Genar 2020. Mapuche.

 

 

 

 

 

 

 

 

“El mestée del mes” è dedicato ai Mapuche e alla loro lotta per la propria terra ancestrale contro i governi cileno e argentino e contro i Benetton, ovvero della “borghesia imprenditrice illuminata” nel primo mondo e dei latifondisti sfruttatori della peggior specie nel terzo mondo. Due interventi di Massimo Venturi Ferriolo, alcune immagini e un breve video ne denunciano la situazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al signor Luciano Benetton, Presidente della Fondazione Benetton Studi Ricerche
E p.c.
Al dottor Marco Tamaro, Direttore della Fondazione Benetton Studi Ricerche
All’arch. Luigi Latini, Presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Benetton Studi Ricerche
A tutti i Membri effettivi e onorari del Comitato Scientifico della Fondazione Benetton Studi Ricerche

 

Signor Presidente,
da alcuni anni la mia attività scientifica e didattica è legata anche al Sudamerica, in particolare all’Argentina con frequentazioni presso l’UBA (Università di Buenos Aires). Grazie alle informazioni ricevute da alcuni colleghi della Facoltà di Filosofia e Lettere, e ricavate da un viaggio in Patagonia, ho potuto conoscere lo stato dei luoghi di vita come studioso di paesaggi. Una lunga riflessione e un accurato studio della documentazione (per la maggior parte raccolta dalla stessa Facoltà di Filosofia della UBA) sull’attività dell’azienda Benetton nella Patagonia argentina, dopo il caso Santiago Maldonado –che ha colpito le coscienze e provocato proteste nel paese, portando a una grande manifestazione a Buenos Aires e a un’eccezionale raccolta documentaria reperibile in rete-, mi ha spinto a scrivere questa lettera in quanto membro effettivo da molti anni del Comitato Scientifico della Fondazione Benetton Studi Ricerche, che ho seguito poco dopo la sua nascita, con impegno come risulta anche dai miei lavori scientifici.
Ho potuto così notare una notevole discrepanza tra l’attività della Fondazione fin dai tempi dello storico direttore Domenico Luciani e del Comitato Scientifico presieduto dal prof. Lionello Puppi, che ha promosso un eccellente lavoro di studio e ricerca sul paesaggio inteso nel suo senso complessivo antropologico, e l’attività dell’azienda che dà il nome alla stessa Fondazione di cui Lei, signor Luciano Benetton, è il Presidente nonché il mecenate. Bisogna però dare atto a Domenico Luciani di aver saputo distinguere nettamente la Fondazione dall’azienda, cosa che oggi non mi sembra più tale.
Forse non tutti conoscono la reale situazione in Patagonia (per tacere dell’Amazzonia) nei terreni di proprietà della famiglia Benetton che ammontano a 900.000 ettari acquistati legalmente nel 1991 all’epoca della grande svendita dell’Argentina fatta dall’allora presidente Carlos Menem (si veda il documentario di Fernando E. Solanas, Diario del saccheggio).
In parte di questi terreni vivevano i Mapuche, il cui nome indica uomo della terra, di quella terra che è un loro possesso ancestrale, anche se ora di proprietà Benetton, e da quella terra sono stati cacciati e la reclamano nonostante la repressione e l’accusa di terrorismo. Un loro leader, Francisco Facundo Jones Huala, marchiato come terrorista, già detenuto, verrà come tale estradato in Cile. Nella repressione di una pacifica manifestazione contro la Benetton e la detenzione di Huala il 1 agosto 2017 è scomparso Santiago Maldonado difensore dei diritti dei Mapuche, il cui cadavere sarebbe stato da poco rinvenuto.
