Giugn 2016. Land grabbing.

 

 

 


“El mestée del mes” è dedicato alla rapina internazionale istituzionalizzata delle terre e delle acque, e dei suoi protagonisti. Sempre gli stessi, o meglio dalla parte dei rapinatori, rispetto alla storica compagine delinquenziale, vi sono delle new entry: i paesi arricchiti nel secolo scorso, le economie emergenti. Se ne scrive poco, e se ne parla ancor meno. I paesi europei alle prese con le migrazioni “di povertà” sventolano bandiere di cooperazione, di “aiutiamoli a casa loro”. La loro cooperazione e investimenti per la crescita economica dei paesi del terzo mondo è null’altro che la continuazione dell’imperialismo e del colonialismo d’epoca. Ma questa volta è una continuità che trasuda vergognosamente ipocrisia.

 

 

 

 

 

 

 


Land grabbing. Nella traduzione italiana significa “accaparramento di terre”; parafrasato potrebbe essere “rapina di terre” (suoli agricoli ed acqua) e di territori (sistemi sociali ed ambientali). Il fenomeno riguarda un processo d'investimento speculativo che dal 2007 sta galvanizzando i capitali finanziari forti (europei, americani ed arabi) e le multinazionali dell’agro-business i quali si assicurano concessioni o contratti d’affitto pluridecennali su grandi estensioni di terra fertile in Africa, America latina ed Asia. La storia si ripete sempre uguale da centinaia di anni: il controllo del territorio e delle sue risorse naturali e umane è stato il principio guida dell’espansione coloniale avviata nel XVI secolo e per alcuni Paesi non ancora totalmente conclusa.
Nella sua edizione più recente, questa forma di colonizzazione è guidata da molteplici scopi: dall’investimento meramente lucrativo alla ricerca di spazi per produrre a basso costo, attraverso l’attivazione di produzioni di cibo o di materie prime (tra cui anche legname e minerali) da esportare per alimentare i mercati ricchi in beni di consumo e combustibili vegetali (agrocarburanti) o per costruire infrastrutture, dighe o centri turistici, per espandere un’area urbana o per occupare militarmente un territorio. A farne le spese è il mondo rurale dei Paesi più vulnerabili o delle aree più marginali dei Sud e dei Nord. In particolare a Sud, chi lavora la terra ancestrale detiene diritti consuetudinari che non sono, però, riconosciuti dalla legislazione fondiaria degli Stati nazionali; non possedendo titoli di proprietà sulla terra, queste persone sono facilmente espropriate dalle terre del demanio pubblico con conseguente esclusione dalla produzione e dall’accesso al cibo. (Unimondo, 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

Aiutiamoli a casa loro. Il “primo mondo”.

 


