Diversi corrispondenti americani ci hanno chiesto di commentare “resoconti da (Giacarta)” che si possono far risalire a fonti britanniche di alto livello a Singapore. Il corrispondente dell'AP John Cantwell (fonte protetta) ha detto esplicitamente a Congen che i britannici stanno diffondendo storie fasulle”.
Il reporter sapeva di aver ricevuto informazioni false nell'ambito di una campagna per rafforzare Suharto. Non gliene importava. La nota continua: “Il corrispondente si è lamentato che, per quanto ragionevolmente sicuro che i britannici gli stessero fornendo informazioni false o fuorvianti, le loro storie erano cosí spettacolari da essere costretto a inoltrarle”.

 

Data sconosciuta.
Francisca uscí di prigione dopo molti mesi. Suo padre trovò il modo di usare il suo denaro e la sua influenza per farla rilasciare. Era disorientata, non sapeva che giorno fosse.
In generale, a Giacarta gli atti di violenza non furono feroci come a Sumatra Settentrionale, Giava Centrale e Orientale e Bali, forse perché queste erano le zone in cui il Pki e lo stesso Sukarno avevano il sostegno maggiore e forse perché nella capitale -circondati dalla stampa, dalle élite e dai diplomatici- i militari non potevano trattare le persone di sinistra come facevano con la gente comune lontano dalla città. Ma il mondo che Francisca scopri dopo il suo rilascio era comunque devastante.
La sua casa era stata coperta di scritte violente, imbrattata con “G30S”, la sigla del Movimento 30 settembre. Finalmente riuscì a vedere i suoi bambini. Stavano bene ma scoprì che un giorno la più grande era stata portata via da scuola dai militari, messa in un camion e portata a piazza dell'indipendenza dove fu costretta a mettersi in riga e gridare: “Abbasso Sukarno! Abbasso Sukarno!”
Sapeva che lo slogan era rivolto contro il padre e la madre, che erano scomparsi, perché stavano da quello che ora era considerato il lato sbagliato della storia.
Nessun amico di Francisca voleva parlare più con lei. In effetti, nessuno parlava più con nessun altro. I giorni delle discussioni letterarie e delle lezioni di lingua con intellettuali progressisti di tutto il mondo erano finiti: le regole di condotta erano cambiate.
“Non ci si poteva fidare di nessuno”, ricorda Francisca. “Usavano persone appartenenti a qualsiasi organizzazione per fare la spia ai colleghi. Molti non riescono a sopportare gli abusi, crollano e tradiscono gli amici. Meno sai meglio è”.
Zain non c'era. Non uscì mai di prigione.

 

 

......

 

 

Un barlume di luce.

 