La Fondazione ha svolto due giornate di studio dal titolo “Curare la terra”, testimoniate da una pubblicazione che evidenzia il legame stretto tra uomo e terra, mentre dall’altra parte dell’Oceano si scacciavano popolazioni locali dalle loro terre. Le confesso, signor Presidente, che allora non conoscevo a fondo il problema altrimenti sarei intervenuto sui fatti in questione. L’etica me lo impone, quell’etica che sovrasta ogni legge imposta, come c’insegna la tragedia greca. Questo è il problema: abitare significa esistere. Io abito in quanto sono, signor Presidente, e se mi tolgono la terra dei miei avi tramite transazioni commerciali legali ma di dubbia origine, non sono più nessuno: ho perso la mia identità e la mia dignità. C’è un’etica superiore che impone il rispetto per chi abita da secoli un luogo e qui ha inumato gli antenati. La prego di rifletterci. Va conosciuta e riconosciuta la cultura ancestrale, che ora è tutelata dalle Costituzioni dell’Equador e della Bolivia. Un luogo non è una merce, ha la sua storia e, anche se acquistato col denaro, appartiene a chi lo abita nel tempo e nello spazio e non può essere sottratto con il suo commercio agli abitanti secolari, come è avvenuto.
Tutto questo l’ho imparato, mi permetta di dirlo, anche con il lavoro nella Fondazione e sono grato a Domenico Luciani per aver indagato in trent’anni la profondità dei luoghi, dei loro caratteri a cui non si può sfuggire. Lo sa che un cavallo di battaglia della Fondazione sono i “Luoghi di valore”, tema che ha superato i confini nazionali. Ebbene signor Presidente, non si può da una parte ricercare i luoghi di valore e dall’altra parte dell’Oceano togliere il valore ai luoghi dei nativi. Non è una bella contraddizione?
La terra è sacra, è la Pachamama, la madre terra, ed esiste una comunione con i suoi figli, come le ha scritto il 13 luglio 2004 Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace 1980, in una nobile lettera a Lei indirizzata. Non mi sembra che Ella abbia risposto. Esquivel, con parole semplici, ha evidenziato il problema etico che oltrepassa ogni giustificazione legale contro ogni cultura ancestrale. C’è un passo in questa bellissima lettera scritta con il cuore e un benevolo animo di pace, che mi permetto di citare nella lontana speranza che colpisca il suo cuore e la sua sensibilità: «Vorrei farle una domanda, signor Benetton: chi ha comprato la terra a Dio? Lei sa che la sua fabbrica dagli abitanti del luogo è chiamata “la gabbia”, cinta con fil di ferro, che ha rinchiuso i venti, le nubi, le stelle, il sole e la luna. È scomparsa la vita perché tutto si riduce al mero valore economico e non all’armonia con la Madre Terra».
Credo che basti questa frase per capire che il privilegio del mero valore economico sia così preminente da annullare ogni valore dei luoghi e delle persone. Sto dedicando questi anni della mia vita allo studio e comprensione della Pachamama, alla sua straordinaria profondità che grida amore e reciprocità, non sfruttamento economico. I primi risultati di questa ricerca usciranno tra breve in un volume dedicato al giardino –grande tema della Fondazione– come metafora di un mondo migliore: giardino è la Pachamama. Da qui parte la mia battaglia d’idee per un futuro dove il liberismo economico non trova posto. E questa battaglia sarà sempre a fianco dei più deboli in difesa della loro esistenza, delle loro terre, come mi hanno insegnato i grandi maestri, straordinario dono della vita che porto con me sempre e ovunque senza tradire la dote della libertà lasciatami in eredità.
Per questi motivi, che spero siano chiari e possano farla riflettere, rassegno le mie dimissioni irrevocabili dal Comitato Scientifico della Fondazione Benetton Studi Ricerche ch’Ella presiede, non essendo il mio nome e la mia storia compatibili con la politica dell’azienda che finanzia la suddetta Fondazione. L’unico fatto concreto, ma forse è un’utopia, che mi farebbe recedere da questa decisione è ch’Ella, con la sua famiglia, donasse parte della terra di sua proprietà rivendicata dai Mapuche a questa Gente della Terra, accogliendo fraternamente la richiesta formulata a suo tempo da Esquivel.
Non credo che sia un grosso sacrificio economico, ma sarebbe senz’altro, ne sono fermamente convinto, un enorme nobile atto etico che si rifletterebbe positivamente sull’immagine della famiglia Benetton: un’immagine reale e non falsa come è proposta ora con la Fondazione e la campagna United Colors. Un’immagine che La farebbe entrare nella storia degli eccellenti, come Adriano Olivetti.
