Mars 2020. Critica della ragion d’essere.

 

 

 

 

Per "el mestée del mes" riporto un testo di un anonimo scrittore in cui mi sono imbattuto girovagando sul web. Mi ha intrigato non poco il suo trasudante pessimismo -o tragico realismo- e la ricchezza di espressione letterale. Paro paro, senza commenti, te lo propongo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Crisi. Capitalismo. Civiltà.
A che punto siamo, si domanda lo spirito inquieto che è in noi. Leggiamo, osserviamo, constatiamo. Nel caos che ci sommerge un punto rimane nitido alla vista: è il volto catastrofico di questo tempo. Evoluzione dopo evoluzione si sfiora la caduta nell'abisso.
Ce n'è voluto di cammino virtuoso per ritrovarsi in ostaggio di un fardello così minuziosamente costruito.
Perdita delle capacità sensoriali, surrogati di sapori per palati drogati da aspartame, marketing genetico d'assalto.
L' ultima frontiera dell'inganno eretto a norma: perfino gli occhi.
Non era sufficiente lo spazio oberato, la visuale ristretta, le superfici virtuali che sostituiscono la realtà. Si progetta l'occhiale interattivo da indossare per schermare definitivamente la retina. Virtuale, forse non più virtuale, a portata di vetrina, indicazione, pubblicità, orientamento al consumo.
Viene voglia di rileggersi tutte le opere di Dick e Ballard per sfuggire ad una realtà che produce orrori simili.
L'uomo occidentalizzato è un non essere. In posa, dipendente, accecato dalla ricerca di gloria, schiavo di se stesso. A darne l'ultimo stimolo possibile neanche più una banconota stampata da qualche zecca di stato. Semplicemente: un segno grafico visualizzato sopra un processore elettronico. Non c'è la catastrofe in arrivo. La catastrofe è già qui. Impone condizioni di fuoriuscita. E ritornarci sopra, riaffermarlo, scriverlo piuttosto che urlarlo nelle piazze è già cosa sospetta.
Per questo non vale la pena insistere troppo. Meglio organizzarsi. Ed agire.
Questi sono solo appunti sparsi. Nessuna presunzione di sintesi.
Da anni attingo allo strumento delle letture per tentar di sconfiggere il grande male che affligge il nostro tempo: la rassegnazione.
É un sentiero di curiosità che accompagna le mie peregrinazioni da autodidatta. Sentiero fecondato da altri sentieri, più o meno selvatici, camminare raccogliere incontrare connettere pedalare.
Due testi in questi appunti. E. M. Cioran: "La caduta nel tempo", Marshall Sahlins: "L'Economia dell'età della pietra", scarsità ed abbondanza nelle società primitive. Né recensioni, né iscrizioni all'albo di testi sacri.
Consigli, bagliori, riflessioni sul che fare. Sempre a patto di mantenere vivo l'orizzonte della resistenza e della rivolta. C'è il fantasma di Tyler Durden che aleggia nelle conversazioni impegnate. Che dico impegnate. Nelle conversazioni che erodono il tempo dell'intrattenimento. Tyler distrugge la civiltà che lo ha annichilito. La sua è furia distruttrice. Lampo, azione infeconda, luce che balugina l'irrealtà dei fantasmi. Tyler è finzione, sia chiaro. Scritto, diretto, strumentalizzato. Ciononostante incombe. 
Proscritti consenzienti, reprobi volontari, disadattati, incapaci di concepire se stessi nel mondo, esausti, esauriti, sviliti. E tuttavia insaziabili, divoratori, sempre alla ricerca di nuove evoluzioni.
La specie umana. Homo sapiens sapiens; homo oeconomicus; homo demens.
Siamo inferiori a tutto il resto del vivente da cui siamo andati distaccandoci per inseguire un incubo folle: quello di osservare la terra dall'alto in basso.
Il caso umano, quello più grave. Sviluppo, progresso, tecnologia, tecnica al servizio dei bisogni umani, democrazia. Qualcuno potrebbe obiettare.
Per rispondere, mi è sufficiente camminare lungo le strade di una qualsiasi delle necropoli che hanno via via sostituito le antiche città. Spazio raro occupato da ferraglie, polveri annebbianti, richiami alle debolezze profonde, corpi esibiti. Ovunque simulacri trionfano sull'essenza. Potere irradiato in ogni luogo civilizzato, generosità sospetta, ossessione utilitaristica, progresso lineare come le immonde autostrade che hanno ricoperto il suolo terrestre. Obnubilati, prigionieri di immagini deformate, spinti dalla potenza motorizzata verso gli abissi della storia.
Uomini moderni. Vittime di una coscienza esacerbata.
