Genar 2018. Kakaw(a).

 

 

 

 

 

 


 

“El mestée del mes” che inaugura il 2018 è riservato al cibo degli dei della tradizione storica mesoamericana: il cacao. Perché al cacao? Da quando ho memoria è sempre stato, soprattutto nella sua eccellenza creativa –il cioccolato-, una delle mie dolcezze e tentazioni assolute. Una introduzione sulle origini del cacao di Giorgio Samorini, due testi e due filmati sulle devastazioni ambientali e sulle tragiche condizioni di lavoro determinate dalla sua coltivazione fanno parte de “el mestée”. Testo e filmati sul lavoro minorile sono di qualche anno fa, ma la situazione non è affatto cambiata.

 

 

 

 

 

 

 

 

Intro. Origini del cacao.

 


Il cacao è rappresentato dalla specie botanica Theobroma cacao L., famiglia delle Malvaceae (ma alcune scuole botaniche lo considerano appartenere alla famiglia delle Sterculiaceae), un alberello alto 5-10 m, dotato da frutti lunghi 10-15 cm che fuoriescono in maniera caratteristica dal tronco dell’albero, e al cui interno, in mezzo a una polpa lattiginosa zuccherina, sono presenti 25-40 semi a forma di mandorla. Sono questi semi a rappresentare la droga chiamata cacao, i cui principi attivi sono gli alcaloidi metilxantinici teobromina, caffeina e teofillina.
Originario delle Americhe, sono riconosciute tre principali varietà di cacao: Criollo, Forastero e Trinitario, che sono state coltivate in Mesoamerica sin da almeno il II millennio a.C. Oggigiorno, le coltivazioni più estese di cacao si ritrovano in Africa. L’albero deve soggiacere a particolari condizioni di coltivazione: deve crescere in un ambiente con temperature medie annuali di almeno 25 °C e ad altitudini non superiori ai 500 m, e deve essere piantato sotto a un altro albero più grande, che in lingua nahua era chiamato cacahuanantli (“madre del cacao”), per poter svilupparsi sotto alla sua ombra. Dopo tre anni il cacao inizia a fruttificare, e la raccolta dei frutti viene fatta due volte all’anno.

 

 

 

Il Dio del Mais dai cui arti fuoriescono frutti dell’albero del cacao.
Scodella in pietra di provenienza ignota.
Periodo Maya Classico Arcaico.

 


Il cacao era conosciuto e apprezzato fra le popolazioni mesoamericane. Fra gli Aztechi era usato come cibo e come bevanda, ed era impiegato anche come medicina e come moneta. Il cacao veniva assunto insieme ai funghi allucinogeni, ai semi di ololiuhqui e ad altre fonti inebrianti (Paradis, 1979). Sahágun, nella sua Historia General de las Cosas de Nueva España scritta nel periodo 1547-1577, riferiva che “quando [il cacao] è nuovo se si beve molto ci si ubriaca”. Díaz del Castillo, nella sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva España del 1632, riportò effetti afrodisiaci del cacao, in un passo in cui descrive un banchetto offerto da Moctezuma, in cui venivano portate grandi quantità di cacao spumante “che dicevano che era per avere accesso alle donne”.
Presso i Maya il cacao era considerato uno status simbolo della casta elitaria, ed era simbolo di fertilità, sacrificio, rigenerazione e trasformazione (Martin, 2006). Considerato un cibo degli dei, il suo uso era principalmente cerimoniale. Il termine botanico Theobroma viene dal greco e significa, appunto, “cibo degli dei”. Nei Codici di Madrid e di Dresda è ripetutamente raffigurato come oggetto d’offerta alle divinità, ed è stato suggerito che il Dio M dei Codici fosse la divinità dei mercanti e dei coltivatori di cacao (Thompson, 1956).
Riguardo il luogo d’origine dell’albero del cacao e la genesi della sua coltivazione e domesticazione, si sono presentate tesi contrastanti, apparentemente risolte solo di recente mediante specifici studi genetici. Ritenuto inizialmente e a giusta veduta originario dell’America del Sud (Cheesman, 1944), successivamente per alcuni decenni la tesi più seguita è stata quella che vedeva due subspecie di cacao, T. cacao ssp. cacao e T. cacao ssp. sphaerocarpum, che si svilupparono separatamente rispettivamente in Nord e in Sud America. Secondo questa tesi, le piante selvatiche presenti nella foresta lacandona del Messico avrebbero potuto essere gli antenati del cacao addomesticato per come oggi lo conosciamo. La subspecie cacao corrisponderebbe alla forma Criollo, mentre la subspecie sphaerocarpum alla forma Forastero (Cuatrecasas, 1964). Tuttavia, studi genetici (Motamayor et al., 2002) hanno dimostrato che gli alberi della foresta lacandona non sono selvatici, bensì rappresentano forme inselvatichite delle antiche coltivazioni maya, e il gruppo Criollo nordamericano ha origini sudamericane, confermando la tesi già espressa da Barrau (1979) e da Schultes (1984) di un’origine totalmente amazzonica e del bacino dell’Orinoco della pianta del cacao, essendo questa l’unica area geografica dove sono presenti alberi allo stato selvatico. La sua diffusione in Mesoamerica fu per opera dell’uomo e delle sue migrazioni. Inoltre, le differenze genetiche fra la forma Criollo e quella Forastero non sarebbero tali da giustificare una suddivisione tassonomica in due subspecie.