I tempi sono più che maturi. La verità viene a galla nonostante ogni repressione di stato. Sarebbe un atto straordinario: ripeto anche se è un’utopia, sta a lei deciderlo e avrebbe la stima infinita del mondo. È uscito in questi giorni il film documentario “El camino de Santiago” di Tristan Bauer e la documentazione è sempre più ricca. Ripeto le parole di Esquivel: «Tutti siamo di passaggio nella vita, quando arriviamo siamo in realtà in partenza e non possiamo portare niente con noi». Lasciamo però nella nostra breve esistenza delle tracce, come recita il coro dell’Antigone di Sofocle: verso il bene o verso il male.
Mi perdonino i colleghi membri del Comitato Scientifico per non aver parlato prima con loro di questa mia decisione. Ho obbedito alla mia coscienza. Di fronte alla coscienza ogni persona è sola: risponde a se stessa.
Con il dovuto rispetto. (Massimo Venturi Ferriolo, 2018)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il frusciante vento della Patagonia narra la storia cruenta di una terra che, dalla sua profondità, reclama giustizia contro il silenzio assordante che l’ha velata: una storia triste di rapina e intolleranza. Un popolo fiorente con una straordinaria cultura olistica, sopravvissuto agli invasori spagnoli, è stato ferocemente sopraffatto dalla cupidigia dei coloni capitalisti argentini e cileni all’epoca della cosiddetta «conquista del deserto» e dell’imperante liberismo economico.
Questo popolo resiste all’intolleranza diffusa che ha disconosciuto le sue tradizioni ancestrali legalizzando la rapina delle terre ai loro legittimi possessori, vendute o donate a enti stranieri, nuovi imprenditori dello sfruttamento in nome del progresso e della «civiltà». I nativi furono sopraffatti, spodestati dei loro beni, delle terre possedute in comune e curate secondo i bisogni, con rispetto per la natura considerata sempre nella sua veste sacra della Pachamama.
Studiando i rapporti tra uomo e ambiente in Sudamerica sono venuto a conoscenza della storia dei Mapuche, dimenticata, tacitata e negata dalle nostre culture intolleranti, ma riscattata da José Bengoa con le sue ricerche sulla storia di un popolo originario privato della propria terra che ancora oggi reclama, per restituirgli la dignità con la rivelazione di un’ingiustizia storica continuamente perpetrata fino all’odierna accusa di terrorismo per giustificare una repressione infinita (Historia del pueblo Mapuche, 1986, più volte riedito). La storia della Patagonia rivela non solo un genocidio che ha caratterizzato la creazione dello stato nazionale sia argentino che cileno, ma anche la creazione dell’immagine di un pericoloso nemico interno costituito dai Mapuche con le sue organizzazioni sociali.
Il tema sta diventando sempre più attuale presso l’opinione pubblica sudamericana, soprattutto dopo la scomparsa forzata di Santiago Maldonado nell’agosto del 2017, primo desaparecido in Argentina dopo la dittatura (si veda il film documentario di Tristan Bauer, El camino de Santiago). La sua scomparsa e relativo ritrovamento del cadavere dopo otto mesi, l’assassinio di altri Mapuche in Argentina e in Cile, la detenzione e l’estradizione di Jones Huala sono il frutto della repressione applicata dai governi nazionali a partire dal 2015. Fu l’anno della restaurazione conservatrice con la creazione di un dispositivo mediatico-giuridico di criminalizzazione. Il 25 novembre 2017 viene assassinato Rafael Nahuel a Villa Mascardi.
Ultimo evento intollerabile, avvenuto in Cile, è stato l’uccisione a sangue freddo da parte dei Carabinieros de Chile, il 14 novembre 2018, di Camilo Catrillanco, un giovane mapuche di 24 anni, mentre lavorava la terra alla guida di un trattore. Questo fatto provocò una grande manifestazione a Santiago, repressa dalla polizia. La versione dei Carabinieros sull’assassinio fu smentita da cinque video, tanto da costringere il Presidente Piñera a destituire il generale Hermes Soto dal comando dei Carabinieros de Chile. In questo contesto di repressione e criminalizzazione dei Mapuche si colloca un’impresa italiana che, in contraddizione con la sua forte immagine antirazzista in Europa, ha un’attività di tutt’altro genere in Sudamerica di cui esiste una buona documentazione bibliografica. Non tutti conoscono la reale situazione nella Patagonia argentina nei terreni di proprietà della famiglia Benetton che ammontano a 924.000 ettari, acquistati nel 1991 all’epoca della grande svendita dell’Argentina da parte dell’allora presidente Carlos Menem (si veda il documentario di Fernando E. Solanas, Diario di un saccheggio).