Gran parte della stampa occidentale si limitò a ripetere la narrativa spacciata dal nuovo governo indonesiano che Washington stava accogliendo con entusiasmo sulla scena internazionale. Più o meno la storia era che, quando la gente aveva scoperto cosa avevano fatto o pensavano di fare i comunisti, c’erano stati episodi di violenza spontanea. Gli articoli scrissero che la gente del posto era diventata amok -“in preda a incontrollabile violenza”- e si era data agli spargimenti di sangue. I giornalisti occidentali usarono la parola amok, di origine malay (la lingua che costituisce la base delle lingue indonesiana e malese) per facilitare l’impiego di stereotipi che dipingevano gli asiatici come primitivi, arretrati e violenti e così dare la responsabilità delle violenze a loro presunte intemperanze improvvise e incontrollate.
Il 13 aprile 1966 C. L. Sulzberger firmò un articolo per il New York Times, uno dei molti del genere, dal titolo “Quando una nazione diventa violenta”. Nella descrizione di Sulzberger, i massacri accadevano in un’Asia “violenta, dove la vita non vale niente”. Il giornalista ribadiva le menzogne secondo le quali il 1 ottobre i membri del Partito comunista avevano ucciso i generali e le donne Gerwani li avevano mutilati e torturati e arrivò a scrivere che “gli indonesiani sono gentili (…) ma i loro sorrisi nascondono quella strana inclinazione malese, quell’intima e irrefrenabile sete di sangue che ha dato alla lingua inglese uno dei pochi termini di origine malay: amok”.
Con l'anglicizzazione amok è passato a significare genericamente un tipo di violenza incontrollata anche se il senso malay, e ora indonesiano, del termine in realtà si riferisce a una forma tradizionale di suicidio rituale. Ma non c'è ragione di credere che le violenze di massa del 1965 e 1966 siano scaturite della cultura locale. Nessuno può provare che massacri di questo tipo siano mai successi nella storia indonesiana, a eccezione di occasioni in cui erano coinvolti degli stranieri.
La storia di una violenza inspiegabile e vagamente tribale fu molto facile da credere per i lettori americani, ma era totalmente falsa: fu violenza di Stato, organizzata e con uno scopo preciso. Gli ostacoli principali per portare a completamento il colpo di Stato militare furono eliminati per mezzo di un programma coordinato di sterminio, l'intenzionale omicidio di massa di civili innocenti. I generali riuscirono a prendere il potere dopo che il terrore di Stato aveva sufficientemente indebolito gli oppositori politici che non avevano armi, solo il consenso della gente. Gli oppositori non riuscirono a contrastare il proprio annientamento perché non avevano idea di quello che stava per succedere.
Si stima che siano state massacrate dalle cinquecentomila al milione di persone e che un milione di persone venne mandato nei campi di concentramento. Sarwo Edhie, l’uomo che a marzo tese l’imboscata a Sukarno, una volta si vantò che i militari avessero ucciso tre milioni di persone. C'è un motivo per cui dobbiamo accontentarci di stime: per più di cinquant’anni il governo indonesiano ha resistito a tutti i tentativi di documentare quello che era successo e nessuno al mondo si preoccupava molto di insistere. Milioni di persone furono vittime indirette dei massacri ma nessuno ha mai chiesto loro quante persone care abbiano perso.
Lo scopo delle violenze era il loro silenzio. Le forze armate non sovraintesero allo sterminio di ogni singolo comunista, presunto comunista o simpatizzante comunista del paese: sarebbe stato quasi impossibile, visto che circa un quarto del paese aveva una qualche affiliazione con il Pki. Una volta che i massacri presero piede diventò estremamente difficile trovare qualcuno che ammettesse di avere qualsiasi associazione con il Pki.
Circa il quindici per cento delle persone prese prigioniere furono donne. Furono sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere che scaturivano direttamente dalla propaganda diffusa da Suharto con l’aiuto dell'Occidente. Sumiyati, l'esponente di Gerwani che da ragazza abitava vicino a Sakono, sfuggì alla polizia per due mesi prima di costituirsi. Le fecero bere l'urina dei suoi aguzzini. Ad altre donne tagliarono i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano diffusi ovunque. Si è discusso se le uccisioni di massa in Indonesia si potessero definire “genocidio” ma il dibattito si è concentrato soprattutto sul significato del termine, non su quello che accadde. Nella stragrande maggioranza dei casi le persone furono uccise per il loro credo politico o per essere accusate di avere il credo politico sbagliato. E vero anche che alcuni assassini usarono il caos per risolvere questioni personali e che migliaia di persone vennero ammazzate con motivazioni razziali, cosa che vale soprattutto per la popolazione di origine cinese. Ma la vasta maggioranza di chi era effettivamente di sinistra non meritava di essere punita più di chi fu accusato ingiustamente di essere associato al Partito comunista.
A eccezione del numero irrisorio di persone coinvolte nella progettazione del disastro del Movimento del 30 settembre, quasi tutti quelli che furono uccisi o imprigionati non avevano assolutamente commesso alcun crimine. Magdalena, il membro apolitico di un sindacato di simpatie comuniste, era innocente. Sakono, un membro attivo della Gioventú del popolo e fervente marxista, era innocente. Il padre di Agung a Bali era innocente. Sumiyati e le altre esponenti del Gerwani erano innocenti. Gli amici d'infanzia di Sakono e i sindacalisti compagni di Magdalena non meritavano di essere uccisi, non meritavano nemmeno una multa. Non avevano fatto assolutamente niente di male.
Furono condannati all’annientamento e quasi tutti quelli vicino a loro furono condannati per tutta la vita al senso di colpa, al trauma e a sentirsi dire che avevano peccato in modo irrimediabile a causa della loro associazione con le fervide speranze della politica di sinistra. Da alcuni documenti desecretati dell’Europa orientale emerge che Zain, il marito di Francisca, era un membro del Comitato centrale. Anche nel caso suo e di persone come lui, ai massimi vertici del Partito comunista, non ci sono prove che fossero colpevoli di qualcosa. Oltre al crimine di sterminio, un Tribunale internazionale del popolo convocato in seguito in Olanda dichiarò i militari indonesiani colpevoli di una serie di crimini contro l'umanità, tra cui tortura, detenzione ingiustificata e protratta in condizioni disumane, lavoro forzato equiparato alla schiavitù e violenza sessuale sistematica. I giudici scoprirono che tutto venne commesso con scopi politici -per distruggere il Partito comunista e poi “sostenere un regime dittatoriale e violento”- con l’assistenza degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell'Australia.
Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti “scomodi” che poi furono uccisi.
La responsabilità principale dei massacri e dei campi di concentramento ricade sui militari indonesiani. Non sappiamo ancora se il metodo impiegato -sparizione e sterminio di massa- fu pianificato molto prima dell’ottobre 1965, forse prendendo spunto da altri casi nel mondo, ose fu progettato sotto una supervisione straniera o se emerse come soluzione man mano che si svolgevano gli eventi. Ma Washington condivide la colpa di ogni omicidio. Gli Stati Uniti contribuirono all’operazione in ogni sua fase, a partire da molto prima dell'inizio dei massacri, fino a che cadde l’ultima vittima e l’ultimo prigioniero politico uscì di galera, decenni dopo, torturato, segnato dalle cicatrici e smarrito. ln diversi momenti di cui siamo a conoscenza –e forse di qualcuno che resta oscuro- Washington fu il motore principale e diede l'impulso fondamentale alla continuazione o all’allargamento dell'operazione.
A partire dagli anni Cinquanta la strategia degli Stati Uniti è stata cercare di trovare un modo per distruggere il Partito comunista indonesiano, non perché stesse prendendo il potere in modo antidemocratico, ma perché era popolare. In linea con l'iniziale strategia di Wisner di confronto diretto nascosto, nel 1958 il governo degli Stati Uniti lanciò attacchi segreti e uccise civili nel tentativo, fallito, di spezzare il paese. Cosi i funzionari americani adottarono il modo di vedere di Howard Jones, più raffinato e adatto al territorio, trasformandolo in una strategia per costruire stretti legami con le forze armate e uno Stato militare anticomunista all'interno dello Stato. L'impegno attivo di John F. Kennedy nel Terzo mondo, soprattutto con i militari, guidato dalla teoria della modernizzazione, fornì la struttura necessaria ad aumentare la forza di questa operazione in Indonesia. Quando Washington abbandonò Jones e la sua strategia che consigliava di lavorare direttamente con Sukarno, diede mandato ai suoi agenti segreti e non-così-segreti di destabilizzare il paese e creare un conflitto. Quando il conflitto arrivò e si presentò l'opportunità, il governo statunitense contribuì alla diffusione della propaganda che rese possibili i massacri e si tenne in continuo contatto con l'esercito per assicurarsi che gli ufficiali militari avessero tutto l'occorrente, dalle armi agli elenchi di persone da uccidere. L'ambasciata degli Stati Uniti spinse costantemente i militari a adottare la posizione più forte e a subentrare al governo, sapendo benissimo che il metodo impiegato per realizzare questo obiettivo era catturare centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, accoltellarle o strangolarle e gettare i loro cadaveri nei fiumi. Gli ufficiali dell’esercito indonesiano capirono molto bene che più persone uccidevano, più la sinistra si sarebbe indebolita e più Washington sarebbe stata contenta.
Fino a un milione di indonesiani, forse di più, sono stati uccisi come parte della crociata anticomunista di Washington. Il governo americano negli anni ha speso risorse ingenti per creare le condizioni di uno scontro violento e, quando la violenza è esplosa, ha assistito e guidato i suoi partner di vecchia data a commettere l'assassinio di massa di civili come mezzo per raggiungere gli obiettivi geopolitici americani.
E alla fine, i funzionari americani hanno ottenuto quello che volevano. E stata un'enorme vittoria.
Con le parole dello storico John Roosa, “quasi da un giorno all'altro il governo indonesiano, prima una voce orgogliosa, contraria all'imperialismo e a favore della neutralità nella Guerra fredda, diventò un partner docile e compiacente dell'ordine mondiale americano”.
Dato il pensiero dominante del tempo, per quasi tutti i membri del governo americano e gli ambienti giornalistici elitari era una cosa da festeggiare. James Reston, un editorialista liberal del New York Times, pubblicò un pezzo intitolato “Un barlume di luce in Asia”. Osservò, giustamente, che “prima e durante il massacro indonesiano, tra le forze anticomuniste di quel paese e almeno un funzionario di Washington di grado molto elevato ci furono molti più contatti di quanto generalmente sia emerso (…). Ci si chiede se si sarebbe mai tentato il golpe senza la dimostrazione di forza americana in Vietnam o se sarebbe stato possibile sostenerlo senza l’appoggio clandestino che ha indirettamente ricevuto da qui”. Reston aggiunge che la “drammatica trasformazione dell'Indonesia da una politica filocinese sotto Sukarno a una politica provocatoriamente anticomunista sotto il generale Suharto è, ovviamente, il piú importante” di una serie di “auspicati sviluppi politici in Asia”, che Reston considera di gran lunga superiori agli insuccessi, più largamente pubblicizzati, di Washington in Vietnam”.
Reston conosceva molto bene l’establishment della politica estera di Washington. Negli anni Cinquanta era stato un assiduo frequentatore delle chiassose cene del sabato sera da Frank Wisner a Georgetown. Non è chiaro con quanta attenzione Wisner seguisse le notizie o se addirittura sapesse che cosa era successo in Indonesia nei suoi ultimi giorni, prima di togliersi la vita.
Per giornalisti come Reston, era una chiara vittoria degli interessi geopolitici degli Stati Uniti, per come li intendeva Washington in quel periodo. E per gli anticomunisti incalliti di tutto il mondo, il metodo che stava dietro a questa “drammatica trasformazione” presto sarebbe stato di ispirazione, un copione da seguire. Ma com'è possibile che la stampa internazionale e il Dipartimento di Stato non siano stati minimamente turbati dal fatto che quella vittoria era stata ottenuta per mezzo dello sterminio di massa di civili indifesi? Howard Federspiel, del Dipartimento di Stato, riassume perfettamente la risposta: “Erano comunisti: a nessuno importava che fossero ammazzati”.

 

 

 

 

 

 

 

 

Arriva Allende, per poco.

 