 

 

 

Pittura da un vaso maya.
Donna che versa dall’alto la bevanda del cacao per ottenere la schiuma.
Tardo Classico.

 


Anche l’origine del termine “cacao”, originalmente pronunciato kakaw(a), è stata oggetto di discussioni fra gli studiosi. V’è chi ha voluto vedere un’origine dalle lingue Mixe-Zoque, quindi con tradizione olmeca (Campbell & Kaugman, 1976); altri vedono un’origine Nawa (Uto-Azteco) (Dakin & Wichman, 2000); uno studio più recente lo vedrebbe un vocabolo della famiglia linguistica Mije-Sokean, in uso presso gli Olmechi prima del 1000 a.C., che si diffuse in seguito verso le etnie del sud del Messico, sino a raggiungere le lingue maya in un periodo compreso fra il 200 a.C. e il 400 d.C. (Kaufman & Justeson, 2007).
Parrebbe che siano esistite differenti tecniche di preparazione delle bevande a base di semi di cacao, e che quelle più primitive fossero bevande fermentate. Dalla polpa del frutto, ricco in zuccheri, si può ricavare una bevanda fermentata alcolica con gradazioni del 5-7%, e i cronisti spagnoli del periodo della Conquista descrissero l’esistenza di una tale bevanda presso le popolazioni maya del Guatemala. Sempre dai testi dei primi cronisti sappiamo che il cioccolato veniva agitato per produrre una schiuma, considerata la parte più piacevole da bere sia fra i Maya che fra gli Aztechi, versando il liquido da un recipiente a un altro da una discreta altezza. (Powis et al., 2002). (Giorgio Samorini)

 

 

 

 

 

”The dark side of the chocolate”.

Regia di Miki Mistrati(2010).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il lato nero del cioccolato.

 