L’azienda Benetton acquisisce nel 1991 la compagnia Tierras De Sur Argentino, divenendo proprietaria di 924.000 ettari di terra. La maggior parte di queste costituiscono il territorio ancestrale degli indigeni Mapuche argentini, che vengono sfollati dai luoghi dove hanno da sempre vissuto, anche se alcuni saranno impiegati come lavoratori dall’azienda. I Mapuche, il cui nome indica uomo della terra, rivendicano il loro antico possesso ancestrale e la reclamano nonostante la repressione e l’accusa di terrorismo (sul problema si veda il film di Fausta Quattrini, La nacion mapuche 2008 e di Christophe Coello e Sthéphane Goxe, Retour en terre mapuche, 2011). Nella repressione di una pacifica manifestazione contro la Benetton e la detenzione di un loro leader, Francisco Facundo Jones Huala, il 1 agosto 2017 è scomparso Santiago Maldonado, difensore dei diritti dei Mapuche. Su questi fatti c’è una ricca documentazione raccolta da Tristan Bauer nel suo film documentario El camino de Santiago (2018).
La storia di queste terre è dolorosa per i suoi abitanti originari. Nel 1896 il Presidente argentino Uriburu, dona a 10 cittadini inglesi circa 900.000 ettari di terra, nonostante la legislazione vietasse donazioni tanto estese e la concentrazione di terreno (aree superiori a 400.000 ettari), ad una sola persona o società. Poco tempo dopo le terre vengono vendute all’Argentinian Southern Land Company Ltd, violando nuovamente il divieto di vendita a fini di lucro delle terre donate. Quest’appropriazione dei possessi ancestrali mapuche è ben descritta nel libro del ricercatore Ramón M. Minieri, Ese ajeno sur. Un dominio británico de un millón de hectáres en la Patagonia (Viedma 2006). La Patagonia è integralmente un feudo inglese, come denunciò Raúl Scalabrini Ortiz nel 1939. Nel 1975 un gruppo di investitori compra un pacchetto di azioni della Argentinian Southern Land Company Ltd, il cui nome viene modificato nel 1982, a seguito della nazionalizzazione, in Compañía de Tierras Sur Argentino S.A. (CTSA).
Nel 1991, la Benetton acquista per 50 milioni di dollari il controllo della CTSA attraverso la Holding Edizione Real Estate, diventando la più grande proprietaria terriera del Paese con 924 mila ettari di terreno, 884 mila dei quali in Patagonia. Nelle terre di Benetton vengono allevati 260 mila capi di bestiame, tra pecore e montoni, che producono circa 1 milione 300 mila chili di lana all’anno i quali sono interamente esportati in Europa. Nello stesso terreno sono allevati 16 mila bovini destinati al macello. Inoltre, dalle notizie ricavate da documenti pubblici reperibili in internet, nel 1996 inizia lo sfruttamento di giacimenti di oro e di argento attraverso la Compañia Mineras Sur Argentino S.A. La storia di questo acquisto e sfruttamento delle terre ancestrali dei Mapuche è stata studiata ben descritta dall’antropologo della UBA Alejandro Balazote nel suo ultimo articolo inviatomi.
La Benetton investe 80 milioni di dollari in diverse attività, tra cui l’installazione di commissariati per il controllo della zona, la realizzazione di una stazione turistica e l’apertura del Museo Leleque. Per la creazione di quest’ultimo un’intera famiglia Mapuche è stata sfrattata, nonostante l’azienda abbia destinato il museo al racconto e alla conservazione della memoria della Patagonia e degli abitanti originari Mapuche. Questo museo è stato curato dal contestato antropologo Rodolfo Casamiquela, tacciato di razzismo, e considerato offensivo dalle comunità mapuche in quanto nega la loro preesistenza e le oppressioni subite dal colonialismo europeo. Contro le sue tesi è stato pubblicato un comunicato redatto dagli studiosi della Unidad de Investigación de Arqueología, dal titolo En desacordo con Casamiquela, Antropologos, Arqueólogos, Biólogos e Historiadores, pubblicato nel Diario de Madryn il 20 settembre del 2005.
