Setember 2017. Obsolescenza programmata.

 

 

 

 

 

“El mestée del mes” è dedicato al volume “Usa e getta” di Serge Latouche, che affronta il tema dell’obsolescenza programmata. Partendo da una analisi delle diverse tipologie di obsolescenza storicamente verificatesi nelle società cosiddette evolute, ne evidenzia le conseguenze socio-economiche e ambientali nelle stesse società e le ricadute sull’intero pianeta. Riporto due stralci, con l’invito ovviamente alla lettura dell’intero testo.
A integrazione il docu-film di Cosima Dannoritzer “Comprare Buttare Comprare”, citato più volte nel testo.
A Latouche, professore emerito di scienze economiche all’Università di Paris-Sud, dedicai già nel gennaio 2013 il “mestée”.

 

 

 

 

 

 

 

 

La parola e la cosa. Definizione e natura dell’obsolescenza programmata.

 

Fino a pochi anni fa il termine “obsolescenza” era poco conosciuto tra il grande pubblico. ln Francia compare nei dizionari soltanto a partire dagli anni cinquanta, anche se probabilmente era utilizzato dagli economisti già da qualche tempo. Si tratta di un termine introdotto dapprima in Inghilterra (nel 1828, secondo la maggior parte delle fonti), a partire dal latino “obsolescens”, participio presente del verbo “obsolescere”, che significa “cadere in desuetudine”. Mentre il termine ci arriva d'Oltremanica, l'aggettivo “obsoleto”, con cui si intende “fuori uso”, esisteva già da molto tempo (XVI secolo). “Obsoleto” viene dal latino “obsoletus”, “caduto in desuetudine”, participio passato di “obsolere” (sinonimo di “obsolescere”), che viene a sua volta dal verbo “solere”, “essere solito”.
La parola “obsolescenza” compare all'alba del XX secolo, quando degli apparecchi domestici moderni cominciano a sostituire le vecchie stufe e i caminetti. Thorstein Veblen, nella sua “Teoria della classe agiata” (1899), mostra una particolare predilezione per questa parola e contribuirà ad assicurarne la diffusione. Nel XIX secolo si parlava piuttosto di “adulterazione dei prodotti” per indicare una forma di truffa sulla qualità o sulla quantità allo scopo di ridurre i costi, ma anche di stimolare la domanda. La spinta ad accelerare l’usura, il consumo e il rinnovo degli oggetti, soprattutto delle attrezzature, è una tentazione assai comprensibile da parte dei produttori, il cui obiettivo è di vendere sempre di più. Possiamo dunque considerare l’adulterazione come l’antenato europeo dell'obsolescenza programmata, nata negli Stati Uniti.
Esistono tre forme di obsolescenza: tecnica, psicologica e pianificata. Tutte e tre hanno una lunga storia, ma il loro uso passa a una velocità superiore con il capitalismo industriale e ancora di più con la società dei consumi di massa. La prima indica il declassamento di macchine e apparecchi dovuto al progresso tecnico, che introduce miglioramenti di ogni tipo. La locomotiva a vapore rende obsoleta la diligenza, e lo stesso avviene con la macchina da cucire a pedale rispetto alla macchina a manovella e con la macchina elettrica rispetto a quella a pedale. Il fenomeno dunque è molto antico e risale almeno alla comparsa dell'homo faber, o homo habilis. Così come l'ascia levigata aveva declassato l'utensile grezzo del paleolitico, è stata declassata dall'ascia di bronzo, a sua volta declassata da quella di ferro, in attesa della motosega...
Tuttavia, fino a quella che va sotto il nome di “rivoluzione industriale”, i cambiamenti avvenivano in migliaia di anni. La prima forma di obsolescenza ci è diventata familiare soltanto con la modernità. Il fenomeno, come si può capire, assume tutt’altra ampiezza con il capitalismo e quelle che Schumpeter ha graziosamente definito “le tempeste di distruzione creatrice”, che scuotono questo modo di produzione. Di conseguenza, le imprese si trovano di fronte a un problema spinoso di ammortamento delle loro attrezzature, che deve avvenire non sulla base della speranza di vita reale delle macchine ma in funzione della comparsa di probabili innovazioni. Si capisce anche che sotto questo aspetto l'obsolescenza sia rimasta per lungo tempo confinata nel mondo degli affari.
La seconda forma, l’obsolescenza psicologica, indica invece la desuetudine provocata non dall’usura tecnica o dall'introduzione di una innovazione reale, ma dalla “persuasione occulta”, cioè dalla pubblicità e dalla moda. La differenza tra il prodotto nuovo e quello vecchio si limita alla presentazione, al look, al design, o all'imballaggio.
L’obsolescenza programmata, infine, che è al centro dell'analisi di questo saggio, sta a indicare l`usura o la difettosità artificiali. Se compare in quanto tale soltanto negli anni trenta, la pratica non è del tutto nuova. Nel XIX secolo si parlava piuttosto di “adulterazione dei prodotti” per indicare una forma di imbroglio sulla qualità o sulla quantità, teso a ridurre i costi ma anche a stimolare la domanda. Il desiderio di accelerare l’usura, il consumo e il rinnovo degli oggetti, in particolare delle attrezzature, è una tentazione più che comprensibile da parte dei produttori, il cui obiettivo è di vendere sempre di più. Si può dunque considerare l'adulterazione come l'antenato europeo dell'obsolescenza programmata nata successivamente negli Stati Uniti. In questo caso, il prodotto viene concepito fin dall'inizio dal produttore per avere una durata limitata, e questo grazie all'introduzione sistematica di un dispositivo ad hoc. Può trattarsi, per esempio, di un chip elettronico inserito in una stampante per farla bloccare dopo 18.000 copie, o di un pezzo fragile che provoca un guasto dell'apparecchio appena dopo la scadenza della garanzia. Come definire precisamente questa nuova forma di obsolescenza? Quale è la sua natura esatta?

 

 

 

 

 

 

 


Tentativo di definizione.