Il tempo della crescita, dicono i tecnocrati. Amministratori, ingegneri, psichiatri, architetti, dirigenti, accentratori, cercatori di gloria, persuasori: si giustificano promettendo, giudicando, condannando. Definiscono: questo è l'uomo civilizzato, non quello delle caverne.
Allora osserviamolo. L'uomo civilizzato.
Si circonda di utensili sempre più sofisticati, sacrifica il semplice che è in lui sull'altare di una tecnica che l'ha condannato, lo condanna, lo condannerà.
Si ammala molto più dei suoi antenati che chiama barbari. Inventa la medicina cosiddetta moderna per curare mali che lui stesso produce.
Non vede, difficilmente può ancora vedere; può farlo, ma a patto di rivoltarsi o apparire strambo. Il suo spazio, la sua vita sono state occupate da nocività; è perso senza il giudizio altrui; magari faticasse ad essere se stesso, molto più tragicamente non è più in grado di stare con se stesso.
Cannibalizza l'esistente, divora il suo tempo, inventa di continuo tecniche sofisticate atte a celare l'imbroglio colossale sopra cui poggia la sua illusione. Creazione di bisogni ad infinitum. É violento perché non più in grado di riconoscersi.
Le colonie l'orizzonte, la guerra lo strumento. Ha creduto di aver conquistato la pace eterna con una stupida invenzione, la proprietà, che lo ha reso sempre più dipendente e schiavo. Anche, e soprattutto, nella condizione di padrone. Non avrebbe dovuto recintare, da lì nasce il suo complesso; guarda gli animali selvatici, ne è invidioso, li cattura, li stermina, li conduce nelle carceri zoologiche per mostrarli ai suoi esemplari giovani. Educazione all'annichilimento.
Da quando si è immolato al capitalismo è guidato unicamente dal desiderio di gloria. É in preda ai suoi stessi furori, imbottito di sostanze stimolanti, bombardato da agenti chimici, si alimenta senza sapere più nulla di ciò che mangia.
A vederlo nella sua essenziale mostruosità è un essere spacciato, mosso da forze oscure, un devastatore, con tutta probabilità non-terrestre, giacché del terrestre ha conservato ben poco.
É condannato e lo sa. Per questo si affanna a giudicare i suoi simili non piegatisi ai suoi ordini. Li teme, li combatte, li tortura, li imprigiona, li giudica folli, li uccide, li stermina con coperte infette e armi distruttive. Il sangue degli insorti definisce la sua gloria.
É comunque uno sconfitto in partenza: non potrà mai cancellare l'irregolare, l'imprevisto, il difforme. La Natura lo colpisce quando meno se lo aspetta. Un vulcano, la terra che trema, il lupo corre e caccia fuggendo dalle sue maledizioni.
É una strana supremazia la sua. La supremazia di un deficiente.
L'uomo civilizzato ha perduto il segreto della vita, la semplicità dell'essere nel mondo, è una creatura tormentata da complessi e paure.
Schiere di professionisti si sono adoperati nei secoli per rendere il suo un cammino di speranza promessa. Cristianesimo e scienza, a braccetto, al contrario della falsa contrapposizione narrataci per secoli: una nocività sempre più ingegnosa per ammansire illudere sedurre. Manie, gigantismo, salvezza eterna, desiderio di immortalità e raggiungimento della potenza divina.
Nelle necropoli in cui vive assiste inerte alla decomposizione del vivente. Rumore meccanico senza sosta, l'insonnia eretta a virtù. I nomi delle vecchie città durano, la realtà è svanita.
Di miti ne ha costruiti uno dopo l'altro. Quello del sacro produrre, il più tragico.
L'uomo civilizzato produce per eludere il panico, per evitare l'incontro con se stesso e con il proprio tragico fallimento. La sua è ossessione prodotta dal timore di cui è schiavo.
L'adagio civile e progressista ama ripetere: il progresso ci ha liberati dalla paura ancestrale. La conoscenza ha portato l'uomo ad isolare la paura fino a sconfiggerla. Si badi all'uomo primitivo, dice ancora l'adagio, vittima delle sue stesse superstizioni, atterrito da spiriti inesistenti. Eccola l'arroganza superba. Occhi bendati, tirannia e conversioni forzate.
Piuttosto: proviamoci, osserviamo il mondo con umiltà, anche solo per un secondo. Ovunque terrore: del diverso, del microbo, del giudizio degli altri, della perdita dell'aureola perbenista. Una paura che attanaglia in ogni istante il civilizzato. Al contrario del primitivo. Quello dei popoli cacciatori-raccoglitori era un timore precipuo. Proprio di un momento. Di una sorpresa. Particolare di una azione che contemplava fuga o autodifesa. L'apparire improvviso di un orso. Il lampo che squarcia un albero. Paura passeggera. Il resto della sua vita era in quiete. L'orrore della nostra epoca è quello di vivere immersi in una paura senza fine. Non essere apprezzati, compresi, ben giudicati, assecondati. Non ricevere attestati di stima. Un turbinare di ossessioni colmate da stupidi orpelli con cui vestiamo le nostre inadeguatezze.