Benetton riceve sussidi da parte del governo argentino per l’attuazione del suo piano d’investimento che prevede, tra gli altri, anche progetti di riforestazione, soprattutto di pini (circa 400 ettari all’anno). L’azienda, inoltre, attua una politica che incentiva il fenomeno della discriminazione lavorativa sui Mapuche. I rapporti con le popolazioni locali sono andati via via peggiorando a seguito della crescita del numero degli sfratti e della trasformazione delle terre ancestrali in comune terreno, fonte di lucro per l’impresa. I Mapuche, oltre a reclamare la restituzione delle loro terre ancestrali, contestano al governo argentino l’assenza di protezione sancita dalla Costituzione della Repubblica, la quale prevede che il Congresso riconosca la diversità etnica e culturale, la preesistenza dei popoli indigeni argentini, il loro diritto al possesso dei terreni tradizionalmente occupati, la personalità giuridica della comunità che si identifica come tale nonché la partecipazione diretta alla gestione delle risorse naturali. (Fonte CDCA, Centro Documentazione Conflitti Ambientali, 11 ottobre 2017).
Il conflitto del possesso della terra con le rivendicazioni delle popolazioni indigene viene trasformato dal governo nazionale, nonostante la Costituzione, in un problema di sicurezza pubblica. Le comunità mapuche coinvolte nella disputa territoriale vengono caratterizzate come violenti terroristi che mettono a rischio la proprietà e le persone (si veda Balazote). Aumentano comunque nel Paese dimostrazioni contro la politica del governo e contro la multinazionale Benetton. Una grande manifestazione si è svolta per le vie di Buenos Aires, confluendo in plaza de Majo, il giorno 1 di agosto 2018 per l’anniversario della scomparsa di Santiago Maldonado.
La contesa Benetton–Mapuche ha avuto il momento più drammatico, direi anche terribile, con la violenta cacciata da parte della Gendarmeria della famiglia mapuche Curiñanco dall’Estancia Santa Rosa, dove si erano stabiliti nel 2002 avvisando il commissariato locale e avvalendosi del diritto ancestrale. Qui iniziano ad allevare bestiame, creano un sistema di irrigazione e risistemano lo steccato. Risultato: dopo la causa perduta in tribunale nonostante le leggi che avrebbero potuto tutelarli, il 2 ottobre del 2003 i coniugi con i figli vengono sgomberati dagli agenti della gendarmeria, intervenuti a seguito di una denuncia da parte di Benetton. I campi e la casa distrutti, gli animali uccisi e le persone trascinate per i capelli. Questo fatto è l’inizio di una causa impopolare che ha contrapposto i Mapuche a Benetton. Nel 2004 interviene Esquivel con la sua lettera aperta. Su questa storia v’è un’abbondante documentazione in rete.
In quanto membro della Fondazione Benetton Studi Ricerche, venuto a conoscenza di questi fatti dai colleghi argentini dell’Universidad de Buenos Aires (UBA), frequentando l’Argentina e la stessa Università, ho riflettuto sul caso e affrontato un primo studio sulla documentazione, per la maggior parte raccolta dalla stessa UBA, sull’attività dell’azienda Benetton in Patagonia. Notata una notevole discrepanza tra l’attività della Fondazione e quella dell’azienda che le dà il nome e il cui presidente è Luciano Benetton, ho inviato una lettera di dimissioni allo stesso presidente e agli altri membri del comitato scientifico. In questa lettera rendevo note le ragioni etiche della scelta in sintonia con la mia coscienza. Speravo in una presa di coscienza da parte dello stesso Presidente Benetton e dal Comitato scientifico della Fondazione, che non c’è stata. Lamentavo anche una mancata risposta alla lettera aperta di Adolfo Pérez Esquivel, al signor Benetton del 14 luglio 2004, dove il premio Nobel per la pace gli pone la domanda «Chi ha comprato la terra a Dio?», con la richiesta della restituzione dei 385 ettari di Santa Rosa ai legittimi proprietari, «un gesto di grandezza morale». Esquivel chiede soprattutto a Luciano Benetton di andare in Patagonia perché «incontri i fratelli Mapuche e che divida con loro il silenzio, gli sguardi e le stelle». S’impegna anche di accompagnarlo dividendo con lui la voce del silenzio e del cuore. A quest’invito non ho trovato reale riscontro.