Nel 1970 Salvador Allende si presentò di nuovo alle elezioni cilene e di nuovo la Cia finanziò una campagna del terrore. Henry Kissinger, consigliere alla Sicurezza nazionale del presidente Richard Nixon, approvò l'uso di centinaia di migliaia di dollari per una missione di guerra politica. “Non vedo perché dobbiamo stare fermi a guardare un paese diventare comunista a causa dell'irresponsabilità della propria gente”, disse Kissinger". L'Agenzia fornì materiale di propaganda a importanti giornalisti e vide pubblicata sulla copertina di Time una storia pesantemente influenzata dalle sue informazioni. In Cile la Cia faceva molto affidamento sul giornale di destra El Mercurio, che l’Agenzia finanziava e pagava perché stampasse manifesti e opuscoli e scrivesse messaggi sui muri della città.
Ma questi sforzi fallirono e la coalizione di Allende, l'Unidad Popular, vinse le elezioni con un margine esiguo. Qualche giorno dopo El Mercurio pubblicò un ampio speciale sul Brasile. Un titolo diceva: “Brasile - domani è oggi". Nei mesi successivi i militari brasiliani iniziarono a escogitare il modo di contribuire alla caduta del socialismo cileno.
Allende era un socialista ma anche un membro dell'élite colta di Santiago. Era un intellettuale marxista a cui piaceva degustare vino rosso in giacche di tweed di seta. Ammirava FidelCastro e lo considerava un vero amico, ma pensava che la via cilena al socialismo poteva essere molto diversa: avrebbe lavorato dall'interno del sistema e approfittato di una tregua della Guerra fredda tra Washington e Mosca che pensava potesse dare spazio alla “via Chilena” pacifica verso il socialismo.
Dopo la sua elezione, Richard Nixon aveva cercato la “distensione” con l'Unione Sovietica. La conseguenza fu che le due superpotenze facevano finta di ignorare le loro divergenze ideologiche. Ma la distensione, si scoprì, non valeva per il Terzo mondo.
Il caos e la violenza in Cile non furono causati dal presidente Salvador Allende né dal fallimento del suo progetto socialdemocratico. Il terrorismo sostenuto dagli Stati Uniti iniziò ancora prima che Allende assumesse la carica.
Per la legge cilena l'elezione di Allende doveva essere ratificata dal Congresso e per la tradizione cilena la ratifica era una formalità, ma Nixon la pensava diversamente e ordinò al capo della Cia di trovare un modo per impedire ad Allende di prendere il potere. Richard Helms uscí dalla riunione con gli ordini di Nixon appuntati su un taccuino:
“1 probabilità su 10, forse, ma salviamo il Cile! (…)
a disposizione 10.000.000 di dollari, di piú se necessario (…) 
gli uomini migliori che abbiamo
fate urlare l 'economia”.
Nel 1970, mentre Allende era in attesa di entrare in carica, la Cia iniziò a operare in Cile su due “percorsi”. Il “Percorso Uno” era guerra politica, pressione economica, propaganda e mosse diplomatiche. Gli agenti della Cia provarono a corrompere politici cileni e a terrorizzare la popolazione. Se tutti i tentativi fossero falliti, avrebbero “condannato il Cile alla miseria e alla povertà peggiori”, disse a Kissinger l'ambasciatore Edward Korry, con la speranza “di costringere Allende a adottare aspre misure da Stato di polizia”. Volevano che Allende rinunciasse alla democrazia. Il “Percorso Due” era un colpo di Stato militare. La Cia iniziò a complottare con ufficiali di destra e a finanziare un gruppo di radicali che sarebbero diventati Pátria y Libertad, un gruppo terrorista anticomunista noto per il suo orribile logo che raffigurava un ragno stilizzato e per le simpatie per il fascismo.
Come per le prime incursioni di Frank Wisner nell’Europa orientale o il bombardamento dell'Indonesia, l'operazione della Cia in Cile nel 1970 si rivelò un completo disastro.
René Schneider, comandante in capo delle forze armate del Cile, era un constitucionalista, vale a dire che credeva che i militari non dovessero mai oltrepassare il proprio ruolo costituzionale. Allende aveva vinto le elezioni, quindi doveva diventare presidente: il suo insediamento poteva essere impedito da un golpe militare, ma Schneider era decisamente contrario. La sua posizione su questo punto era così intransigente che divenne nota come la Dottrina Schneider. Ma per quanto riguardava la Cia e i cospiratori di destra, questo significava anche che doveva essere eliminato. Il 25 ottobre 1970 un gruppo di uomini armati lo uccise nel corso di un tentativo di rapimento. Il piano era dare la colpa ai sostenitori di sinistra di Allende, in modo da fornire il pretesto per un colpo di Stato militare anticomunista.
Per il Cile, tranquillo e democratico, l’attentato fu un trauma nazionale inimmaginabile. I terroristi avevano assassinato il capo delle forze armate per cercare di sovvertire un’elezione.
Le cose non andarono esattamente secondo i piani della Cia. Probabilmente Schneider non doveva essere ucciso. Forse il gruppo sbagliato aveva attuato il piano sbagliato nel momento sbagliato. All'inizio l'Agenzia non sapeva nemmeno quale dei partner locali avesse eseguito l'operazione. Cosa più importante, in Cile tutti scoprirono chi c’era dietro. Invece di dare la colpa alla sinistra, giustamente vennero ritenuti responsabili i terroristi di destra; i militari cileni si unirono con ancora più entusiasmo alla posizione constitucionalista. Allende sarebbe diventato presidente.
Ma c’è una domanda fastidiosa che è difficile non porsi: e se l'operazione non fosse fallita? E se fossero riusciti a incolpare del rapimento i sostenitori di Allende appartenenti alla sinistra radicale, anche se per loro un'azione del genere sarebbe stata del tutto inutile per prendere il potere? Oggi crederemmo ancora che fosse andata così? Nel centro di Santiago ci sarebbe un monumento anticomunista a Schneider come quello di Giacarta?
Invece fu uno dei più clamorosi fallimenti della Cia. Nixon era furioso. Allende salì alla presidenza il 3 novembre 1970. Per i giovani di sinistra cileni fu un momento di inimmaginabile entusiasmo. Carmen Hertz era sulle posizioni del Mir, il contingente della sinistra cilena più giovane e radicale che ufficialmente non credeva nella politica elettorale, ma votò lo stesso per Allende, come fecero molti suoi amici.
Quando venne annunciata la vittoria di Allende, “fu fantastico. Ci riversammo nelle strade, come tutti”, ricorda Carmen. “Quando alla fine tornammo a casa eravamo pieni di speranza e di gioia, eravamo persino in una specie di estasi spirituale”.
Ce l'avevano fatta. E l'avrebbero fatto. Carmen ricorda: “Ero convinta -come tutti quelli che frequentavo- che avremmo cambiato il mondo”.
Allende credeva nel movimento del Terzo mondo e molti dei suoi sostenitori credevano che la rivoluzione globale fosse imminente e sarebbe stata guidata dal Sud del mondo. Poco dopo la presa del potere di Allende, il Cile entrò nel Movimento dei paesi non allineati e divenne sempre più attivo nelle organizzazioni terzomondiste.
Fidel consigliò ad Allende di non attaccare briga con Washington e lo stesso fece l’economista Orlando Letelier, un membro della “sinistra elegante”, che lavorava nella Banca interamericana di sviluppo. Castro disse anche ad Allende di non “innescare” la rivoluzione continentale e di non essere “troppo rivoluzionario” per non provocare inutilmente gli Yankees. Per questo motivo non presenziò alla cerimonia inaugurale di Allende: Fidel sapeva che era meglio non stuzzicare troppo i gringos.
Come in Guatemala, era chiaro che cosa Washington considerasse la vera minaccia in Cile e non era l'alleanza con l'Unione Sovietica, e in effetti, Allende andò a Mosca e tornò quasi del tutto a mani vuote.
I sovietici continuavano a considerare l’America Latina sotto la sfera di influenza di Washington e mantenevano la loro vecchia visione ortodossa secondo la quale la rivoluzione sarebbe progredita per gradi nell'emisfero occidentale. Allende si era opposto alle azioni aggressive da parte dell’Unione Sovietica sulla scena internazionale: aveva condannato l’invasione dell’Ungheria del 1956 e l'intervento di Mosca in Cecoslovacchia del 1968.
Washington non era nemmeno preoccupata che l'economia del Cile sarebbe stata distrutta da una cattiva gestione di sinistra o che Allende avrebbe danneggiato gli interessi americani. Quello che spaventava la nazione più potente del mondo era la prospettiva che il socialismo democratico del presidente cileno funzionasse.
Pochi giorni dopo l’elezione di Allende il presidente Nixon riunì il Consiglio di sicurezza nazionale e disse:
“La nostra maggiore preoccupazione in Cile è (…) che (Allende) possa consolidare la sua posizione e che al mondo venga trasmessa l'immagine del suo successo. (…) Se lasciamo che i potenziali leader sudamericani pensino di potersi muovere come il Cile e avere la botte piena e la moglie ubriaca, avremo problemi. Voglio lavorare su questo e sulle relazioni militari - metterci più soldi. Dal punto di vista dell'economia, vogliamo dare un taglio drastico (sic) (…). Saremo molto calmi e corretti, ma fare queste altre cose sarà un messaggio forte per Allende e gli altri. (…) Non possiamo permettere che in America Latina pensino di riuscire a farla franca”.
Dopo l'insediamento di Allende, la Casa Bianca spinse per stringere di più le relazioni con il Brasile come modo per compensare quella che veniva percepita come una minaccia da parte del Cile. In quegli anni il Brasile, contrario ad Allende in modo ancora più feroce degli Stati Uniti, esortò questi ultimi a farsi coinvolgere di più negli affari sudamericani perché stavano lavorando per gli stessi obiettivi.
Nel 1971, l’anno in cui i militari brasiliani iniziarono a far “sparire” i dissidenti, la dittatura di Médici contribuì a rovesciare il governo boliviano e a instaurare la dittatura di destra del generale Hugo Banzer. Esistono prove che indicano che Brasilia e Washington fornirono denaro e assistenza per l’attuazione del golpe di agosto.
Pochi mesi dopo si votò in Uruguay. Sembrava che potesse vincere la coalizione di sinistra Frente Amplio, quindi il Brasile spostò delle truppe al confine e segretamente interferì nelle votazioni. Le autorità concessero la vittoria al Partito Colorado, di destra e già al potere.
Negli ultimi giorni del 1971 Medici incontrò Nixon a Washington. Il leader brasiliano disse al presidente che il suo regime era in contatto con ufficiali militari cileni e stava lavorando per rovesciare Allende. “Non dovremmo perdere di vista la situazione in America Latina: potrebbe esplodere da un momento all’altro”. Medici disse anche che il Brasile poteva offrire assistenza all’organizzazione di un “milione” di esuli cubani per combattere Castro ed esortò gli Stati Uniti a essere più attivi in Sudamerica. Questo non perché pensasse che i russi stessero tramando qualcosa, proprio l’opposto: Médici è stato registrato mentre diceva che “credeva che i sovietici o i cinesi non fossero interessati a dare alcuna assistenza ai movimenti di sinistra di quei paesi perché pensavano che le loro condizioni di povertà e miseria avrebbero portato il comunismo ad affermarsi da solo”.
In altre parole, il problema dei due uomini non era una cospirazione comunista internazionale. Il problema era che pensavano che i sovietici e i cinesi potessero aver ragione: la gente povera dei paesi vicini al Brasile avrebbe potuto scegliere il “comunismo” per proprio conto e doveva essere fermata.
Nixon fu molto colpito da Médici. In privato disse al segretario di Stato William Rogers che avrebbe voluto che Médici “fosse a capo di tutto il continente”. Poi al ricevimento di commiato prima che il generale lasciasse gli Stati Uniti, Nixon fece un brindisi in cui proclamò: “Dove va il Brasile, l'America Latina seguirà”.
Quello stesso anno negli Stati Uniti l’ex ambasciatore Howard P. Jones pubblicò le sue memorie sull'Indonesia, The Possible Dream, in cui rifletteva sui fallimenti della politica statunitense in Asia. Non fece un gran colpo sull'opinione pubblica. Nello stesso tempo il mondo stava assistendo a un altro massacro anticomunista. Il Partito comunista del Sudan, il maggiore dei partiti comunisti che restavano dall’era di Bandung (negli anni Sessanta era al terzo posto, dietro ai partiti di Iraq e Indonesia, entrambi annientati nel frattempo), tentò un colpo di Stato contro un nuovo regime che stava tentando di distruggerlo. Quando il golpe fallì, il governo di Ja’far al-Nimeyri liquidò l'opposizione: l'ordine fu di “distruggere chiunque dichiarasse l'esistenza di un partito comunista sudanese”. Neanche questo fece una grande impressione sull`opinione pubblica occidentale.