Mentre noi ci gustiamo la nostra barretta di cioccolato migliaia di ettari di foreste africane sono già scomparsi uccidendo animali ed interi ecosistemi. Alberi appartenenti a parchi nazionali e zone che dovevano essere protette sono diventate vittime della deforestazione per lasciar spazio all'industria del cacao.
La denuncia, multipla, che punta il dito contro la complicità del governo ivoriano e le disattenzioni delle principali aziende produttrici di cacao internazionali, arriva da un dettagliato report dell'organizzazione non governativa Mighty Earth. Per l'ong l'80% delle foreste della Costa d'Avorio, principale esportatrice di fave di cacao dato che è da lì che arriva il 40% del cioccolato al mondo, sono scomparse negli ultimi 50 anni. Non basta: il cioccolato che giunge sulle nostre tavole è spesso "illegale", dato che parte delle fave proviene da aree che dovevano essere protette ma, grazie a un sistema di corruzione e favoritismi, viene mischiato alle partite legali di fave.
Nel report vengono citate decine di aziende, dalla Mars alla Nestlè, la Lindt, Olam, Cargill, Barry Callebaut o l'italiana Ferrero che, come ha specificato il Guardian, testata che ha diffuso i dati in anteprima, non negano il problema spiegando di esserne a conoscenza e si dicono impegnate a fare di tutto per mettere fine alla deforestazione delle riserve.
Foreste un tempo rigogliose di ogni tipo di alberi e biodiversità, come quelle di Goin Debé, Scio, Haut-Sassandra, Tai, i parchi di Mont Peko e Marahoué, oggi stanno pian piano scomparendo e vengono bruciate per lasciare spazio alle fave: muoiono così decine di animali, gli scimpanzé sono costretti a vivere in piccoli fazzoletti di terra o gli elefanti diminuiscono drasticamente. "Le autorità ivoriane sono talvolta complici o inefficaci" ha dichiarato l'Ong. Rick Scobey, presidente della World Cocoa Foundation, non ha negato il fatto dicendo che "questo è un problema conosciuto da anni. All’inizio dell’anno, 35 aziende del settore hanno deciso di unire le loro forze per lanciare una nuova partnership con il governo ivoriano e terminare la deforestazione in Ghana e Costa d’Avorio".
Intanto negli ultimi mesi il prezzo del cacao sul mercato è sceso del 30% e il prezzo minimo garantito ai produttori è passato da 1.100 a 700 franchi Cfa (1,17 dollari) anche se la domanda di cioccolato resta alta. Nella catena, i commercianti di cacao che vendono ai grandi marchi si rivolgono sempre più a coltivatori illegali che crescono le piante in aree protette, le stesse dove la foresta pluviale si è appunto ridotta dell'80% dal 1960 ad oggi. Il prodotto illegale si mescola così, durante il processo di fornitura, con le fave di cacao lecite, rendendo difficile la tracciabilità. Di questo passo però, ricorda il report, la Costa d'Avorio (ma anche il Ghana soffre) sta perdendo le sue foreste a un tasso velocissimo: oggi meno del 4% del paese è coperto da foreste pluviali mentre un tempo lo era almeno il 25%. Per Mighty Earth se non si metterà fine a tutto ciò entro il 2030 non rimarrà più traccia delle foreste.
All'interno dei parchi i coltivatori illegali, nonostante le parole e l'impegno di esecutivo e aziende, continuano a bruciare alberi per favorire la crescita delle piante di cacao dato che hanno bisogno di molto sole per crescere. Il governo dice di voler combattere questa pratica e essere impegnato nella conservazione dei parchi ma, secondo Ong e testate internazionali che monitorano il problema, in concreto non fa molto. Negli anni, alcuni attivisti e associazioni che si sono avvicinate alla filiera del cacao nell'Africa Occidentale sono stati minacciati o allontanati e nel 2004 il giornalista Guy-André Kieffer, che lavorava su una storia di cioccolato e corruzione, è scomparso, probabilmente ucciso.
In questo contesto, dove tra l'altro molti dei lavoratori delle piantagioni non hanno nemmeno i soldi per permettersi una barretta di cioccolato, una data molto attesa da parte delle ong è quella di novembre: allora, al vertice sul clima di Bonn, l'argomento dovrebbe essere all'ordine del giorno. A inizio anno il Principe Carlo convocò amministratori delegati e dirigenti di 34 aziende del settore proprio per esortarle ad agire sulla deforestazione: allora, la promessa fu quella di un piano concreto da proporre durante l'incontro in Germania. La speranza, usando i termini del cioccolato, è che stavolta prevalga davvero la linea dolce dell'impegno e non quella amara dell'indifferenza. (Giacomo Talignani, 2017)

 

 

 

 

per vedere il documentario clicca sulla locandina

 


"Chocolate's Child Slaves"

Regia di David McKenzie - Brent Swails, CNN 2012.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tratto da: “Globalizzazione e diritti umani: lo sfruttamento di lavoro minorile nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio e Ghana”.
Serena Cadamuro, 2014.