 


Nel 1832 Charles Babbage, professore di matematica a Cambridge, ha descritto per la prima volta l'obsolescenza tecnica, ancora senza battezzarla in questo modo, come un fenomeno inerente alla rivoluzione industriale. All'epoca si trattava soltanto del declassamento dei prodotti o delle macchine dovuto all'innovazione. E la sola forma di obsolescenza non completamente deliberata, e la sola che i dizionari francesi conoscono.
Il Larousse ne dà la definizione seguente: “Deprezzamento di una macchina o di una attrezzatura, che tende a renderle superate per il solo fatto dell'evoluzione tecnica, e che si aggiunge agli altri fattori di deprezzamento”. Gli economisti europei hanno studiato soltanto questo aspetto di un ingranaggio essenziale per la riproduzione accelerata della domanda, cioè quello dell'innovazione tecnica. Il “Dictíonnaire des sciences économiques” di Jean Romoeuf parla di usura morale in opposizione all’usura fisica: “Un utensile, ad esempio, si consuma producendo. L’ammortamento ha esattamente lo scopo di permettere il rinnovo dell'utensile consumato. Ma di quale utensile? Lo stesso? In molti casi, il progresso tecnico, proponendo macchine più perfezionate, fa sì che un utensile nuovo sia comunque invecchiato per il fatto di essere comparso, per quanto di poco, prima della nuova invenzione”.
L'obsolescenza programmata o pianificata (planned), è un’invenzione specificamente statunitense, che si è diffusa nel resto del mondo al ritmo della american way of life, e ancora di più con la globalizzazione. Piero Bevilacqua descrive esattamente il fenomeno: “La planned obsolescence, l'obsolescenza programmata delle merci, cioè la breve durata di vita dei prodotti, è un’innovazione della tecnologia americana. Un'invenzione utilizzata dagli ingegneri nei processi industriali che poi si è affermata nella maggior parte del mondo. Si fabbricano i prodotti in modo che abbiano vita corta, che finiscano rapidamente nella pattumiera, che non siano riparabili, che spingano il consumatore a comprarne di nuovi e a un ritmo sempre più accelerato”.
La seconda forma di obsolescenza, l'obsolescenza psicologica o simbolica, antica all'incirca quanto l’umanità stessa con il fenomeno della moda, negli Stati Uniti si è trasformata attraverso la contaminazione con la prima forma, quella tecnica. Forse è per questo che viene trattata nel dizionario di Jean Romoeuf: “La pubblicità, i cambiamenti della moda, l’evoluzione dei modi di vita, contribuiscono anch’essi a invecchiare prematuramente le attrezzature di fabbricazione, perché i loro prodotti non rispondono più alla domanda o alla stessa domanda”. Invece, i dizionari di economia e di gestione e altri lessici di scienze sociali oggi disponibili sul mercato danno soltanto la definizione di obsolescenza tecnica. Anche se ovviamente non pretendo di aver spulcíato tutti i dizionari specializzati, nelle mie ricerche non ho trovato nessun riferimento all'obsolescenza programmata.
Se l'obsolescenza tecnica non è che l'effetto più o meno inevitabile del progresso tecnico dell'industria e, in quanto tale, è inerente alla modernità, le cose stanno in modo del tutto diverso per quanto riguarda le altre due forme di obsolescenza. Una fase nuova della storia dell'obsolescenza inizia nel 1923, con il lancio della Chevrolet da parte della General Motors, in concorrenza con la Ford. Tecnicamente, il prodotto non era migliore, ma tutto stava nel look. Siamo di fronte dunque all’obsolescenza psicologica, simbolica o estetica, in alcuni casi definita anche “dinamica”. Si trattava di manipolare il consumatore con la pubblicità per convincerlo a cambiare modello ogni due o tre anni. Nel 1928 si parlava di obsolescenza progressiva, e nel 1932 venne addirittura coniato il neologismo senza futuro di obsoletismo.
Anche se non è accertato se l’espressione planned obsolescence (obsolescenza programmata) fosse utilizzata già in precedenza dagli industriali, è a Bernard London -suo ardente propagandista in un senso assai particolare- che se ne deve l’uso sistematico. In senso stretto, l'espressione dovrebbe riguardare soltanto l'estinzione di un prodotto dovuta al fatto che il produttore vi ha inserito di proposito un pezzo difettoso destinato a limitarne la durata. Sarebbe meglio dunque parlare di obsolescenza incorporata (built in), ma l’uso ha deciso diversamente. Più in generale, per Giles Slade, “l’obsolescenza programmata è un'espressione-contenitore utilizzata per descrivere un insieme di tecniche messe in opera per ridurre artificialmente la durata di un bene manifatturiero, in modo da stimolare il rinnovo del suo consumo”. In effetti è difficile distinguere nettamente gli aspetti tecnici dagli aspetti simbolici, le forme dirette dalle forme indirette. Dato che ogni mezzo è buono per accelerare il consumo, il sistema programma tutte le forme di obsolescenza, che dunque rientrano nella categoria di obsolescenza pianificata in senso lato, anche se bisogna sempre cercare di distinguere tra l’elemento del difetto tecnico e quello della moda.
Nel 1934 Lewis Mumford descrive il fenomeno senza però utilizzare l'espressione “obsolescenza programmata”, segno che non è ancora entrata nell’uso corrente. Il conio dell’espressione è stato rivendicato (a torto) da un famoso designer di Milwaukee, Clifford Brooks Stevens, negli anni cinquanta. Stevens creava sistematicamente nuovi modelli, privi di migliorie tecniche, per spingere i consumatori a comprare nuovi prodotti senza che i precedenti fossero fuori uso, e definiva questa pratica come una programmazione dell'obsolescenza. Intendeva, secondo la sua stessa dichiarazione del 1954, “istillare nella mente del consumatore il desiderio di possedere qualcosa di un po’ più nuovo, di un po’ migliore, e un po’ prima del necessario”. Analogamente, le imprese hanno ricercato in modo più o meno frenetico innovazioni tecniche più o meno utili, non solo per motivi di concorrenza, ma anche come mezzo per forzare il consumo. La cosa oggi si può toccare con mano nel settore dell'elettronica e della microinformatica: i nuovi modelli di lettori, di telefoni cellulari, di computer tascabili (iPad e iPod) escono a un ritmo vertiginoso.
Infine, quando nel 1932 Bernard London usa l'aggettivo planned in un breve pamphlet di venti pagine, “Ending the depression through planned obsolescence”, non è sicuramente consapevole di aver inventato un nuovo concetto e di aver definito una terza forma di obsolescenza. Quello di cui parla è la necessità di rinnovare i beni d'uso per sostenere l’attività delle imprese. Per London, desideroso di trovare una soluzione alla crisi e un rimedio alla disoccupazione di massa, la programmazione dell'obsolescenza non consisteva nell'introdurre un difetto tecnico nel prodotto, ma derivava da una decisione degli esperti. Occorre insistere su questo punto: lungi dal criticarla, si voleva sistematizzare una pratica del tipo premio alla rottamazione. Ma l'intenzione filantropica dell'autore, che è indiscutibile, gli fa trascurare gli aspetti sociali negativi della pratica, e il suo progetto indica un’ignoranza totale, caratteristica dell'epoca, delle conseguenze ecologiche di questo spreco sistematico.