 

 

 

 

Operazione Giacarta.


Con la collaborazione del governo brasiliano con le forze di destra cilene, la parola “Jacarta” venne usata in modo nuovo: in entrambi i paesi il nome della capitale dell'lndonesia ora aveva lo stesso significato.
Secondo la Comissão Nacional da Verdade, la Commissione nazionale per la verità del Brasile, l'Operação Jacarta fu il nome della parte segreta di un piano di sterminio. Testimonianze raccolte dopo la caduta della dittatura indicano che l’Operação Jacarta potrebbe aver fatto parte dell’Operação Radar, che aveva la finalità di distruggere la struttura del Partito comunista brasiliano. L'obiettivo dell’Operação Iacarta era l'eliminazione fisica dei comunisti. Prevedeva l'omicidio di massa, proprio come in
Indonesia. Prima dell'Operazione Giacarta la dittatura aveva indirizzato la propria violenza alle ribellioni esplicite. L’Operação Jacarta era un piano segreto per allargare il terrorismo di Stato ai membri del Partito comunista che lavoravano alla luce del sole con gruppi della società civile o nei media.
I brasiliani avrebbero sentito le parole Operação Jacarta solo tre anni più tardi, ma l'ingresso pubblico del nome “Jacarta” in Cile fu molto evidente.
Nei dintorni di Santiago, specialmente nella parte orientale della città -sulle colline, dove vivevano le persone benestanti- qualcuno iniziò ad affiggere manifesti sui muri. Il messaggio era riportato in alcune forme diverse:
YAKARTA VIENE
JACARTA SE ACERCA
Vale a dire: “GIACARTA STA ARRIVANDO”.
O c’era scritto semplicemente “JACARTA”.
Gli eventi in Indonesia facevano parte da anni del discorso della destra. Il caso più significativo è quello di Juraj Domic Kuscenic -un anticomunista croato che scriveva su pubblicazioni di destra come El Mercurio e dal 1970 aveva stretti rapporti con Pátria y Libertad- che sin dagli anni Sessanta faceva spesso riferimento ai fatti indonesiani.
Il primo documento in cui Giacarta compare come una minaccia è un numero del 1972 di “El Rebelde”, l'organo ufficiale del Mir. La copertina chiedeva “Che cos'è Giacarta?” e all'interno c’era un'immagine del mondo sbattuto contro un muro. Nello stesso articolo, La Via Indonesia de Los Fascistas Chilenos, il giornale cercava di spiegare che cosa significasse il messaggio. Il Partito comunista indonesiano aveva avuto un ruolo attivo in uno Stato “indipendente e progressista” e poi, nel giro di una notte, tutto ciò che restò ai suoi membri fu un “mare di sangue”. In quel momento non tutta la sinistra era a conoscenza della storia indonesiana e l'idea di un'ondata di violenza sembrava inverosimile.
Il secondo articolo su Giacarta uscì nel febbraio 1972 su “Ramona”, una rivista dei giovani del Partito comunista. Il pezzo affermava che la destra aveva adottato un “Piano Giacarta” e che il piano gli era stato fornito da David Rockefeller o da Agustin Edwards (il proprietario di El Mercurio). “L'estrema destra cilena vuole ripetere quel massacro”, spiegava l'articolo. “Che cosa significa concretamente? I terroristi hanno un piano che consiste nell'uccidere l`intero Comitato centrale del Partito comunista, i vertici del Partito socialista, i dirigenti nazionali del Cut -il sindacato Central Unitaria de Trabajadores de Chile- i leader dei movimenti sociali e tutti gli esponenti di spicco della sinistra”. L'articolo fu pubblicato il 22 febbraio a firma di Carlos Berger, il membro del Partito comunista che discuteva con Carmen Hertz sulle tattiche della sinistra e il significato del massacro indonesiano quando lei tornò all'Università del Cile. Ora Carlos e Carmen Hertz erano marito e moglie.
All'inizio degli anni Settanta a Santiago le immagini sui muri erano uno strumento politico molto comune. A sinistra, collettivi di volontari dipingevano elaborati murales creati da giovani artisti ispirati sia da artisti famosi come il messicano Diego Rivera che dalla cultura indigena mapuche. A destra, il denaro che arrivava copioso da Washington o dalle élite locali veniva usato per assumere pittori professionisti, più efficienti e con meno talento, dato che erano abituati a realizzare semplici messaggi pubblicitari. Patricio “Pato” Madera, membro fondatore del gruppo di muralisti di sinistra Brigada Ramona Parra, capì che la scritta “JACARTA” era opera degli stessi artisti a pagamento che avevano realizzato gli slogan delle campagne del terrore ricorrenti dal 1964. Ma questa fu un’escalation: era una minaccia di morte di massa.
Oltre a dipingere muri, spedivano cartoline. Arrivavano a casa di funzionari di sinistra del governo e di membri del Partito comunista.
Nel 1972, un giorno Carmen Hertz e suo marito ne ricevettero una. La carta era sottile e fragile. In alto c'era scritto “GIACARTA STA ARRIVANDO”. In fondo c'era il ragno geometrico del logo di Pátria y Libertad.
La campagna del terrore funzionò. Carmen e Carlos vivevano nell’angoscia ventiquattro ore su ventiquattro. Erano in “massima allerta” permanente. Tutto intorno a loro era sabotaggio, minaccia e aggressione. Non ancora trentenne, Carmen era stata assunta come avvocato nel programma di riforma fondiaria di Allende e aveva visto quanto poteva essere violenta l'opposizione. Oltre all'attività di partito e al giornalismo, Carlos dava una mano con le pubbliche relazioni al ministero delle Finanze. Entrambi sospettavano che Washington stesse intenzionalmente distruggendo l’economia. E consapevoli delle minacce domestiche, spesso dormivano al lavoro. Stavano a casa solo ogni tanto e mai per molti giorni di seguito. Per strada spesso si confrontavano con membri di Tradición, Família y Propriedad (Tfp), la sezione cilena del gruppo anticomunista fondato nel 1960 in Brasile. A Santiago i giovani del Tfp vestivano tuniche in stile medievale e spesso protestavano nelle strade, pronti a urlare contro Carmen. Ma quando ricevette la cartolina “YAKARTA SE ACERCA”, Carmen sentì che il pericolo era imminente.
Dopo averla letta sentì un colpo violento alla porta e poi qualcuno gridare: “Comunista!” Gridò anche lei. Prese in braccio il suo bambino appena nato, Germàn, afferrò una pistola che teneva nascosta in casa e corse in strada puntando la pistola avanti e indietro all'impazzata. Sparò in aria. Si rese conto solo più tardi, quando il suo cuore smise di battere così furiosamente, che mentre sparava aveva ancora in braccio Germàn. Quella notte non poteva dormire a casa e cercò di prendere un autobus per andare alla casa di famiglia di Carlos, ma non ne passò nessuno, così camminò per le gelide strade di Santiago con il suo bambino stretto in braccio.
Le fratture della società cilena spaccarono in due la famiglia di Carmen. Sapeva che sua madre, che amava, forse aveva più simpatie per la destra di quante non ne avesse per sua figlia. Era sempre il paziente Carlos a provare a tenere insieme il rapporto tra madre e figlia, era lui a insistere per andare a trovare la nonna di Germán, che scherzava per provare a calmarle quando inevitabilmente litigavano.
Ma Carmen e Carlos pensavano che la storia fosse dalla loro parte. Erano in lotta, certo, ma stavano rispettando le regole e avevano persone dietro di loro: pensavano che avrebbero vinto. Credevano anche che il paese stesse subendo un sabotaggio da parte di paesi stranieri e su questo avevano certamente ragione. La Cia, al lavoro coni suoi partner di estrema destra, stava cercando di mandare in rovina l'economia e faceva del suo meglio per far sembrare che fosse colpa di Allende.
Il problema più grave per il governo probabilmente fu lo sciopero nazionale dell’ottobre 1972. I camionisti -che indirettamente stavano ricevendo finanziamenti da Washington- bloccarono i trasporti, cosa che fece mancare alle persone i beni di prima necessità. Quando lo sciopero iniziò, la Cia fece di tutto perché continuasse.
Ma non si trattava solo di sabotaggio economico. “Il Percorso Due non fu mai veramente abbandonato”, disse un funzionario della Cia, intendendo che dal 1970 l’Agenzia non aveva mai smesso di cercare il modo di organizzare un colpo di Stato. Gli appunti presi dal funzionario in quei giorni registrano Kissinger chiedere: “Visto che Allende si sta facendo passare per un moderato, perché non sosteniamo gli estremisti?”
Per destabilizzare un paese non serve una precisione chirurgica, va benissimo un grosso martello. Presto il Cile cadde nel caos e di conseguenza Allende fu costretto a cancellare la sua annunciata partecipazione alla Conferenza del Movimento dei paesi non allineati in Algeria.
Ma c'erano ancora due problemi cruciali. Il primo era che Allende sarebbe stato in carica almeno altri tre anni e la sinistra godeva ancora di un grande sostegno popolare, una situazione analoga però non aveva fermato il golpe in Brasile. Il secondo problema, il vero ostacolo, era che anche Carlos Prats, l'uomo che aveva sostituito René Schneider a capo delle forze armate, era un constitucionalista. Vedeva che c’era una crisi economica e che i conservatori chiedevano a gran voce un colpo di Stato militare, ma restava leale alla Dottrina Schneider e alla democrazia e così rifiutò di disattendere il ruolo che gli prescriveva la legge. Allende restò al potere.