 

 

Il lavoro minorile ed il traffico di minori nelle piantagioni. Dati e testimonianze.
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) l’Africa sub-sahariana registra la più alta percentuale di minori lavoratori con un’età compresa tra i 5 e i 14 anni. Nel 2008 il tasso di occupazione era del 28,4% circa 58,2 milioni di bambini. La maggior parte di questi bambini lavora nel settore agricolo ed in particolare nelle fattorie in cui si coltiva il cacao. In Costa d’Avorio i paradossi sono evidenti: la produzione di cacao è così diffusa nella parte meridionale del paese, tanto da vantare il primato di maggiore produttore mondiale di semi di cacao del mondo, esportandolo per un valore di 3.606 milioni di dollari, ma allo stesso tempo la povertà a causa della volatilità dei prezzi e del sottosviluppo è dilagante, infatti secondo l’indice di sviluppo umano nell’ultimo report del 2014 la Costa d’Avorio si trova al 171 posto su 187 paesi con un tasso di povertà del 48,9% in cui la popolazione vive con meno di 2$ al giorno.
Il vicino Ghana, il numero due nella produzione mondiale di cacao in Africa Occidentale, registra esportazioni per 1.508,7 milioni di dollari ed, al contrario della Costa d’Avorio che cerca ancora di riprendersi dalla guerra civile dal 2002, gode di una discreta stabilità politica grazie anche alle recenti elezioni del 2012 che hanno portato al governo il democratico John Mahama. Ciò nonostante, il 28,6% della popolazione vive in condizioni di assoluta povertà con un PIL pro capite di meno di 2$ posizionandosi al 138 posto su 187 nello Human Development Report del 2014.
In questi contesti, la coltivazione del cacao rimane una grande fonte di sopravvivenza per la maggior parte delle piccole famiglie; è la coltura dei poveri che viene coltivata con il solo lavoro delle mani senza l’ausilio di macchinari, troppo costosi da acquistare. Per tutte le ragioni affrontate nei paragrafi precedenti, il prezzo molto basso, che viene conferito loro al momento della vendita del raccolto non consentirebbe agli agricoltori di continuare la produzione di cacao con dei subordinati regolarmente pagati e così si affidano alla manodopera dei componenti più piccoli della famiglia o delle famiglie vicine, non corrispondendogli alcun salario. È questa la ragione per cui il lavoro dei minori è così diffuso nelle aree rurali dei paesi del Ghana e della Costa d’Avorio. I dati che parlano di minori lavoratori sono sempre molto vaghi, e ricercando tra le varie fonti di informazione non risulta una chiara quantificazione di bambini impiegati nella coltivazione di cacao soprattutto perché c’è spesso un rifiuto da parte dei contadini di ammettere l’esistenza di bambini lavoratori nelle loro piantagioni. Alcuni dati riportati nel report d’indagine dell’International Institute for Tropical Agricolture (IITA) pubblicato nel 2002 in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’agenzia americana per lo Sviluppo Internazionale e il Dipartimento americano del Lavoro intitolato “Child Labor in the Cocoa Sector of West Africa. A synthesis of findings in Cameroon, Côte d’Ivoire, Ghana, and Nigeria” rivelano che 284 mila bambini lavorano nelle piantagioni di cacao in tutti i maggiori paesi esportatori, con la maggior parte di minori impiegati in Costa d’Avorio, circa 200 mila ed un numero approssimativo di 12 mila bambini, secondo lo studio, lavoravano nelle fattorie della Costa d’Avorio senza nessun legame diretto con i proprietari, quindi lontani dalla protezione delle loro famiglie.
Tra questi minori alcuni sono considerati più a rischio perché costretti a svolgere mansioni pericolose come l’applicazione di pesticidi (142 mila in Costa d’Avorio) o l’uso di machete (in prevalenza in Costa d’Avorio ma presenti in modo diffuso in tutti i paesi produttori), oppure il caso di bambini trafficati (circa 2 mila in Costa d’Avorio) senza uno stretto legame con i proprietari della piantagione (circa 12 mila).