Perché non li aiutiamo a casa loro? Casa loro? Andiamoci piano con le parole. Perché la loro casa è in vendita e sta divenendo la nostra. Per dire: il Madagascar ha ceduto alla Corea del Sud la metà dei suoi terreni coltivabili, circa un milione e trecentomila ettari. La Cina ha preso in leasing tre milioni di ettari dall’Ucraina: gli serve il suo grano. In Tanzania acquistati da un emiro 400mila ettari per diritti esclusivi di caccia. L’emiro li ha fatti recintare e poi ha spedito i militari per impedire che le tribù Masai sconfinassero in cerca di pascoli per i loro animali. La loro vita. E gli etiopi che arrivano a Lampedusa, quelli che Salvini considera disgraziati di serie B, non accreditabili come rifugiati, giungono dalla bassa valle dell’Omo, l’area oggetto di un piano di sfruttamento intensivo da parte di capitali stranieri che ha determinato l’evacuazione di circa duecentomila indigeni. E tra i capitali stranieri molta moneta, circa duecento milioni di euro, è di Roma. Il governo autoritario etiope, che rastrella e deporta, è l’interlocutore privilegiato della nostra diplomazia che sostiene e finanzia piani pluriennali di sviluppo. Anche qui la domanda: sviluppo per chi?
L’Italia intera conta 31 milioni di ettari. La Banca mondiale ha stimato, ma il dato è fermo al 2009, che nel mondo sono stati acquistati o affittati per un periodo che va dai venti ai 99 anni 46 milioni di ettari, due terzi dei quali nell’Africa subsahariana. In Africa i titoli di proprietà non esistono (la percentuale degli atti certi rogitati varia dal 2 al 10 per cento). Si vende a corpo e si vende con tutto dentro. Vende anche chi non è proprietario. Meglio: vende il governo a nome di tutti. Case, villaggi, pascoli, acqua se c’è. Il costo? Dai due ai dieci dollari ad ettaro, quanto due chili d’uva e uno di melanzane al mercato del Trionfale a Roma. Sono state esaminate 464 acquisizioni, ma sono state ritenute certe le estensioni dei terreni solo in 203 casi.
Chi acquista è il “grabbatore”, chi vende è il “grabbato”. La definizione deriva dal fenomeno, che negli ultimi vent’anni ha assunto proporzioni note e purtroppo gigantesche e negli ultimi cinque una progressione pari al mille per cento secondo Oxfam, il network internazionale indipendente che combatte la povertà e l’ingiustizia. Il fenomeno si chiama land grabbing e significa appunto accaparramento della terra. I Paesi ricchi chiedono cibo e biocombustibili ai paesi poveri. In cambio di una mancia comprano ogni cosa. Montagne e colline, pianure, laghi e città. Sono circa cinquanta i Paesi venditori, una dozzina i Paesi compratori, un migliaio i capitali privati (fondi di investimento, di pensione, di rischio) che fanno affari. E’ più facile trasportare una tonnellata di cereali dal Sudan che le mille tonnellate d’acqua necessarie per coltivarle.
E allora la domanda: aiutiamoli a casa loro? Siamo proprio sicuri che abbiano ancora una casa? Le cronache sono zeppe di indicazioni su cosa stia divenendo questo neocolonialismo che foraggia guerre e governi dittatoriali pur di sviluppare il suo business. In Uganda 22.000 persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per far posto alle attività di una società che commercia legname, l’inglese New Forest Company. Aveva comprato tutto: terreni e villaggi. I residenti sono divenuti ospiti ed è giunto l’avviso di sfratto…Dove non arriva il capitale pulito si presenta quello sporco. La cosiddetta agromafia. Sempre laggiù, nascosti dai nostri occhi e dai nostri cuori, si sversano i rifiuti tossici che l’Occidente non può smaltire. La puzza a chi puzza…
Chi ha fame vende. Anzi regala. L’Etiopia ha il 46 per cento della popolazione a rischio fame. E’ la prima a negoziare cessioni ai prezzi ridicoli che conosciamo. Seguono la Tanzania (il 44 per cento degli abitanti sono a rischio) e il Mali (il 30 per cento è in condizioni di “insicurezza alimentare”). Comprano i ricchi. Il Qatar, l’Arabia Saudita, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, anche l’India. E nelle transazioni, la piccola parte visibile e registrata della opaca frontiera coloniale, sono considerate terre inutilizzate quelle coltivate a pascolo. Il presidente del Kenya, volendo un porto sul suo mare, ha ceduto al Qatar, che si è offerto di costruirglielo, 40mila ettari di terreno con tutto dentro. Nel pacco confezionato c’erano circa 150 mila pastori e pescatori. Che si arrangiassero pure!
L’Africa ha bisogno di acqua, di grano, di pascoli anzitutto. Noi paesi ricchi invece abbiamo bisogno di biocombustibile. Olio di palma, oppure jatropha, la pianta che –lavorata– permette di sfamare la sete dei grandi mezzi meccanici. E l’Africa è una riserva meravigliosa. In Africa parecchie società italiane si sono date da fare: il gruppo Tozzi possiede 50.000 ettari, altrettanti la Nuova Iniziativa Industriale. 26.000 ettari sono della Senathonol, una joint-venture italosenegalese controllata al 51 per cento da un gruppo italiano. Le rose sulle nostre tavole, e quelle che distribuiscono i migranti a mazzetti, vengono dall’Etiopia e si riversano nel mondo intero. Belle e profumate, rosse o bianche. Recise a braccia. Lavoratori diligenti, disponibili a infilarsi nelle serre anche con quaranta gradi. E pure fortunati perché hanno un lavoro. Il loro salario? Sessanta centesimi al giorno. (Antonello Caporale, 2015)

 

 

 

 

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Rapporto Unimondo 2014.

 