(...)

 

 

 

 

“Marineros Constitucionalistas”.


All'inizio del 1973 Pedro Blaset aveva ventitré anni e faceva il marinaio semplice nella marina cilena, tradizionalmente conservatrice e upper-class. Ebbe la fortuna di trovare un imbarco di sei mesi su un incrociatore diretto in Europa e non assistette alla radicalizzazione del suo paese. In Europa lui e i suoi compagni furono molto colpiti dalla liberalità con cui erano organizzate le altre flotte militari in confronto con la severa tradizione prussiana di quella cilena, Quando prese servizio la prima volta dovette subire atti di nonnismo e venne picchiato. E quando nel 1970 festeggiò con alcuni amici la vittoria di Allende, ricevette una lavata di capo. Gli ultraconservatori ufficiali di marina, che di solito avevano frequentato scuole private e si sentivano degli aristocratici, non gradivano particolarmente neanche il governo di Eduardo Frei appoggiato dalla Cia. Secondo quello che aveva capito Blaset, il loro problema principale era che le modeste riforme proposte dal governo avrebbero portato i membri della classe media a frequentare le scuole dell’alta società e che quindi i loro figli sarebbero stati costretti a studiare con persone a loro inferiori.
Ma quando Pedro tornò a Santiago nel febbraio 1973, le cose erano cambiate. La marina probabilmente era il corpo più anticomunista delle forze armate e i suoi colleghi non nascondevano le loro simpatie: gli ufficiali di alto rango parlavano della loro collaborazione con l’ambasciata brasiliana; dicevano di fornire armi a Pátria y Libertad; criticavano ferocemente il capo dell'esercito Prats per la sua posizione costituzionalista, soprattutto dopo che la sinistra ottenne buoni risultati alle elezioni di marzo, e iniziarono a parlare piuttosto apertamente di qualcosa chiamato “El Plan Yakarta”.
Pedro aveva già sentito racconti su Giacarta. Non molto dopo il suo ingresso in marina nel 1966, alcuni marinai iniziarono a raccontare storie dell’orrore su un viaggio particolarmente strano nel Sud-est asiatico. Dicevano che avevano visto la carneficina causata da un programma di “sterminio” nella capitale indonesiana. I giovani marinai ascoltavano terrorizzati i racconti provenienti da una terra lontana che parlavano di incredibili violenze e teste impalate.
Ma quando nel 1973 i suoi superiori iniziarono a parlare di “El Plan Yakarta”, erano molto specifici e molto seri: il piano era uccidere circa diecimila persone, la sinistra e i suoi sostenitori principali, in modo da assicurare una transizione stabile verso un governo di destra. Pedro e il suo amico Guillermo Castillo sentirono queste discussioni su più di una nave.
“Attuiamo il Piano Giacarta, uccidiamo dieci o ventimila persone ed è fatta”, disse un ufficiale. “Così eliminiamo la resistenza e vinciamo”. Forse i loro superiori pensavano che i loro sottoposti condividessero questa strategia o almeno rispettassero la gerarchia abbastanza da mantenere il silenzio.
Ma per i marinai di basso rango non era normale. “Chi dicono che vogliono uccidere? Le nostre famiglie?” Pedro chiedeva ai suoi amici più stretti. “Cosa è successo al Cile mentre non c'ero?”
Decisero di mettersi insieme per formare un piccolo gruppo clandestino constitucionalista all’interno della marina e parlare della situazione. Pensavano di aver fatto giuramento di fedeltà alla patria, non ai loro immediati superiori, e così decisero di mettere in allarme i politici.
Furono scoperti. Pedro e Guillermo vennero incarcerati dalla marina e torturati ripetutamente. Non avrebbero visto la luce del giorno fino a molto tempo dopo l'attuazione della versione cilena del Plan Yakarta.
Operação Jacarta, Yakarta Viene, Plan Yakarta. Nei tre modi in cui venne usata la parola, in spagnolo e in portoghese, il significato di “Giacarta” è chiaro ed è ben lontano da quello del 1948, quando l'amministrazione Truman era guidata dall'”assioma Giacarta”. Allora “Giacarta” indicava uno sviluppo indipendente del Terzo mondo che Washington aveva bisogno di considerare una minaccia. Ora “Giacarta” significava qualcosa di molto diverso. Significava omicidio di massa di comunisti. Significava lo sterminio organizzato dallo Stato dei civili che si opponevano alla costruzione di regimi autoritari capitalisti leali agli Stati Uniti. Significava sparizioni e irriducibile terrore di Stato. E nei successivi due decenni sarebbe stato largamente impiegato in tutta l'America Latina.