Per reclutare minori nella coltivazione del cacao, spesso si ricorre anche allo strumento del traffico di esseri umani, pratica diffusa per richiamare i bambini provenienti dai paesi limitrofi come Mali e Burkina Faso. Secondo il report dell’IITA in ogni comunità e paese in cui è stato somministrato il questionario è presente la pratica del traffico minorile anche se è stata registrata una percentuale ben inferiore rispetto ai numeri stimati, probabilmente perché il traffico di esseri umani è il più difficile da documentare. La pratica avviene come una compravendita con i genitori del bambino dove viene stipulato un prezzo, oppure avvicinando solo il bambino; il report “The cocoa Industry in West Africa: A history of exploitation”, di Anti-Slavery International, riporta la testimonianza di un agricoltore immigrato in Costa d’Avorio dal Burkina Faso dove ripercorre i passaggi che compie per il reclutamento di bambini dal suo villaggio natale: “When I need workers I go back to my village in Burkina Faso and tell my relatives that I want people to help me on my cocoa farm. If they have children who are still in the village, they will send them with me. I settle on a price with their fathers for each child and on the number of years they will stay. The father then sends them to my farm or, if they are too small to find their way, my brother goes to get them. I pay about 100,000 CFA (ca £100) when the child is older, and 70,000 CFA (ca £70) when the child is small”.
Da questa testimonianza si evince quindi, la presenza, oltre che del lavoro minorile, anche di traffico di esseri umani, che secondo la Convenzione n.182 dell’OIL rappresenta una delle peggiori forme di lavoro minorile assieme al lavoro forzato, la prostituzione, il reclutamento in conflitti armati ed altre attività illecite come lo spaccio di droga. Il fenomeno del traffico di minori in Africa Occidentale è particolarmente difficile da documentare e da quantificare, in quanto viene considerato illegale anche nei paesi in cui viene compiuto. Nel 2002-2003 l’Economic Community of West African States (ECOWAS) ha dato vita all’ Initial Plan of Action against Trafficking in Persons rafforzando i controlli tra le frontiere e ampliando la diffusione delle informazioni sul fenomeno, cercando di sgominare le bande di trafficanti di bambini. Spesso risulta essere complicato tenere sotto controllo le frontiere data la furbizia dei trafficanti che si muniscono di pulmini in cui spesso sono le donne a trasportare i bambini, dando meno nell’occhio in quanto giocano la parte di un gruppo di mamme o parenti che trasportano i loro bambini.
Nel 2009 un documento della polizia ivoriana parla di un blitz eseguito grazie alla guida dell’Interpol, in cui sono stati salvati 54 bambini di sette diverse nazionalità, tutti costretti a lavorare in condizioni disumane ed a portare carichi pesanti; avevano tra gli 11 e i 16 anni, e i lavori che facevano avevano tutta l’aria di essere estremamente dannosi per il loro sviluppo psicofisico. Dichiararono alla polizia di lavorare continuamente per 12 ore al giorno senza ricevere né un salario, né un’educazione. Nel blitz otto persone vennero arrestate con l’accusa di reclutamento illegale di bambini. I reclutatori parlano sempre di una vita migliore in Costa d’Avorio e offrono salari molto alti per adescare i bambini, circa 225$ all’anno, secondo Save the Children Canada. La giornalista Corinna Schuler nel 2000 ha viaggiato tra il Mali e la Costa d’Avorio per documentare il traffico di bambini alla frontiera che poi ha riportato nell’articolo “Child Slaves Caught in Glittering Traps” pubblicato nel National Post. Tra le tante persone che ha incontrato nel suo viaggio, ha intervistato anche Abdoulaye Cisse, il presidente del sindacato locale degli autisti che ha studiato per anni il fenomeno scoprendo ogni minimo segreto dei trafficanti: i trasportatori portano anche sette o otto bambini nei loro furgoncini e non possono rifiutarsi di farlo perché sono dei semplici autisti; i bambini vengono prima tenuti in una stanza finché qualcuno non li porta al di là del confine, in Costa d’Avorio, dove ogni settimana passano moltissimi furgoncini senza alcun controllo di documenti o visti. Una volta arrivati in Costa d’Avorio i bambini vengono controllati nuovamente e preparati per la vendita finale; il prezzo varia a seconda delle capacità fisiche del ragazzo ma generalmente i trafficanti guadagnano l’equivalente di 37$ per le spese di trasporto e 42$ di commissione. Un furgone con otto bambini fa guadagnare al trafficante circa 632$, una cifra davvero esorbitante.