Mode, tendenze, profili da impostare, sorrisi finti, culto dell'immagine, sacrificio alla carriera vistosa, produzione continua di amuleti che scongiurino le disgrazie. Siamo ombre alle prese con simulacri creati in laboratorio. Colmiamo il nostro vuoto agghindandoci di perle malefiche. Nel farlo non facciamo che schiavizzarci. Dov'è la libertà quando si è paralizzati dal terrore sacro del giudizio altrui? É la paura a renderci superbi e disprezzanti.
Le frontiere ultime del virtuale sono la definizione del nostro tempo. Social network quotati in borsa, quasi a pesare in termini economici il dilagare della patologia più profonda della nostra epoca: l'ossessione di se stessi. Voluta e violentemente ricercata da criminali impuniti che reggono le sorti dell'economia mondiale.
Scrive Cioran: "via via che dilapida il suo essere, egli si accanisce a volere al di là delle sue proprie risorse, vuole con disperazione, con furia, e quando avrà esaurito la parvenza di realtà che possiede vorrà ancora più appassionatamente, sino all'annientamento e al ridicolo".
Adesso il tempo della crescita, eccola l'orribile voce dei premier di mezza Europa. Come fermare l'istinto all'azione rabbiosa quando l'orecchio è costretto ad ascoltare ancora espressioni di questo tipo?
Crescita, profitto, sviluppo: termini ossessivi ripetuti come formule religiose. Chi li pronuncia è sulla scia. Non importa si definisca di sinistra.
Il progetto della nostra epoca è giunto allo stadio terminale. Non c'è più spazio per prese del potere, relazioni internazionali pacifiche, sviluppi sostenibili, lumi e tecniche al servizio dell'umanità. L'ultima goccia d'acqua è già nelle mani sbagliate.
L'unico sentiero percorribile comporta una vita in contrasto con la nostra civiltà. Ascoltando i richiami che sorgono dal profondo della nostra memoria. Riattivando l'ancestrale che, nonostante tutto, sopravvive in noi.
 
Senti un rutto per strada, poggi la scarpa sopra un rifiuto organico, i tuoi recettori olfattivi percepiscono odori selvatici. Ecco che pensi all'uomo delle caverne. Te lo hanno insegnato a scuola. Prima dell'avvento della civiltà l'uomo viveva in condizioni precarie. Era schiavo delle sue paure, in preda ai furori del vento e della natura malvagia, spesso divorato da qualche fiera minacciosa. Hai visto la sua immagine sopra i libri delle elementari.
Mandibola sporgente, viso crudele, corpo ricoperto di peluria. Sei cresciuto e hai continuato a ritenerlo tale. Un essere inferiore. La fortuna dell'uomo moderno è stata quella di uscire da quella condizione di schiavitù.
Seguendo i percorsi classici di apprendimento credere a questo misero luogo comune è tappa obbligata per ogni studente moderno. La passeggiata nei boschi è solo intrattenimento.
Difficile credere che l'uomo abbia potuto vivere in pace senza distruggere tutto ciò che lo circonda. Evoluzione necessaria. Distruzione creatrice. Disboscamento civilizzante. Liberazione dalle minacce delle Natura. Finisci per crederci visto che tutti, o quasi, lo vanno ripetendo senza sosta.
Poi ti cade tra le mani un testo. Ti ci ha condotto la curiosità e l'avversione verso il sistema economico e sociale che tenti di combattere manifestando in piazza: Marshall Sahlins, "L'economia dell'età della pietra".
Non pensare di trovarlo in libreria. Non lo ristamperà mai nessuna casa editrice. Dovrai accontentarti di una biblioteca. É utile sfumare e diversificare il tono di uno scritto. Aiuta a scrivere con più semplicità. Quello che è stato definito homo sapiens sapiens è vissuto per la gran parte della sua storia nella condizione economica della caccia e della raccolta. Prima ancora dell'invenzione dell'agricoltura, in gruppi poco numerosi sparsi per il mondo, viveva in tutta tranquillità raccogliendo e cacciando. Arco, frecce, astuzia, generosità e nessuna idea di proprietà.
Etnologi, antropologi, ricercatori lo hanno dimostrato viaggiando ed osservando i popoli che ancora oggi vivono in quello stato. La ricchezza è un fardello, nella condizione esistenziale del cacciatore i beni possono diventare "penosamente oppressivi".