 

 

 

 

Operazione Condor.


Nel 1973 Allende cadde. Morì e con lui morì il sogno cileno del socialismo democratico. Prese il suo posto un violento regime anticomunista che lavorò con il Brasile e gli Stati Uniti per formare una rete internazionale di sterminio. Il loro terrore omicida non fu riservato solo alla sinistra: venne scatenato anche contro gli ex alleati che si mettevano di mezzo.
Nei mesi precedenti all'11 settembre 1973 il Cile aveva molto in comune con il Brasile del 1964: gruppi del settore privato finanziavano fazioni dell'opposizione, gruppi per la “tradizione” e la “famiglia” organizzavano proteste e i media di destra diffondevano la paura di complotti di sinistra in realtà inesistenti. La Cia alla fine del 1972 riferì che alcuni settori dell’opposizione cilena stavano ricevendo dalla dittatura brasiliana “assistenza economica e armi come mitragliatrici e granate”.
Nei giorni successivi all'11 settembre 1973, però, il Cile era diventato più simile all’lndonesia del 1965, anche se a scala minore all'inizio. Il governo militare brasiliano avanzava verso il terrore lentamente, ma la dittatura del generale Augusto Pinochet esordì con violenza esplosiva.
Il primo tentativo di colpo di Stato avvenne in giugno. Il Tanquetazo, come venne chiamato, fallì soprattutto perché il capo delle forze armate, Carlos Prats, represse la ribellione dei militari alleati di Pátria y Libertad. Prats non aveva intenzione di stare a guardare mentre l'esercito cileno tradiva il suo mandato storico.
Nelle settimane che seguirono, pubblicazioni di sinistra iniziarono a raccontare che, se il tentativo di golpe fosse riuscito, Pátria y Libertad e altre forze di destra progettavano di attuare il Plan Yakarta. Sembra che avessero ragione di essere preoccupati: un politico di destra, Domingo Godoy Matte, del Partito nazionale, si alzò in Parlamento per dichiarare che loro -i nazionalisti- “estaràn aquí basta que se produzca el Yakarta” (resteranno lì finché non sarà attuata Giacarta). La dichiarazione suscitò un'ondata di sconcerto e di condanna da parte del centro e della sinistra. Su una serie di testate apparvero accuse furiose che attribuivano alla destra la pianificazione di “omicidi di massa. Il giornale del Partito socialista mostrò una cartolina ricevuta dal direttore con le parole “GIACARTA STA ARRIVANDO”. Il giornale accusò gli Stati Uniti.
Curiosamente i media di destra cominciarono a pubblicare una versione rovesciata del meme terroristico “GIACARTA”: El Mercurio, il giornale finanziato dalla Cia, scrisse che i comunisti avevano massacrato i generali in Indonesia e avrebbero potuto fare la stessa cosa anche in Cile.
Nel 1970 Castro aveva consigliato Allende di non provocare gli Stati Uniti, ma per questo ormai era troppo tardi. Intorno al presidente cileno il terrore e le cospirazioni della destra crescevano e Castro gli suggerì di adottare una linea più dura. Disse che Allende aveva lasciato troppa libertà all'opposizione ed era troppo riluttante a usare la violenza per far progredire la rivoluzione. Lo avvertì che si annunciava un confronto tra “socialismo e fascismo” e se la sinistra cilena non avesse seguito i suoi consigli non sarebbe sopravvissuta. Ma il governo di Unidad Popular di Allende restò fedele al socialismo democratico.
In luglio i terroristi di destra uccisero un altro ufficiale, Arturo Araya, aiutante di campo di Allende, mentre era affacciato al balcone di casa sua.
Ad agosto Carlos Prats ormai aveva capito che su di lui c'era troppa pressione: forti elementi dell’esercito volevano il colpo di Stato, lo voleva la maggioranza delle classi dirigenti –come era evidente dai gruppi di mogli di militari che protestavano davanti a casa sua- e sembrava che i terroristi di destra, scatenati, avrebbero preferito uccidere il generale Prats piuttosto che lasciare che Allende finisse il suo mandato. E questi tre gruppi avevano l'appoggio del più potente governo della storia. Ma Prats non avrebbe dato loro il golpe: il 23 agosto rassegnò le dimissioni e si preparò a partire per Buenos Aires.
Fu sostituito da Augusto Pinochet, un generale insignificante e di poche parole, leale a Prats, e che poche settimane prima non aveva mostrato nessuna particolare inclinazione per il colpo di Stato. Dopo il fallimento del Tanquetazo di giugno, Pinochet aveva detto a un incontro con dei cospiratori che non voleva “parlare di politica perché sarebbe contro la Costituzione.
Il 9 settembre Carlos Altamirano, il leader del Partito socialista, tenne un discorso allo Stadio nazionale di Santiago in cui lesse una lettera consegnata al governo dal gruppo constitucionalista dei marinai, come Pedro Blaset e Guillermo Castillo, che lanciava l’allarme sui piani per un colpo di Stato in agosto.
“Per noi è di vitale importanza evitare l’enorme massacro che hanno progettato di compiere contro il popolo l’8 e il 10 agosto, diceva la lettera. “I nostri capi ci hanno spiegato che, per una ragione o per l'altra, il governo marxista deve essere rovesciato e il popolo ripulito dai leader marxisti. Secondo loro a tutti i leader di sinistra verrà senz'altro applicato “il Piano Giacarta”. Ormai il significato di “Piano Giacarta” era chiaro alla maggior parte dei cileni di sinistra ed era anche chiaro che fosse imminente un colpo di Stato: il discorso di Altamirano era: più un omaggio al coraggio dei marinai che una rivelazione.
Due giorni più tardi, l'11 settembre, Salvador Allende capì cosa stava per succedere. Si barricò alla Moneda, il palazzo presidenziale, e rivolse un ultimo messaggio radiofonico ai suoi sostenitori:
“Di certo questa è l'ultima volta che posso rivolgermi a voi. L'aviazione sta già bombardando i trasmettitori (…).
Pagherò con la vita la mia fedeltà al popolo. Ma dico a tutti voi che sono sicuro che il seme che abbiamo piantato nella coscienza di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere soffocato per sempre. (…)
Viva Chile! Viva el pueblo! Vivan los trabajadores!"
Queste sono le mie ultime parole ma sono sicuro che il mio sacrificio non sarà invano”.
Mise a tracolla la sua mitragliatrice (un regalo di Fidel Castro) e indossò un elmetto militare. Mentre l'aviazione cilena bombardava il palazzo presidenziale e mitragliava i quartieri poveri che pensava potessero sollevarsi per difendere il presidente, Allende si sparò in testa.
Quella notte la nuova giunta militare fece capire in modo estremamente chiaro quale fosse l’ideologia che aveva spinto la loro violenta ascesa al potere. In un discorso televisivo alla nazione, il generale Jorge Gustavo Leigh, uno dei quattro membri della giunta, disse: «Dopo tre anni di supporto al cancro marxista (…) ci consideriamo in obbligo, nel sacro interesse della nostra nazione, di accettare la triste e dolorosa impresa che abbiamo intrapreso. (…) Siamo pronti a combattere il marxismo e vogliamo sradicarlo in modo definitivo”.
Gli omicidi e le sparizioni iniziarono subito.
Ancora una volta, l’ideologia su cui si fondava un nuovo e sanguinario regime del Sud del mondo era il fanatismo anticomunista. A livello internazionale la junta fu una fedele alleata degli Stati Uniti ma a livello locale il suo riferimento era il Brasile. I militari cileni iniziarono a istituire una dittatura e a giustificare la propria esistenza.
Il 22 settembre, Tribuna, il giornale del Partito nazionale cileno, pubblicò una curiosa intervista rilasciata dal generale Ernesto Baeza Michelsen. Si mise in posa per una foto con una cartolina identica a quella ricevuta a casa da Carmen Hertz e Carlos Berger. Sulla cartolina c'era scritto “GIACARTA STA ARRIVANDO”. In questo caso, però, il generale disse che era stata la sinistra a spedire il minaccioso messaggio a onesti ufficiali conservatori. Secondo questa storia -ora appoggiata da tutto il peso della dittatura militare sostenuta dagli Stati Uniti- i marxisti avevano progettato di uccidere ventisette ufficiali di alto rango il 22 settembre: il sanguinario golpe di sinistra era stato impedito solo grazie alla presa del potere da parte della destra. Pochi giorni dopo il generale Jorge Gustavo Leigh, uno dei primi membri della giunta militare, raccontò la stessa storia. Disse al giornale La Segunda: “Questa campagna aveva lo scopo di distruggere completamente le forze armate (…) una Giacarta che avrebbe portato al crollo finale. Una volta abbattuto quest'ultimo bastione, avrebbero imposto il terrore in tutto il paese”.