 

 

 

 

 

 

 


La natura dell’obsolescenza programmata.

 


Per il filosofo Jean-Claude Michéa, la comparsa negli Stati Uniti, tra le due guerre, del fenomeno dell’obsolescenza pianificata, legato alla nascita della società dei consumi, non è affatto casuale. Sarebbe il risultato di una sorta di complotto politico: “L’imposizione deliberata, nell’America degli anni venti, di un nuovo modo di vita basato sul consumo (il che includeva l'obsolescenza programmata –inaugurata nel 1925 dal cartello dei produttori di lampadine elettriche- di tutte le merci prodotte), sul credito e sul moto perpetuo della moda e dello spettacolo, non deve essere intesa semplicemente come una risposta economica alla necessità di trovare sbocchi interni alla produzione industriale di massa”. In realtà, come Stuart Ewen aveva ben visto più di trent’anni fa, si trattava al tempo stesso, nell’idea degli uomini d'affari liberali e dei primi teorici del marketing, di costruire un'alternativa politica credibile al “bolscevismo” allora minaccioso (France A. Kellor, 1919) e di imporre ai lavoratori americani “l’abbandono di qualsiasi pensiero di classe” (Edward Filene, 1931).
A livello più strutturale, la programmazione di una morte accelerata dei prodotti corrisponde a una necessità del sistema. Le imprese che avevano il brevetto di certe lame da rasoio a prova di usura hanno rinunciato a produrle, osserva Günther Anders, “perché l'effettiva immortalità di questi prodotti avrebbe per conseguenza la morte della produzione; perché la produzione vive della morte dei prodotti singoli (che vanno forniti sempre di nuovo); deve dunque la sua “eternità alla mortalità dei suoi esemplari“.
Nel 1936 Lewis Mumford pubblica un articolo sulla product durability (durabilità dei prodotti). Nessuno sta meglio, osserva Mumford, se ha dei mobili che cadono a pezzi nel giro di pochi anni o dei vestiti che cedono prima della fine della stagione. Nessuno, forse, tranne i produttori, cioè la società della crescita e dei consumi, che vive per l'appunto di questa morte sempre rinnovata dei nostri acquisti.
Nel 1951 esce sugli schermi un film di fantascienza inglese, “Lo scandalo del vestito bianco”, di Alexander Mackendrick. Il film mette drammaticamente in scena il conflitto tra la logica tecnica e la logica economica, e mostra la necessità ferrea per il sistema economico di praticare l’obsolescenza. Il protagonista Sid Stratton (interpretato da Alec Guinness), ingegnere chimico, scopre una fibra indistruttibile con la quale realizza un tessuto eterno resistente allo sporco. Fiero della sua invenzione, Stratton pensa che rivoluzionerà l’industria dell'abbigliamento e migliorerà il destino dell’umanità, offrendo a tutti la possibilità di investire in un unico abito, senza bisogno di rinnovarlo periodicamente. Ma non faceva i conti con la logica del sistema capitalistico. E infatti si scontra subito con la lobby dell'industria tessile, minacciata di fermo della produzione, e con gli operai del settore, minacciati di disoccupazione. Stratton si rifiuta di vendere il suo brevetto perché sa che verrà fatto sparire, viene sequestrato, ma riesce a fuggire appendendosi al suo filo indistruttibile. C’è poi un inseguimento rocambolesco. Alla fine, con grande disappunto di Stratton ma per la felicità generale, il tessuto si decompone e lo spettro della fibra indistruttibile svanisce.
Come mostra Cosima Dannoritzer nel suo reportage “Prêt à jeter”, la storia, in questo caso realissima, delle calze di nylon è abbastanza simile a quella del film. Nel 1940 la DuPont de Nemours lancia una calza in fibra sintetica che, per la grande felicità delle signore eleganti, non si smaglia. All’inizio praticamente indistruttibile, la calza è di una tale solidità che può fungere da cavo per rimorchiare un'automobile. Ma la logica industriale riprende molto in fretta il sopravvento. Gli ingegneri sono incaricati di fragilizzare la fibra miracolosa inserendovi dei geni di mortalità, in altre parole di programmare la sua difettosità. Ed è ciò che avviene, grazie a un opportuno dosaggio degli additivi destinati a proteggere il nylon dai raggi ultravioletti. Volenti o nolenti, le signore devono riprendere la strada dei negozi...
C’è comunque una difficoltà. Passare dall'obsolescenza programmata teorica alla sua applicazione pratica non è così semplice, a causa della concorrenza tra i produttori. E possibile imbrogliare di nascosto sui prodotti, come facevano nel XIX secolo i produttori poco scrupolosi, ma in una situazione di concorrenza un’impresa come può vendere prodotti la cui durata è chiaramente limitata, mentre i suoi concorrenti fanno della longevità del loro prodotto un elemento della promozione delle vendite? Bisogna dunque trovarsi in un situazione di monopolio -o creare, attraverso delle intese, una forma monopolistica come il cartello- per poter praticare senza problemi la limitazione sistematica della durata di vita dei prodotti.
Il primo caso è ben illustrato dall'iPod di Apple, che, fino all’avvio di una causa collettiva (class action) da parte di Elisabeth Pritzker a nome di Andrew Westley nel dicembre 2003, aveva una batteria integrata non riparabile programmata per durare soltanto diciotto mesi. L'affare Phoebus e il “comitato delle 1000 ore” illustrano il secondo caso. In effetti, la storia del cartello delle lampadine elettriche, ricostruita dal ricercatore tedesco Helmut Föge -e pezzo forte del film di Cosima Dannoritzer-, è forse la più emblematica in fatto di obsolescenza programmata.
Nel 1881 la Edison lancia le prime lampadine, la cui durata di vita è di 1500 ore. Negli anni venti, la durata media delle lampadine è di circa 2500 ore –per alcune molto di più- e la loro longevità costituisce un argomento di vendita in un mercato ancora concorrenziale. “Prêt à jeter” mostra la scena indimenticabile della festa organizzata nel 2001 dal “comitato della lampadina” di Livermore, in California, per celebrare il centesimo anniversario di una lampadina a filamento di carbonio, che dal 1901 aveva illuminato ininterrottamente l'ingresso della locale caserma dei pompieri. Soffiata a mano, questa famosa lampadina è stata concepita da Adolphe Chaillet e prodotta dalla Shelby Electric Company verso il 1895. Una durata incredibile per un prodotto industriale destinato al grande pubblico!