La giornalista ha raccolto anche la testimonianza di due fratelli Moumouni e Seydou Sylla originari di Sikasso nel Mali, scampati fortunatamente dallo sfruttamento nella piantagione di cacao. La loro storia è un esempio di come avvengono le trappole dei reclutatori in queste zone: un giorno un uomo affianca il suo furgone e chiede loro se sono alla ricerca di un lavoro, il loro sogno di avere una bicicletta ed un paio di jeans li spinge a dire sì senza esitazione, la risposta fu subito fra le più accattivanti “I'll take you to someone who will give you a job. You won't even have to pay for transportation". Il giorno dopo i fratelli Sylla si trovarono chiusi in una capanna senza finestre venduti per il prezzo di 63$. Raccontano che il periodo che seguì fu caratterizzato solo da duro lavoro, pestaggi, privazioni e notti in baracche senza finestre con altri sedici ragazzini, tutti provenienti dal Mali, senza materassi o coperte, tenuti svegli dalla costante paura. La promessa di uno stipendio li faceva andare avanti, ma il primo anno la scusa del padrone fu che il raccolto non era stato buono e per questo neanche i profitti così non sarebbe stato in grado di pagarli, lo stesso anche l’anno successivo, e l’anno della paga non arrivò mai. Il lavoro era pesante, ma erano costretti a farlo perché il padrone vigilava continuamente su di loro con una pistola in mano o li picchiava se si dimostravano deboli nel lavoro. Ai tempi del reclutamento Moumouni e Seydou avevano rispettivamente 14 e 16 anni, posto che potrebbero anche aver avuto l’età giusta per lavorare, i due passarono cinque anni sgobbando e senza mai ricevere un soldo, dopo essere stati addirittura trafficati.
Se c’è una persona che si è battuta in ogni modo per fermare il traffico di bambini, questa è Abdoulaye Macko, il console generale del Mali in Costa d’Avorio. La sua attenzione venne attirata da storie che sentiva in giro di bambini molto piccoli, anche di nove anni appena che lavoravano nelle fattorie dove si produceva il cacao senza essere affidati a nessun parente e senza essere pagati. Le voci gli arrivavano da uomini del Mali impiegati nel trasporto di cacao (i pisteurs) che gli riferivano quanto avevano visto nelle fattorie. Parlavano di ragazzini molto giovani che lavoravano sotto la minaccia delle armi, con poco cibo, picchiati che vivevano in uno stato di schiavitù. Con il tempo quella di liberare i bambini dalle cattive condizioni delle piantagioni di cacao divenne per Macko una vera ossessione, organizzando delle vere e proprie squadre di indagine costituite da pisteur, pastori, mezzadri e coltivatori che formavano la sua rete personale di informatori visto che il console per il lavoro che faceva poteva lavorare solo su una porzione ristretta di territorio. Poco a poco la gente cominciò a parlare dicendo apertamente quello di cui era a conoscenza e anche i bambini vennero a sapere di un uomo buono del Mali che li voleva aiutare, così si facevano avanti quando si recava in visita nelle fattorie. La sua testimonianza racconta di bambini terrorizzati e coperti di povere e con i vestiti a brandelli che raccontavano le atrocità che avevano vissuto, avevano tra i 10 e i 18 anni e mostravano le cicatrici che avevano sulla schiena e le spalle imputabili al peso dei sacchi e dei pestaggi.