Ma quando venne pubblicata questa dichiarazione, il 22 settembre, era la giunta che stava terrorizzando il paese. E noto che migliaia di sospetti nemici del regime furono radunati allo Estadio Nacional dove furono interrogati, torturati e uccisi. E meno noto che fossero presenti consiglieri militari brasiliani per aiutare i cileni a eliminare giovani donne e uomini considerati nemici. Vennero giustiziate immediatamente più di mille persone e i loro corpi nascosti in fosse comuni. Ma Carmen Hertz e Carlos Berger non furono tra loro: erano entrambi nel Nord del paese dove Carlos lavorava come addetto alle comunicazioni nella miniera di rame di Chuquicamata e cercava disperatamente di difendere la nazionalizzazione dell’industria del rame promossa da Allende.
Carlos fu arrestato il 12 settembre e subito rilasciato; fu arrestato di nuovo, il 14 settembre, e questa volta restò in prigione. Carmen, giovane avvocatessa, cercò di farlo rilasciare presto. Era sicura che sarebbe uscito, la domanda era quando. Sapeva che era in gioco il destino del marito, quindi non contattò il Partito comunista né altri pezzi grossi di Santiago. Restò vicina a lui, lo andò a trovare più spesso possibile e negoziò con gli agenti del posto. Tecnicamente la sentenza era sessantuno giorni di carcere e Carmen sperava di poter commutare i giorni già scontati.
Il 19 ottobre alle 5 circa del pomeriggio andò a fare visita al marito in prigione. Carlos era turbato e ansioso: qualcosa non andava.
“Hanno portato via un gruppo di prigionieri. Era una specie di commando, un gruppo diverso. Non ho riconosciuto nessuno del reggimento”, disse Carlos. “Li hanno portati via con la forza e gli hanno messo dei cappucci in testa”.
Più tardi quella notte Carmen ricevette una telefonata anonima. Lo hanno portato via, disse la voce. Lei chiamò il direttore della prigione. “Sí, lo hanno portato via ma non si preoccupi, è solo per un interrogatorio. Tornerà subito”. Non tornò mai più. Li giustiziarono tutti. Giacarta era arrivata.
Le forze di Pinochet glielo confermarono a loro modo. La sera successiva parcheggiarono una jeep per strada e aspettarono che Carmen si avvicinasse. Non uscirono dalla macchina. Mentre si avvicinava, lei vide che a bordo c'erano un prete militare e qualcun altro, un uomo in uniforme. Quell'uomo le disse: “Carlos Berger e gli altri prigionieri erano stati portati nella città di Antofagasta, lungo la strada si sono ribellati, hanno tentato di scappare e di conseguenza sono stati uccisi. Hasta luego”. Il motore era ancora acceso, l'autista ingranò la marcia e se andò. Carmen non pianse, gridò: “Assassini! Assassini! Vedrete, figli di puttana! Pagherete per questo! Assassini, vigliacchi schifosi!”
I funzionari di Washington osservavano la reazione di shock e orrore dei paesi in via di sviluppo di fronte alla presa del potere da parte di Pinochet. Un rapporto di ottobre dell'intelligence del Dipartimento di Stato notò che un giornale moderato camerunense aveva definito la caduta di Allende “uno schiaffo al Terzo mondo”.
Juraj Domic, l’esiliato croato che aveva introdotto la metafora di “Giacarta” nella politica cilena, ottenne un lavoro al ministero del Esteri di Pinochet. Prima del colpo di Stato, i cospiratori di Washington erano preoccupati che i cileni non avessero la stoffa per combattere il socialismo, ma ben presto superarono i maestri brasiliani. Il comando militare era disposto a tollerare migliaia di morti, proprio come avevano sentito dire Pedro Blaset e gli altri marinai constitucionalistas. Alla fine, Pinochet e i suoi uomini uccisero circa tremila persone, soprattutto durante i primi giorni della dittatura. Erano orgogliosi della propria efficienza. Manuel Contréras, uno stretto collaboratore della Cia che creò la micidiale Dina, la polizia segreta di Pinochet, sapeva che il punto del terrore di Stato non era la sfrenata distruzione dei nemici, ma rendere la resistenza impossibile e consolidare le strutture politiche ed economiche dominanti.
Il terrorismo doveva essere scatenato sulla popolazione sotto la giurisdizione di un solo uomo e Augusto Pinochet accettò di assumere il ruolo che Washington pensava dovessero svolgere i militari cileni. Washington favorì il governo di Pinochet sin dall’inizio. La politica di Henry Kissinger nei confronti del nuovo dittatore sudamericano era molto semplice: “Difendere, difendere, difendere”.
Ma come per la dittatura militare brasiliana, le conseguenze della violenza di Pinochet non si fermarono ai confini della sua stretta nazione. Quasi subito dopo aver preso il potere, il generale cercò di influenzare gli eventi all'estero, sia combattendo il “comunismo” nell’intero emisfero che eliminando civili in tutto il mondo.
Il terrore internazionale iniziò in un territorio vicino. Il 29 settembre 1974 la polizia segreta di Pinochet assassinò Carlos Prats, il suo ex capo, e la moglie nella loro casa di Buenos Aires. Prats stava scrivendo le sue memorie. Dopo averlo ucciso, Pinochet rilasciò una dichiarazione che diceva che la sua morte “giustifica le misure di sicurezza adottate dal governo”.
Pochi mesi dopo l'uccisione di Prats, l'esercito brasiliano lasciò trapelare l'esistenza di una sua Operação Jacarta.
Nell'agosto 1975 Luciano Martins Costa studiava giornalismo a San Paolo. Insieme ad altri studenti riuscì a intervistare un generale di nome Ednardo D'Avila Mello, noto per la sua brutalità. Ovviamente prima dell'intervista gli ufficiali militari avevano fatto indagini sui giovani giornalisti e fecero arrivare sul posto degli studenti di destra per riempire la stanza in una sorta di tattica intimidatoria. Come vanno sempre queste cose, D'Avila Mello rivelò gradevoli mezze verità sul regime cercando nello stesso tempo di dargli un'aria di trasparenza. Il problema sorse quando si infuriò con una giovane giornalista che gli fece una domanda con un atteggiamento secondo lui irrispettoso. Perse il controllo: “Siete tutti indottrinati”, urlò. “Ed è per questo indottrinamento che stiamo per mettere in atto l'Operazione Giacarta e neutralizzare duemila comunisti solo qui a San Paolo”. Iniziò a elencare i nomi dei bersagli.
Luciano prendeva appunti furiosamente: "Neutralizar 2 mil comunistas em São Paulo...”.
Il generale era uscito dal copione, ma c’era la dittatura e riuscì facilmente ad assicurarsi che la sua sfuriata restasse riservata.
“Se pubblichi una singola parola di quello che ho appena detto, sarai il prossimo dopo quei duemila!”
Per un bel po' di tempo i giovani giornalisti restarono zitti.
Tre mesi dopo il regime di Pinochet tenne un incontro con alcuni rappresentanti del Brasile e di altri paesi vicini, come loro anticomunisti e appoggiati dagli Stati Uniti. Ormai erano in molti. Nella grande sala dell'Accademia militare, alla presenza di Manuel Contréras, collaboratore della Cia e fondatore della polizia segreta, si riunirono rappresentanti di Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay e Uruguay. Era una riunione ottimista; dovevano lavorare insieme. Non bastava ammazzare comunisti e sovversivi nei propri paesi: misero a punto un programma per collaborare allo sterminio dei loro nemici in tutto il mondo; istituirono una banca dati centralizzata per scambiarsi informazioni; presto gli Stati Uniti avrebbero fornito i computer. Il primo giorno finì con una cena di gala con attraenti donne cilene fornite dalla polizia segreta.
Chiamarono la nuova alleanza con il nome di un magnifico avvoltoio, l’uccello nazionale del Cile: nel novembre 1975 venne lanciata l'Operazione Condor.