Una simile longevità era chiaramente inaccettabile per i grandi produttori come la General Electric. Così, nel dicembre 1924, la General Electric e gli altri principali attori del mercato si riunirono a Ginevra per discutere della durata delle lampadine. La loro intesa prese il nome di “cartello Phoebus”. L'obiettivo concordato era di limitare la durata delle lampadine a 1000 ore. E fu realizzato negli anni quaranta grazie alla vigilanza del “comitato delle 1000 ore”. I produttori arrivarono addirittura a farne un argomento pubblicitario! Malgrado il processo intentato nel 1942 e la condanna, l’accordo non fu mai cancellato. Le lampadine a lunga durata Narva, prodotte da alcune aziende della Germania dell'Est, non ebbero mai accesso al mercato occidentale, e tutti i brevetti di lampadine tradizionali a lunga durata depositati fino ai nostri giorni sono rimasti sepolti.
“Normale”, sostengono i negazionisti dell'obsolescenza incorporata -e ce ne sono non solo tra gli industriali, ma anche tra i professori universitari e gli ingegneri-, in quanto ciò che si guadagna in longevità si perde in consumo di energia. La lampadina di Livermore sarebbe dunque un gorgo energetico e la decisione del cartello Phoebus sarebbe stata saggia e razionale, se non addirittura nell'interesse del consumatore. Il guaio per questi obiettori di obsolescenza è che all’epoca nessuno si preoccupava dello spreco energetico. Dunque l’obiezione non sta in piedi.
Quanto poi alla storia delle nuove lampadine a bassa tensione, resta ancora da scrivere ed è destinata a riservare non poche sorprese. Bisognerà fare un bilancio completo, ecologico ed economico, tenendo conto di tutti i dati tecnici (materie prime, energia, inquinamento, riciclaggio, costi), ma anche dei dati sociologici (abitudini, educazione o formattazione dei consumatori).
Il problema è che le intese del tipo cartello Phoebus in genere sono proibite dalle legislazioni nazionali. Dunque devono essere strette in modo più o meno occulto, il che limita seriamente la diffusione dell'obsolescenza pianificata. Ma si possono creare delle situazioni di quasi-monopolio grazie alla politica dei marchi, come dimostra il caso dell'iPad di Apple. In effetti nella maggioranza dei casi i brevetti riguardano più i loghi che le innovazioni. L’ideale, chiaramente, è di non aver neppure bisogno di introdurre un pezzo difettoso nel prodotto, ma di riuscire a renderlo obsoleto con la sola forza della persuasione occulta, ovverosia della pubblicità. L'obsolescenza simbolica può dunque essere considerata come lo stadio supremo dell'obsolescenza programmata, come aveva già ben compreso Clifford Brooks Stevens.
Günther Anders, che alla fine degli anni cinquanta non poteva conoscere gli sviluppi successivi dell’obsolescenza programmata, osservava: “Il ritmo con cui l’industria cambia le sue mode di stagione è un “metodo per vendicarsi”; una misura con cui essa si vendica della resistenza dei suoi prodotti. Così il cappotto che ancora ci riscalda bene, visto che non può rovinarlo materialmente, lo rende socialmente inusabile. La moda è il provvedimento di cui si serve l'industria per rendere i suoi prodotti bisognosi di essere sostituiti“.
Costatiamo dunque una vera e propria simbiosi tra l'obsolescenza programmata, l'obsolescenza simbolica e l'obsolescenza tecnica. La manipolazione dell’opinione pubblica è tale che le tre forme si compenetrano, grazie in particolare allo sviluppo di quella che Colin Campbell, sulla scia di Günther Anders, chiama la “neofilia”, l’amore per le cose nuove. Più il prodotto è leggero, più il suo rinnovo è rapido, senza che il consumatore tenti neppure di ripararlo in caso di guasto. Ad esempio, una lavastoviglie raramente viene cambiata se ancora funziona, mentre spesso vale il contrario per un telefono cellulare. Così, quando il mio computer va fuori uso dopo appena due anni di vita, rinuncio a farlo riparare e decido di approfittare dell'occasione per regalarmi un nuovo modello più performante. Al contrario, per paura dei guasti, molti hanno preso l'abitudine di comprare un'automobile nuova ogni due anni. La paura di un guasto grave gioca un ruolo decisivo nella nostra società e suscita nella maggioranza delle persone un vero e proprio panico: trovare un’officína, sopportare per un certo periodo la privazione di uno strumento diventato una protesi indispensabile sono una fonte di preoccupazione e di ansia che si preferisce evitare se se ne hanno i mezzi. Una volta, in Sardegna, ho visto la disperazione di una famiglia il cui frigorifero si era guastato con 40° all'ombra. Vivere per appena ventiquattr'ore in queste condizioni è più di quanto i nostri contemporanei siano in grado di sopportare. Sono felice di aver potuto contribuire alla sopravvivenza di quella famiglia grazie alla mia conoscenza di tecniche ancestrali di conservazione dei cibi, che mi ha trasmesso mia madre e che le nuove generazioni ignorano.
“Butterete via la radiolina vecchia- scrive Umberto Eco- per acquistare quella che promette anche l'autoreverse, ma alcune inspiegabili debolezze della struttura interna faranno si che la nuova radiolina duri solo un anno. La nuova utilitaria avrà i sedili in pelle, due specchietti laterali regolabili dall'interno e il cruscotto in legno, ma resisterà molto meno della gloriosa Cinquecento che, anche quando si rompeva, si rimetteva in moto con un calcio”. Ma, lungi dall’indignarsi, Eco conclude con filosofia: “la morale di quei tempi ci voleva tutti spartani, e quella odierna ci vuole tutti sibariti”. Esiste per ciascuno di noi una soglia psicologica -combinata con la soglia del costo- a partire dalla quale preferiamo rinunciare al vecchio e comprare il nuovo. Il lavoro di marketing consiste essenzialmente nell’abbassare il più possibile questa soglia. La conclusione di Umberto Eco ci dice che è già molto bassa. Tutto ciò, testimonianza della nostra tossicodipendenza dai prodotti, contribuisce a spiegare perché la protesta contro l’obsolescenza programmata sia così flebile.