È molto toccante la storia di uno dei bambini salvati dal console Macko, raccolta nel libro di Carol Off “Cioccolato amaro. Il lato oscuro del dolce più seducente” si parla di Malick Doumbia un quattordicenne del Mali, la cui famiglia verteva in condizioni di estrema povertà, che decise di dare una svolta alla sua vita e quella della sua famiglia partendo, all’insaputa dei suoi genitori, per Sikasso, snodo dell’Africa Occidentale che porta con facilità in tutte le regioni limitrofe, anche in Costa d’Avorio. Qui Malick trovò un uomo che gli offrì un lavoro; lui accettò immediatamente e venne subito trasportato nella fattoria dove incontrò il suo futuro padrone per cui lavorò per svariati anni senza mai essere pagato, con ritmi massacranti e adoperando uno strumento molto lungo simile al machete con un uncino alla sua sommità che usava per tagliare i baccelli pieni di semi di cacao. Poi incideva la fava, estraeva i semi e li metteva ad essiccare su una rete; spesso, quando il padrone non lo vedeva mangiava qualcuno di quei semi che riuscivano a dargli energia per tutta la giornata. Quando poi venne a conoscenza dell’esistenza di un uomo buono riuscì a scappare per farsi aiutare da lui.
L’attività di Macko durò dal 1997 al 2000 salvando centinaia di bambini, anche se chi aveva più potere di lui non ammetteva con facilità l’esistenza del problema. La ragione principale della loro ritrosia era per il fatto che gli scambi commerciali del Mali erano possibili solo grazie ai legami con la Costa d’Avorio, in più il denaro delle rimesse che gli immigrati mandavano a casa era una risorsa importante per l’economia del paese. Per risolvere il problema alla base e far tacere le malelingue, Macko venne rimosso dal suo incarico e gli venne ordinato di far ritorno in Mali.
In rete si possono incontrare moltissimi documentari e testimonianze fondamentali per l’indagine sullo sfruttamento minorile nelle piantagioni di cacao in Africa Occidentale come quello girato nel 2000 da Brian Woods e Kate Blewett intitolato “Slavery–A global Investigation”, che viene considerato come il documentario che ha dato il via alla mobilitazione internazionale sul tema dello sfruttamento minorile nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio e Ghana, in quanto per la prima volta i consumatori di cacao si sono resi conto che cosa succedeva in alcune parti del mondo per la produzione del cacao che tanto amavano. Il loro documentario si suddivide in tre parti che studiano la situazione dell’industria di fabbricazione dei tappeti in India, delle collaboratrici domestiche schiavizzate e maltrattate a Washington e nel Regno Unito e dell’industria del cotone in Africa Occidentale, che poi si è trasformata nell’esplorazione dell’industria del cacao, dato che i due giornalisti sono arrivati in Costa d’Avorio nel bel mezzo della stagione di raccolta del cacao.
Come Nevinson nel 1904, anche Brian Woods e Kate Blewett si recarono direttamente nelle piantagioni di cacao per scoprire con una telecamera nascosta cosa succedeva in quei luoghi. Ma era una novità ai tempi, pochi o quasi nessuno aveva avuto il coraggio di spingersi fino a tanto. Nel documentario si vedono gli adolescenti salvati dal console Macko che raccontano di pestaggi, fame e condizioni di vita pessime e di non essere mai stati pagati dopo un anno di lavoro; nella perlustrazione delle piantagioni di cacao, in una fattoria è visibile un’unica baracca provvista di una grande serratura con lucchetto, a differenza delle altre che avevano solo ingressi fatiscenti. In molti sono stati pronti ad ammettere che avevano pagato per avere i bambini al lavoro presso di loro, ma non ci vedevano niente di male, era solo un accordo commerciale, e giustificavano le piaghe e le ferite come risultato della lotta tra i ragazzi. Uno dei proprietari afferma che non tutti i lavoratori erano liberi di lasciare la piantagione, infatti dovevano stare attenti ai più giovani perché se fossero scappati, sarebbe stato una grande perdita per l’investimento che avevano fatto.