 

 

 

 

Una gita al cinema.


Benny arrivò in Cile nel 1975. Era stato trasferito per lavoro da Bangkok, dove aveva trascorso più di dieci anni a lavorare come economista delle Nazioni Unite. Rientrato in Kansas aveva avuto un assaggio dell’America del Nord, ma era la prima volta che viveva in America Latina e ovviamente era entusiasta. Arrivò con la moglie e i figli, che avevano fatto del loro meglio per imparare la lingua.
Capirono molto in fretta com’era la vita sotto Pinochet. Una sera Benny decise di fare una passeggiata nel centro di Santiago e andare al cinema. Per strada venne fermato da una coppia di carabineros, membri della polizia cilena. Volevano sapere chi fosse e dove stesse andando.
Aveva suscitato dei sospetti perché stava camminando -a Santiago stava per scattare l’ora del coprifuoco-, ma anche per la sua razza. L’esercito appoggiato dagli Stati Uniti aveva tormentato la sua comunità per il solo fatto di essere cinese e, quando lavorava a Bangkok, la dittatura di Suharto lo aveva costretto a cambiare il suo nome in “Benny Widyono”. La sua faccia destava sospetti anche in Cile.
A questo punto della sua vita Benny sapeva abbastanza lo spagnolo da capire che cosa diceva il poliziotto.
“Quiere que lo lleve?” Vuoi che ti porti via? Il sottotesto era chiarissimo. Vuoi che ti porti dentro, vuoi essere torturato e forse non tornare piú a casa? Ti rendi conto che stanotte puoi sparire?
Benny cercò di essere più gentile possibile. Funzionò -il tipo stava solo cercando di intimidirlo e anche questo funzionò- e Benny fu lasciato andare. Ma nelle sue prime settimane in Cile capì che nemmeno un lussuoso ufficio delle Nazioni Unite poteva rappresentare un rifugio dal caos di quella violenta dittatura. O meglio, il caos arrivava fin lì perché era un rifugio. Mentre Benny e i suoi colleghi lavoravano, giovani cileni in fuga dal regime scavalcavano il muro e si rifugiavano nel complesso delle Nazioni Unite. Lì dentro la polizia segreta non poteva arrestarli perché gli edifici delle Nazioni Unite, sulla riva meridionale del fiume Mapocho, godevano di una parziale autonomia dal regime. Per lo più questi giovani, uomini e donne, erano membri del partito di sinistra Mir, che aveva ascoltato l'allarme del massacro del 1965 in Indonesia e sottoscritto la dottrina della rivoluzione armata. Benny vedeva che i ragazzi continuavano ad arrivare senza sosta, montavano un piccolo accampamento, dormivano su materassi messi per terra e cercavano un modo di lasciare il paese. Probabilmente non sapevano che, anche se fossero riusciti a uscire, l'Operazione Condor avrebbe dato loro la caccia ovunque sulla faccia della terra.
Pinochet odiava l'ufficio di Benny: per lui le Nazioni Unite erano essenzialmente un covo di comunisti. Ma la cosa ancora peggiore era che Benny lavorava alla Commissione economica per l'America Latina e i Caraibi (Cepal), una roccaforte di quello che Pinochet e i suoi alleati in tutto il mondo consideravano un inammissibile pensiero economico di sinistra. Il Cepal era l'epicentro delle economie di sviluppo e della teoria della dipendenza; il nuovo dittatore del Cile, invece, teneva in grande considerazione un gruppo di economisti cileni ben introdotti che avevano studiato alla University of Chicago e spingevano per una svolta radicale verso economie di libero mercato. Il gruppo, che divenne noto come “Chicago Boys”, era più fazioso persino delle vecchie conoscenze di Benny in Indonesia, come la “Mafia di Berkeley”. Il peso della loro influenza non era stato pianificato -la ragion d'essere del governo di Pinochet era l’anticomunismo, non il liberismo fondamentalista- ma con questi economisti il Cile era diventato il primo caso mondiale di economia “neoliberista” e i consigli del Cepal di Benny non erano più i benvenuti.
Tuttavia, Benny presto iniziò a essere invitato a eventi eleganti nel barrio alto, il quartiere sulle colline a est della città dove vivevano le élite. Se dal centro di Santiago si guarda verso est, la vista è quasi sempre spettacolare: si vedono torreggiare le cime delle Ande coperte di neve mentre in città l'aria è tiepida e profumata di spezie tropicali.
Benny le vide per la prima volta quando salí sulle colline nei quartieri di lusso; “YAKARTA VIENE”, “DJAKARTA SE ACERCA”, o semplicemente “JACARTA”.
Era sorpreso. Chiese in giro per capire cosa significassero esattamente quelle scritte e da dove venissero quegli slogan e quando lo scoprì ne fu sconvolto. La capitale del suo paese non era più sinonimo di cosmopolitismo, solidarietà terzomondista e giustizia globale, ma di violenza reazionaria. “Giacarta” significava l'eliminazione brutale di persone che si organizzavano per lottare per un mondo migliore. E ora era in un altro paese, anche questo appoggiato dagli Stati Uniti, le cui forze governative celebravano quella storia invece di condannarla.
Le scritte erano ovunque ma lentamente stavano sbiadendo.
La storia del colpo di Stato, avvenuto appena due anni prima, era stata riscritta dai vincitori e trasformata in una storia nuova. Era un processo che Benny conosceva molto bene. Allende, come Sukarno, era un parlatore. Pinochet, come Suharto, non diceva mai molto. A volte la tv cilena trasmetteva il video di un discorso recente di Pinochet ma lo doppiava per correggere quello che diceva veramente. Si poteva riscrivere anche il presente.
Benny si abituò a vedere “GIACARTA” dappertutto, ma quelle scritte non gli piacevano e un giorno le sue emozioni vennero fuori. L’ambasciatore indonesiano in Argentina venne a tenere una conferenza agli studenti cileni insieme a Benny, che spesso era la persona che si avvicinava di più a un ambasciatore indonesiano a Santiago. Questo significava lavorare con il governo di Suharto ma, come la maggior parte degli indonesiani, Benny si era rassegnato a questa realtà.
Dopo la conferenza gli studenti chiesero con insistenza all’ambasciatore come e perché il governo cileno considerasse Giacarta un esempio di glorioso terrore anticomunista. Cosa significavano tutte quelle scritte? L'ambasciatore era furioso.
“E solo il nome della nostra capitale! Come osate pensare che sia il sinonimo di un massacro?”, anche Benny era arrabbiato.
Ma gli studenti si sbagliavano veramente? Doveva ammetterlo: conosceva l'intera città di Giacarta in tutta la sua sporca e meravigliosa complessità, ma fuori dal paese -qui in Cile- era arrivata soltanto la storia di un omicidio di massa, uno sterminio che era sicuramente accaduto e che in qualche modo Pinochet aveva replicato qui. Le scritte non erano calunnie, erano la realtà.
Più tardi ci rifletté più a fondo. Ripensò alla sua vita, al periodo passato in Kansas alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio dei Sessanta. Pensò a quei militari indonesiani che venivano da lui per mangiare cibo indonesiano e poi andavano in città. Fu allora che quegli uomini vennero addestrati dagli Stati Uniti a essere dei violenti e fanatici anticomunisti. Furono quegli uomini, che dopo notti di strip club e bevute con Benny, tornarono a Giacarta per contribuire al programma di sterminio di destra più famoso del mondo. Era dove tutto era cominciato.
In Kansas, pensò. E lì il motivo per cui il nome della città dove sono cresciuto, dove ho studiato, dove ho imparato cos'è il socialismo e ho manifestato contro il colonialismo e il razzismo, è diventato il sinonimo di omicidio di massa.