 

 

 

 

 

 

 


L'obsolescenza e la crisi ecologica.

 

L'obsolescenza programmata entra in relazione con l’ecologia sotto due aspetti fondamentali: lo spreco di risorse naturali e lo straripamento delle pattumiere. Accelerando la produzione e il consumo di attrezzature, di elettrodomestici e di beni di consumo di ogni genere, direttamente si esauriscono più in fretta le scorte di minerali non rinnovabili e, indirettamente, si aumenta senza necessità il consumo di energia. “Allora -scrive Vance Packard- fa la sua comparsa un nuovo spettro, tanto più inquietante in quanto finora gli americani hanno scelto di ignorarlo: il declino delle risorse naturali. La nostra generazione probabilmente vedrà gli americani scavare gallerie nelle vecchie discariche per recuperare scatole di conserva arrugginite”. Se ancora non avviene negli Stati Uniti, la cosa è già una realtà in Africa...
Per Gilles Slade, come per Vance Packard, gli Stati Uniti tendono a guardare alla crisi delle risorse naturali con assoluta serenità. Incorreggibili ottimisti, pensano, e viene ricordato loro continuamente, che la tecnica moderna prepari una nuova età dell'oro. L’atomo, oppure, oggi, il gas di scisto, risolverà tutti i problemi. I chimici inventeranno sostanze magiche che sostituiranno quelle che si stanno esaurendo. I tecnici inventeranno macchine che permetteranno di estrarre il rame da filoni poverissimi a condizioni quanto mai vantaggiose. Slade stesso, da buon nordamericano, pensa che il corno dell’abbondanza continuerà a traboccare di prodotti di consumo, ma precisa che questo non avverrà senza sforzo, senza aumento dei prezzi, senza penuria e senza nuove minacce alla dignità umana. Già oggi, in particolare in Africa, assistiamo a guerre per il controllo delle miniere di metalli rari, ad esempio, in Congo, per il coltan (minerale costituito dall'associazione di columbite e tantalite), necessario alla produzione di telefoni cellulari.
Lo sfruttamento delle “terre rare” nell'est della Cina giustifica la repressione delle popolazioni locali turcofone, così come quello del petrolio nel delta del Niger legittima il massacro degli ogoni. Chi è davvero consapevole dell’ampiezza del fenomeno e delle sue conseguenze sulle nostre società del Nord? Perché è lo Stato di diritto stesso a essere messo in discussione, con la minaccia di uno scivolamento più o meno rapido verso forme di ecofascismo e di ecototalitarismo.
D'altra parte, lo spreco sfrenato di prodotti e il consumo accelerato comportano un aumento direttamente proporzionale dei rifiuti, di cui non si sa più che cosa fare. Il caso dei rifiuti a Napoli ha fatto notizia a lungo, ma tutti i Paesi sono alle prese con il problema di discariche faraoniche. Gli inceneritori, costosi e nel migliore dei casi ancor più inquinanti, sono una soluzione assurda, perché distruggono risorse potenziali preziose e perché il loro rendimento energetico è molto basso.
Gli apparecchi elettronici sono poi un vero rompicapo. I telefoni cellulari, gettati nella pattumiera in media dopo diciotto mesi di uso, creano montagne di rifiuti che contengono forti concentrazioni di veleni non degradabili come arsenico, antimonio, berillio, cadmio, zinco, nickel e piombo. Bruciare questi rifiuti significa immettere nell'atmosfera diossina, furani e altre sostanze inquinanti. Già nel 2002 negli Stati Uniti sono finiti nella spazzatura più di 130 milioni di telefoni cellulari funzionanti. E la tendenza non sembra sul punto di invertirsi, perché tra non molto avere un solo cellulare sembrerà alla maggioranza della gente altrettanto improponibile che avere un solo paio di scarpe. Una situazione del genere rende a sua volta obsoleto il termine “obsolescenza”. Di fronte al problema insormontabile dello smaltimento dei rifiuti elettronici, che nessun programma ad hoc potrà mai risolvere nel lungo periodo, siamo sull’orlo del baratro.
Secondo Gilles Slade, il mondo semplicemente non è in grado di produrre abbastanza container per permettere agli Stati Uniti di continuare a esportare al ritmo attuale materiale elettronico e rifiuti elettronici. Le quantità raggiunte superano sia la capacità di trasporto delle navi sia le possibilità di stoccaggio delle discariche illegali. Slade, d’altra parte, punta il dito sulle responsabilità dell’industría dei portatili per il caos che regna in Africa occidentale. Converrebbe utilizzare con parsimonia i metalli preziosi e rari necessari ai cellulari e recuperarli sistematicamente, invece di restituirli all'Africa in modo vergognoso. In una delle sequenze più forti di “Prêtà jeter” si vede una discarica clandestina in Ghana (altre ce ne sono in Nigeria), dove computer fuori uso sono nascosti nei container dietro una fila di computer di seconda mano, la cui esportazione è legale. I bambini frugano negli apparecchi per recuperare qualche pezzo di metallo e intanto respirano il fumo tossico delle carcasse che bruciano. (vedi il Post Scriptum al seguente link https://sites.google.com/site/mwankana1952/home/post-scriptum/ps-002-51-100#TOC-Agbogbloshie)
Si potrebbe dunque denunciare l'obsolescenza come una conseguenza dell’abusus del diritto di proprietà nella sua definizione giuridica classica. Secondo Jean-Luce Morlie, “il concetto di abusus fu sviluppato in un mondo che disponeva di risorse illimitate, nel quale distruggere un bene che ti appartiene ha poca importanza, in quanto un altro bene equivalente può essergli sostituito. I concetti del diritto non dovrebbero essere riscritti sulla base della finitezza dei beni comuni? In un mondo limitato, l'obbligo di riciclaggio potrebbe essere inteso nel senso di una limitazione dell'abusus. Quando un titolo di proprietà, ad esempio su un interruttore Niko, viene trasferito al suo compratore, il produttore non può essere esonerato dalla sua responsabilità rispetto all’abusus riguardo alla quota di materie prime incorporata nell'oggetto che non può essere rinnovata. Lo stesso vale anche per l’energia incorporata. In base a questo ragionamento, il principio della limitazione dell'abusus dovrebbe, a mio parere, essere applicabile alla limitazione dell'obsolescenza degli oggetti”.