Gli Yahgan della Terra del Fuoco con la loro avversione a possedere più di un esemplare degli utensili d'uso comune mostravano la "piena fiducia in se stessi", scrisse l'etnologo Martin Gusinde.
Il cacciatore raccoglitore è un uomo non economico, l'uomo economico è un invenzione borghese, non una conseguenza ma una premessa, si legge dal testo di Marshall Sahlins.
Ricchezza, povertà, possesso, confine, proprietà. Nessuna di queste invenzioni era contemplata dall'uomo che viveva di caccia e raccolta.
Il cosiddetto uomo primitivo viveva in uno stato di primordiale opulenza, non si affannava alla ricerca della gloria, era in grado di percepire il proprio corpo nel mondo, si ammalava di rado, aveva una concezione ascetica del benessere materiale. Equipaggiamento minimo, predilezione per gli oggetti piccoli, tenore di vita basso e sufficiente a vivere in quiete.
La semplicità della sua esistenza prevedeva coabitazione, convivialità, cooperazione. I processi produttivi erano unitari, si produceva con sistema anti-eccedentario, la produzione era finalizzata al valore d'uso e anche gli scambi limitati e definiti dalla reciprocità.
Le squadre di cacciatori, scelte in base alle specifiche abilità fisiche e mentali, una volta tornate dalle sedute di caccia redistribuivano equamente senza accumulare niente per se oltre al necessario. Ugualmente si procedeva con il raccolto. Società come queste non prevedevano la libertà di arricchirsi a spese altrui. Tanto meno di stabilire gerarchie ed istituzioni centralizzate. La guerra, questa caratteristica endemica della nostra epoca, era praticamente sconosciuta.
Dono, reciprocità, alleanza, solidarietà comunanza. Il cibo è commestibile, non vendibile. E lo si conosce. L'uomo cosiddetto primitivo imparò a fidarsi di se stesso. Riconosceva i pericoli insiti nella Natura. Il suo equilibrio si bilanciava di continuo con il rispetto verso il vivente che lo circondava e di cui non si sentiva proprietario.
Della narrazione auto-celebrante con la quale sono stati riempiti testi, biografie di capi stato, libri di storia è sospetta la menzogna. Che l'uomo moderno abbia dipinto il suo predecessore con ritratti falsi e non corrispondenti. Che lo abbia definitivo in base alla propria mentalità. Che lo abbia costretto alla conversione forzata. Menzogna e falsificazione. Mito e leggenda. Violenza e sterminio. Ancora in epoca odierna popoli che non hanno seguito la follia della civiltà divoratrice vengono violentati sparpagliati uccisi o costretti a vivere in riserve del tutto simili alle carceri zoologiche. La forza delle società primitive era nella loro debolezza. Nello spirito libero di chi è in grado di accettarsi, riconoscersi, vivere in autonomia gioia indipendenza. Assenza di gerarchie sociali, anarchia, comunismo di vita. Ecco perché è utile coglierne l'essenziale. Non certo per rievocarne improbabili ritorni.
La crisi che attanaglia il mondo non terminerà con un nuovo piano economico rinvigorente. L'ho scritto e non è il caso di ripeterlo.
Siamo già nel tempo della fuoriuscita, non c'è nulla da inventare, processi in atto.
La vittoria tramite la rinuncia e la regressione; non collaborare, disertare, auto-organizzare le comuni su basi ancestrali e anti-eccendetarie. Prendersi il territorio. Il più possibile ricco di vegetazione e boschi selvatici. Senza fuggire dal continuum metropolitano. Vita in comune. Produzione svincolata dal valore di scambio. La fiducia in se stessi e negli altri. Gli insorti che collaborano senza burocrazie, intermezzi, professionisti, capi.
Sottrarsi alla tirannia dell'opinione, smettere di appartenere a questa epoca di smarrimenti e pose senza sosta, il ritorno allo spirito primitivo come necessità, la spoliazione come virtù; privarsi dell'eccesso, riconquistare saperi vernacolari.
D'altronde, basta guardarsi intorno, nelle città morte, crescono e si moltiplicano le istanze del bene comune e selvatico. Conflitti diffusi, biciclette, forni popolari, orti urbani, raccolta delle erbe spontanee, disoccupazione creativa, riciclo, baratto, riutilizzo.
Non è detto che ciò che rimane degli stati riesca a controllare ogni irregolarità. Più s'avanza il decadimento meno è probabile che sia in grado di gestire l'ordine degli improbi e degli intossicati.
Se acconsentissimo a ridurre i nostri bisogni, a soddisfare solo quelli necessari, essa crollerebbe all'istante, scrive Cioran a proposito della civiltà moderna.
E seguire il sentiero del possibile non costa poi tanto.
Meglio, non costa proprio nulla.