Nel 2000, quando è stato girato il documentario, il cacao aveva raggiunto il suo minimo storico proprio nel febbraio di quell’anno, arrivando a pagare ai contadini un prezzo tra i più bassi mai visti nella storia. Così risulta impossibile cambiare le cose e debellare lo sfruttamento di lavoro minorile in quanto, come sostiene il prof. Kevin Bales dell’ “UNWorking Group on Contemporary Slavery”, se la maggior parte dei prodotti che si trovano nel mercato sono stati fatti con il lavoro minorile, succede che anche se alcuni sono stati prodotti da lavoratori regolari dovranno sempre competere con quelli fatti dal lavoro di irregolari, che spingono il prezzo in basso. Il consumatore propenderà consumare prodotti a basso costo, aumentando così i profitti delle grandi multinazionali che lucrano sul prezzo che gli viene corrisposto, pagando al produttore solo una minima parte. La soluzione che il Prof. Bales propone non è quella del boicottaggio che aggraverebbe ancor di più la situazione, ma quella di affidarsi al commercio equo e solidale in modo che il consumatore paghi il giusto prezzo per quello che compra e i proprietari terrieri ricevano il giusto compenso per il loro lavoro così da non essere più costretti ad assumere lavoratori irregolari per produrre.
(…)
Un altro documentario interessante è “Chocolate, the bitter truth” di Paul Kenyon, che indaga sulla presenza di bambini nelle piantagioni e delle loro condizioni, riuscendo nell’intento di salvare uno dei bambini di una fattoria in cui si coltiva il cacao in Ghana di nome Fatault. Quando viene intervistato, grazie all’aiuto di un interprete, mostra qual è il suo lavoro quotidiano all’interno della fattoria: sale sugli alberi per arrivare ai baccelli di cacao più alti, usa il machete per intagliare le cabosse e non frequenta la scuola. Non è ancora stato pagato, sarà lo zio a riscuotere alla fine del periodo di lavoro perché entrambi i suoi genitori sono morti. In realtà solo il padre è morto, la madre abita in Burkina Faso, ma aveva lasciato il figlio in custodia dallo zio che avrebbe dovuto mandarlo a scuola mentre lei guadagnava qualcosa dalla sorella maggiore, ma non era a conoscenza del fatto che il figlio lavorasse in una fattoria in cui si coltiva il cacao. Non lo vede da un anno, ma grazie alla polizia locale il bambino viene recuperato dalla fattoria e ricongiunto alla madre.
Nella stessa fattoria, altri dieci o undici bambini provenienti da stati vicini, a detta di un lavoratore più grande, lavorano li senza andare a scuola o percepire la paga. I capi della fattoria, Pappa Gyan e un altro uomo, negano l’esistenza di bambini lavoratori all’interno della loro fattoria, e giustificano Fatault come un bambino di amici di famiglia che lavora li. Quando, alla fine Fatault è stato salvato dalla polizia i due uomini sono stati arrestati con l’accusa di impiego di lavoro minorile. Per questo tipo di reato è prevista una pena di un minimo di cinque anni. In Costa d’Avorio, Paul Kenyon, visita due fattorie, a Daloa e Soubre, in cui acquista dei semi di cacao per venderli poi al Porto di San Pedro. Anche qui vengono usati piccoli lavoratori. A Daloa due ragazzi di 11 e 8 anni lavorano con il machete per aprire le cabosse sotto la supervisione di un uomo che racconta di essere il padre di uno e il fratello dell’altro bambino. In questo caso i bambini non sono stati trafficati e sarebbe legale aiutare i genitori o i parenti più stretti nel lavoro, ma questi bambini non vanno a scuola, il che rappresenta una delle peggiori forme di lavoro minorile secondo la Convenzione n. 182 dell’OIL perché il lavoro va ad interferire con la frequenza scolastica.
Paul Kenyon nella sua indagine, si comporta come un vero compratore di cacao e porta a termine una compravendita con i proprietari delle due fattorie ivoriane di Daloa e Soubre, lungo la strada che porta al Porto di San Pedro, dove prova a vendere il cacao, coltivato anche con il lavoro dei bambini. Tutto il cacao viene depositato in un magazzino, dove risulta impossibile poter risalire alla sua provenienza, è qui che si perde ogni possibilità di tracciabilità per provare se il cacao è stato prodotto con il lavoro dei bambini o no. Con tutte queste testimonianze, è utile soffermarsi su un particolare e cioè su quanto sia pericoloso il lavoro che svolgono i bambini occupati nelle piantagioni di cacao.