Secondo Vance Packard, quando la crisi -inevitabile- delle risorse scoppierà, “i contadini cominceranno a rimpiangere amaramente i cavalli che hanno venduto ai produttori di cibo per cani quando hanno comprato i trattori”. E cita la conclusione inquietante di Harrison Brown: “La società di domani avrà bisogno di un'organizzazione sociale che tenderà sempre di più alla statalizzazione, a detrimento delle libertà individuali”. Anche noi la vediamo così. Lo scivolamento verso il dominio di un amministratore mondiale decisamente meno fraterno di quello immaginato da Aldous Huxley nel “Mondo nuovo” è già cominciato, e se non ci affrettiamo a cambiare strada continuerà in modo ineluttabile.
Per il momento, malgrado gli innumerevoli segnali d'allarme che annunciano un crollo imminente, non stiamo imboccando una strada ragionevole. Per una decisione politica assurda, se non criminale, che proibisce la circolazione dei carretti a cavalli sulle strade, i contadini romeni che ancora non li avevano sostituiti con i trattori hanno abbattuto in massa i loro cavalli. E trasformati dalla magia dell'agroalimentare in carne di manzo, i cavalli si sono ritrovati fraudolentemente nelle nostre lasagne...
Va detto che le soluzioni proposte da Packard e da Slade non sono comunque all'altezza della posta in gioco. Sono prossime a ciò che oggi va sotto il nome di “sviluppo durevole” o “sostenibile”: trovare un equilibrio tra risorse e popolazione senza mettere in discussione la società della crescita. Se i rimedi per contrastare l'obsolescenza incorporata sono relativamente facili da concepire, la difficoltà sta nel metterli in pratica senza sconvolgere l'intero sistema. Fortunatamente ormai disponiamo di tutta una gamma di strumenti per limitare questa pratica o per neutralizzarne gli effetti. Nel rapporto “Réinventer l'abondance”, il think tank del Partito socialista francese “Terra Nova” affronta il problema, rifacendosi agli “Amis de la Terre”, e propone una legislazione repressiva e l'allungamento della durata di vita degli apparecchi. La prima misura è mossa da un'intenzione lodevole, ma è legittimo dubitare della sua efficacia.
Esiste già un ampio arsenale di regolamenti, sia in campo penale sia nel diritto del consumo, contro ogni tipo di truffe (la frode, il dolo, il vizio occulto), che una saggia giurisprudenza potrebbe applicare all’obsolescenza incorporata senza bisogno di introdurre nuove misure. L’introduzione, che finalmente si sta attuando in Europa, dell'”azione legale collettiva” (class action) è molto più importante, in quanto permetterebbe ai consumatori danneggiati di unirsi per intentare delle cause contro il produttore, quindi di non ritrovarsi più da soli a sostenere le spese e i rischi di un processo il più delle volte contro una multinazionale dai mezzi quasi illimitati. Anche l'impatto mediatico sarebbe moltiplicato. A quel punto i produttori o i costruttori, per paura di vedere minacciata la loro reputazione, forse comincerebbero a produrre beni un po' più durevoli e soprattutto riparabili.
Il problema sta nel fatto che in pratica è molto difficile dimostrare il sabotaggio tecnico deliberato di un prodotto, da una parte perché gli industriali sicuramente non lo mettono in piazza, e dall'altra perché l'obsolescenza incorporata allo stato puro è più l'eccezione che la regola. Il più delle volte si tratta di una combinazione di obsolescenza tecnica, obsolescenza simbolica e adulterazione del prodotto. Dato che il non durevole è entrato nella mentalità, i produttori non vanno a cercare la solidità a scapito del profitto. Tra due pezzi di qualità e di durata differenti, saranno sempre tentati di scegliere il meno costoso, dato che l’orizzonte di vita del prodotto è breve, anche dal punto di vista del cliente.
La gente cambia il cellulare in media ogni diciotto mesi, dunque perché allungare la durata di vita del prodotto oltre i ventiquattro mesi? “Conoscete qualcuno –domanda David Owen- che abbia comprato un Iphone4 perché il suo Iphone 3 non funzionava più? La decisione controversa della Apple di dotare l'Iphone di una pila non sostituibile è stata giustificata con la fretta dei consumatori di sostituire il loro vecchio modello con uno più recente, anche se la pila del precedente era ancora al massimo della potenza o quasi”. Più realistiche sono le proposte di indicazione della durata di vita dei prodotti commercializzati, di allungamento della garanzia o di obbligo di fornitura di pezzi di ricambio a prezzi abbordabili. Ad esempio, nel caso di certi trapani destinati a funzionare solo cinquanta volte, il costruttore sarebbe tenuto a indicare sull'imballaggio: “concepito per cinquanta fori”!
D'altra parte, la maggioranza dei progetti di legge prevede di allungare la durata di garanzia dei prodotti passando progressivamente da due anni (durata prevista attualmente in Europa per i prodotti elettronici) a cinque anni e in seguito a dieci. Comunque tali proposte si scontrano con il fuoco di sbarramento delle lobby industriali, che sollevano l'inevitabile obiezione dei costi e dunque del prezzo di vendita (stimato al 2% per ogni anno supplementare di garanzia). I consumatori, chiedono gli industriali, sono disposti a pagare questo sovrapprezzo?