Luciano Benetton mi ha contattato tramite un suo delegato nella persona della compagna Laura Pollini AD di Fabrica che ho incontrato nella sede di Milano. Egli mi contestava il fatto che nella lettera di dimissioni sostenessi che non mi sembrava che avesse risposto alla nobile lettera di Esquivel, avendo tentato di donare 7500 ettari dopo un incontro con il premio Nobel a Treviso il 1 settembre 2004. Per questo motivo mi fa avere copia del carteggio con Esquivel e la relativa documentazione pubblica dei loro successivi incontri, purtroppo conclusi con un nulla di fatto nonostante la mediazione di Walter Veltroni, sindaco di Roma, del giornalista Gianni Minà e l’incontro romano con anche i coniugi Curiñanco.
Nell’incontro trevisano Esquivel ribadisce che nelle comunità le terre sono in comune, parla di diritto alla terra e di conseguente restituzione del terreno nonché di cooperazione sperando nella buona fede di Benetton. Dai documenti risulta un dialogo in cui Benetton non capisce o non vuole comprendere la cultura indigena, rivelando una totale mancanza di stima per “quelle popolazioni” come le chiama e dimostrando una totale ignoranza della cultura ancestrale. Mentre Esquivel cerca di far comprendere le istanze profonde del rispetto dei diritti di un popolo, chiedendosi se prevale il diritto originario, ancestrale, quello umanitario, naturale o altro. Benetton risponde da imprenditore con la questione delle regole facendo il paragone con l’Europa. Nonostante le diverse visioni del mondo dei due interlocutori, Esquivel cerca di far capire a Benetton che la restituzione della terra a una famiglia costituirebbe un grande gesto simbolico. Da qui parte il «dialogo» dove Benetton, pur manifestando una volontà di ricomposizione della faccenda non è assolutamente disposto a cedere i 385 ettari di Santa Rosa, rivendicati dai Mapuche come loro possesso ancestrale, ma disposto a donare 7500 ettari di terreno, dono che non viene accettato né da Esquivel, né dalla Provincia del Chubut né dallo Stato argentino a cui Benetton si è rivolto in ultima istanza.
Perché? La risposta ufficiale è che le terre offerte sarebbero improduttive. Inoltre, come dichiarato dallo stesso Premio Nobel, il governo del Chubut è fautore di una politica anti indigena. La vera ragione a nostro parere sta nel fatto che, oltre alla improduttività dei terreni, non richiesti dai Mapuche, nessuna persona o ente statale e provinciale si prenderebbe la responsabilità di accettare terreni per i Mapuche scavalcandoli di fatto. Per diritto ancestrale la richiesta indigena è per i 385 ettari di Santa Rosa dai quali sono stati cacciati i Curiñanco, che Benetton non vuole assolutamente cedere. Mi è stato detto dalla sua delegata che il motivo sta nel fatto che l’estancia Santa Rosa è dedicata alla madre dei fratelli Benetton che si chiamava, appunto, Rosa. Giustificazione che non ritengo plausibile e non pagante per un conflitto locale, perché, secondo una documentazione reperibile anche on-line ci sarebbero giacimenti auriferi e altro.
L’errore di Benetton a mio parere sta nel fatto che non ha instaurato direttamente un tavolo comune con i Mapuche dimostrando in questo modo l’assenza totale di stima verso «questa gente», come si evince dalla lettura del carteggio e dai comunicati. Solo un pacifico dialogo comune tra i diretti interessati può risolvere il conflitto in vista di un comune possesso della terra dove ogni attore può esaudire i propri bisogni. Occorre soprattutto che sia data ai Mapuche la visibilità che occorre per esprimere direttamente senza intolleranza la propria cultura. Occorre rompere il silenzio assordante calato su di loro con iniziative dove possano esprimersi. Su questo problema ho potuto raccogliere un’esauriente documentazione per un lavoro utile a far crollare quest’assordante silenzio. (Massimo Venturi Ferriolo, 2019)