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ecoconcezione dei prodotti.

 


L’ecoconcezione dei prodotti, cioè un intervento a monte della produzione, è sicuramente una pista interessante; rappresenta una risposta di buon senso allo spreco e costituisce un elemento centrale di qualsiasi lotta contro i danni dell’obsolescenza accelerata. Persegue tre obiettivi: evoluzione, manutenzione/riparazione e riciclaggio. Le apparecchiature dovrebbero fin dall'inizio essere concepite per poter essere modificate e ricevere i miglioramenti ulteriori resi possibili da un progresso tecnico ragionevole. In effetti, da un modello all'altro (di computer, di cellulare ecc.) il cambiamento il più delle volte riguarda soltanto una minima parte del prodotto. Basterebbe poter sostituire o aggiungere un elemento piuttosto che avere un intero prodotto nuovo, risparmiando così materie prime ed energia. Concepiti in forma di moduli smontabili, i prodotti sarebbero più facili da riparare e alla fine da riciclare. Alcune lavatrici della marca tedesca Miele sono concepite in modo da poter essere modificate in base alle ultime innovazioni. E il gruppo SEB partecipa a un promettente progetto di ricerca su prodotti evolutivi.
E’ quello che alcuni hanno definito “obsolescenza riprogrammata”, teorizzata dall’ecologia industriale, direttamente con l’idea dell’economia circolare e indirettamente con quella della cosiddetta economia della funzionalità. Quest'ultima auspica l'affitto (leasing) piuttosto che la vendita per le attrezzature di grandi dimensioni. Il proprietario delle attrezzature fa un'offerta di controllo e manutenzione garantendo il buon funzionamento nel tempo e un basso impatto ambientale. In questo modo, diventando il gestore della manutenzione, l'impresa non punta a produrre sempre di più, ma a mantenere in vita il più a lungo possibile, ossia a migliorare il prodotto esistente, con un tasso di sostituzione limitato, perché il suo profitto deriva dall'affitto e dalla manutenzione.
Questa politica è stata incoraggiata in Germania grazie all'azione degli ecologisti. Dal 1990 la Xerox, specializzata nella produzione di fotocopiatrici, che in genere vengono affittate, ha messo a punto un progetto grazie al quale i suoi prodotti sono concepiti in modo tale che i loro diversi componenti possano essere riciclati una volta divenuti inservibili. Le macchine fuori uso sono restituite all’azienda, che si incarica di riutilizzare gran parte dei materiali che le compongono. La pratica, sperimentata in Francia dalla Michelin, che vende chilometri invece che pneumatici, dovrebbe essere estesa a una vasta gamma di beni durevoli. In una certa misura, si può considerare che l’”autolib” e il “velolib” partecipino di questa sperimentazione promettente.
La soluzione, già tentata in un certo numero di città degli Stati Unit negli anni sessanta, incontrava il favore di Vance Packard: “Prendere in affitto le automobili, i mobili e gli elettrodomestici, con manutenzione garantita per contratto, probabilmente costerà di più e frustrerà il consumatore nella sua vanità di proprietario. Ma una pratica del genere sarà un duro colpo per l’attuale politica della durata limitata. Il produttore improvvisamente dovrà preoccuparsi di prolungare la vita dei suoi prodotti, di semplificarne la struttura per facilitare le riparazioni, e adottare un design che non passi di moda troppo rapidamente”. Con il suo abituale sarcasmo, David Owen, pur riconoscendo l'effícacia dell’approccio, sottolinea il pericolo di un rallentamento dell’innovazione tecnologica. “Se affittassimo i nostri apparecchi dalla Apple -sostiene-, questa farebbe in modo che il nostro iPhone (a manovella!) duri svariati decenni, e bisognerebbe aspettare dei lustri per poter sostituire il nostro iPad con un iPad2 ... I sostenitori delle tecnologie verdi riusciranno a coinvolgerci proponendoci meno innovazioni e gadget attraenti piuttosto che il contrario?” Comunque gli aerei, fatti per durare a lungo, non sembrano soffrire particolarmente di arretratezza tecnologica...

 

 

 

 

 

 

 

 

L’economia circolare.

 


Nel film di Cosima Dannoritzer, il professore Michael Braungart, chimico rinomato e teorico dell'ecologia industriale, propugna queste soluzioni ma le inserisce in un programma più ambizioso: l’economia circolare. Questa impostazione, fondata sul concetto di ecosistema industriale, è stata proposta fin dal 1989 da alcuni ricercatori della General Motors come Robert Frosch e Nicolas Gallopoulos, e oggi viene ripresa dall'ecotecnologia di Suren Erkman. Si basa sullo studio del metabolismo industriale dei sistemi socioeconomici. Permette di assegnare alle imprese quattro obiettivi realizzabili grazie all'ingegneria ecologica: 1) l’ottimizzazione dell'uso dell'energia e delle materie prime (ecoefficienza in senso stretto); 2) l'abbattimento delle emissioni inquinanti e il riciclaggio dei flussi che circolano all’interno dei sistemi produttivi (ecoefficienza in senso largo); 3) la dematerializzazione delle attività economiche; 4) la riduzione della dipendenza dalle fonti energetiche non rinnovabili, in particolare dalle energie fossili, in modo da contrastare il cambiamento climatico.
Per Braungart non si tratta tanto di ridurre i consumi e limitare i rifiuti, come sostengono gli obiettori di crescita, quanto di inserire la produzione e il consumo in un circolo virtuoso analogo ai cicli naturali. La natura, in effetti, non produce rifiuti, ma ricicla tutto. Tuttavia non pratica la frugalità! Bisogna rendere sistematica l'ecoconcezione dei prodotti, utilizzare nelle fabbricazioni soltanto elementi riciclabili, biodegradabili e non tossici. E il trionfo della chimica verde, della bioplastica ottenuta dalla fecola di patate ecc. Soprattutto, i rifiuti di un'industria devono diventare il “nutrimento” di un'altra. Esistono già alcune esperienze che vanno in questa direzione.
L'impresa svizzera Rohner e Design Tex produce un tessuto per tappezzeria che si decompone naturalmente alla fine del suo ciclo di vita. Altre imprese hanno creato moquette che, una volta usate, possono essere trasformate in pacciamatura per giardini, essendo fatte di materiale organico. Il gigante tedesco della chimica BASF ha messo a punto un tessuto in fibra di nylon infinitamente riciclabile. Una volta fuori uso il prodotto che lo utilizza, questo tessuto può essere scomposto nei suoi diversi elementi, che vengono reimpiegati in nuovi prodotti.
L'esempio che in genere si cita in proposito è quello della zona industriale di Kalundborg, in Danimarca, che, secondo i suoi sostenitori, costituisce un “ecosistema industriale modello”. Così come succede negli ecosistemi naturali, in cui alcuni organismi si nutrono dei rifiuti e delle spoglie di altre specie, in questa zona industriale danese i sottoprodotti e i rifiuti delle imprese servono da materie prime per altre fabbriche. Una raffineria utilizza il calore disperso di una centrale termica e rivende lo zolfo estratto dal petrolio a un'impresa chimica. E fornisce anche solfato di calcio a un produttore di pannelli murali, mentre il vapore in eccesso della centrale scalda l’acqua di un'impresa di acquacoltura e le serre. Il risultato è un risparmio di risorse e una riduzione rilevante dei rifiuti finali. Tutto ciò, naturalmente, rispettando quanto più possibile la legge del mercato. Ma il problema è proprio qui. Se strategie del genere a volte vengono messe in atto spontaneamente da alcune imprese, queste success stories sono comunque poco numerose. Vengono citati alcuni esempi cinesi di simbiosi industriale: riutilizzo dei prodotti, condivisione delle infrastrutture e fornitura congiunta di servizi. In realtà si tratta spesso di casi classici di integrazione verticale, facilitati, nel caso della Cina, dalla pressione del governo o di una impresa dominante e, nel caso di Kalundborg, da una cultura del tipo Rotary Club. La diffusione e la generalizzazione di queste esperienze sono comunque problematiche.
L'economia di accumulazione fondata sulla rapina, lo spreco consumistico e la produzione mostruosa di rifiuti può convertirsi in una virtuosa economia circolare? Nella maggioranza dei casi il conflitto degli interessi rende difficile la moltiplicazione dei parchi industriali misti. Se si possono creare, ed è un fatto positivo, alcune opportunità di realizzare queste ricette win-win (vantaggiose per tutti), parlare di “mano invisibile verde” è sicuramente assai azzardato. E essenzialmente grazie a politiche pubbliche mirate che si possono registrare risultati incoraggianti nella lotta contro l'inquinamento. Senza un minimo di incentivi, fiscali o di altro genere, gli sviluppi positivi rimangono più che marginali. Da parte delle imprese, la rivendicazione di un metodo di autoregolazione per risolvere la questione ambientale ha soprattutto lo scopo di evitare che siano imposti loro degli obblighi per le responsabilità che hanno nella distruzione dell'ecosistema planetario. Se la responsabilità sociale dell'impresa bastasse a umanizzare il capitalismo e a renderlo ecocompatibile, la cosa sarebbe davanti agli occhi di tutti, dato che siamo da tre secoli sotto il suo dominio!
In effetti, dal 2009 esiste una direttiva europea (2009/125/CE) che in teoria rende obbligatoria l'ecoconcezione, allo scopo di ridurre l’inquinamento. Si tratta di integrare “considerazioni ambientali nella concezione del prodotto, per migliorare la performance ambientale del prodotto stesso durante tutto il suo ciclo di vita”. La cosa riguarda la scelta e l'utilizzazione delle materie prime, la fabbricazione, l'imballaggio, il trasporto e la distribuzione, l’installazione e la manutenzione, l'utilizzo del prodotto e la fine del suo ciclo di vita. Viene considerata una serie di elementi: il consumo di materiali, di energia e di altre risorse, le emissioni previste nell'aria, nel suolo e nell'acqua, l’inquinamento provocato (rumore, vibrazioni, radiazioni, campi elettromagnetici), il volume dei rifiuti e la possibilità di riutilizzo, di riciclaggio o di recupero dei materiali e dell'energia. Inoltre, i fabbricanti devono fornire ai consumatori le informazioni relative al ruolo che questi possono avere nell'utilizzo durevole del prodotto in questione. Disgraziatamente, finora non è stato fatto niente o quasi perché queste belle intenzioni cominciassero a diventare realtà.
Credere che si potrà arrivare a creare una compatibilità tra il sistema industriale produttivista e gli equilibri naturali basandosi soltanto sulle innovazioni tecnologiche o ricorrendo a semplici correttivi negli investimenti, senza sforzo, senza dolore, e per di più arricchendosi, è un mito. Un mito a cui gli obiettori di crescita non credono. Infine, diventando veramente circolare e sostenibile, l’economia diventerebbe più o meno stazionaria. Ma se la natura in questo caso ne sarebbe avvantaggiata, lo stesso non si può dire per i lavoratori.
Siccome è noto che nelle nostre società è necessario un tasso di crescita di circa il 3% all'anno per mantenere i livelli di occupazione ed evitare un aumento della disoccupazione, la soppressione dell'obsolescenza programmata ci riporta al problema di Bernard London. Non è possibile salvare il pianeta, l'ambiente, e dunque il futuro dell'umanità, e al tempo stesso l'occupazione a breve termine in un sistema che ha legato il proprio destino alla crescita illimitata del consumo e della produzione. L'unica soluzione per uscire dal dilemma e dare una risposta contemporaneamente alla preoccupazione sociale di Bernard London e a quella ecologica di Vance Packard è la costruzione di una società di prosperità senza crescita, o di abbondanza frugale, che utilizza con parsimonia le risorse naturali e il lavoro degli uomini, nella quale gli aumenti di produttività si traducono obbligatoriamente in riduzione del tempo di lavoro e non in aumento di produzione/consumo/distruzione. Ma questa è la rivoluzione...