Era il 2012. Secondo i dati pubblicati in quell’anno della Coalizione Internazionale per la Terra –Land Rights and the Rush for Land. Findings of the Global Commercial Pressures on Land Research Project– circa 200 milioni di ettari di terreni agricoli sono stati, tra il 2000 e il 2010, oggetto di negoziazione per cessioni o affitti di durata variabile tra 40 e 99 anni. In pochissimi anni, il land grabbing è diventato un fenomeno planetario, forse il più globale viste le geografie diverse che riesce a muovere tra risorse e poste in gioco tra loro inconciliabili, sviluppo economico da un lato e sopravvivenza socio territoriale dall’altro. Da un lato i grandi investitori dei paesi ricchi sostenuti dai capitali finanziari transnazionali; dall’altro i territori rurali fatti di contadini, organizzazioni di base e sindacati che si vedono strappare ettari di terre fertili, sacre, essenziali per la sopravvivenza dei sistemi territoriali locali; al centro, i governi nazionali profondamente legati alla perpetuazione del potere più che al benessere del Paese. Questi ultimi si fanno promotori della svendita offrendo spazi “liberi” dal potenziale unico in attesa di valorizzazione attraverso la creazione di agenzie per il coordinamento degli investimenti (ad esempio Apix in Senegal, Api in Mali, ecc.) e dotandosi di leggi che offrano le migliori condizioni per incentivare gli ingressi di capitali stranieri.
La questione è delicata in quanto connessa anche all’instabilità politica e ai conflitti. La relazione è intima, quindi sottile, invisibile, nascosta. Non è fuori luogo sostenere che le incertezze che caratterizzano ad esempio il continente africano siano il risultato di azioni programmate, di pressioni finanziate dai capitali transnazionali delle multinazionali, in collaborazione con lobby locali, alla ricerca di contesti deboli sui quali concludere rapidamente i propri affari. Le aree strategiche, quelle maggiormente attraenti per gli investitori, sono quelle dove sono apparsi focolai di ribellione guidati da gruppi non sempre ben identificati che vengono per praticità definiti “jihadisti” o altro. Sempre sugli stessi territori stanno aumentando numericamente i corpi militari di Africom, il comando africano degli Stati Uniti, che sta rinforzando le sue basi sul continente con l’obiettivo ufficiale di prevenire le “minacce che possono nascere sul continente africano” o “migliorare e irrobustire le capacità difensive” degli stati africani. Ma non ci sono dubbi che siano veri e propri presidi in difesa di un diritto di occupazione che può dare la precedenza in svariate occasioni, soprattutto quella di accaparramento di terra e acqua.
“Circa 200 milioni di ettari” nel 2010; “oltre 200 milioni”oggi, 2014: la difficoltà di definire con certezza la quantità di terra in questione è data dall’opacità nella quale avvengono le trattative (canone d’affitto, durata del leasing ed altre clausole vengono raramente pubblicate). Di questi 200, sembra che si possono confermare con prudente certezza circa 86 milioni di ettari per un totale di 870 “affari” (Landmatrix, 2013). Circa l’80% di queste terre è destinato alla produzione agricola, tre quarti della quale per gli agrocarburanti; sono quindi terre che non vengono coltivate per produrre cibo per l’umanità. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tempi e spazi della corsa.

 


Come lo ha definito Andrea Baranes, è “il grande gioco della fame” (2011) che include la possibilità di vincere, cioè fare massimi profitti proprio speculando sul cibo, essendo terra e acqua risorse scarse, ma indispensabili per la produzione alimentare. Diventa subito evidente come il fatto di aver trasformato il cibo in bene economico sia la chiave di volta per le nuove illimitate possibilità di guadagno. Più un bene è scarso più ne aumenta la domanda e con essa il prezzo. Più il prezzo di questo bene è instabile, maggiore è la possibilità di riuscire a guadagnare.
- 2006. Fine anno. Le borse e i mercati mondiali mostrano i primi segni di cedimento.
- 2007. Febbraio. Gli Stati Uniti vengono travolti dalla bolla dei mutui subprime (cioè i mutui sulla casa concessi a clienti meno solvibili che rappresentano un mercato altamente aleatorio) e dalla successiva catastrofe immobiliare.
- 2008. La prima crisi finanziaria mondiale.
- Settembre. Crollano i capisaldi dell’industria finanziaria americana Lehman Brothers, Goldman Sachs e Morgan Stanley: è il bank crack, cioè la bancarotta che in breve tempo raggiunge anche la vecchia Europa. Immediatamente si cercano vie d’uscita per ricapitalizzare la finanza internazionale e creare nuove opportunità di guadagno. L’azzardo più attraente sembra quello della scommessa nei “beni rifugio” detti commodity, cioè beni materiali che conservano il loro valore nel tempo: oro, petrolio, prodotti alimentari di base (in particolare cereali come mais o grano).
Dal punto di vista del mercato, l’affare risulta vantaggioso in quanto si ritiene che l’offerta di beni alimentari sia incapace di soddisfare una domanda di beni alimentari che cresce insieme all’aumento della popolazione mondiale. Diventa quindi redditizio speculare su questi beni, ma lo è ancora di più se l’investimento viene fatto sulle terre. Infatti, i margini di guadagno sui beni alimentari sono garantiti solo sul breve periodo e sono esposti a rischio in quanto soggetti all’andamento delle loro borse.
In breve tempo, nel business si sono catapultate le multinazionali, i governi più ricchi di liquidità (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Libia, Corea del Sud, India, Cina), ma anche i fondi pensione e i fondi speculativi (hedge fund). Questi attori finanziari hanno iniziato ad investire direttamente nelle produzioni agricole (disboscano, bonificano, realizzano impianti ad alta tecnologia) o a comprare partecipazioni (equity), private equity fund, che investono in imprese agricole gestite da aziende specializzate del settore.
- 2008. Egitto. Scoppiano le prime “rivolte del pane”: l’impennata del prezzo dei cereali, le scelte governative, il basso potere d’acquisto hanno creato i presupposti per una reazione a catena che ha investito oltre venti Paesi, molti di questi nordafricani, minacciati dalla volatilità dei prezzi e dall’insicurezza alimentare.
- 2009. La Direttiva n. 28/2009/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili ha inaugurato la politica europea di sostegno alla produzione e al consumo di agrocarburanti (gli Stati Uniti già nel 2005 avevano promulgato l’Energy Policy Act che prevedeva una quota di agrocarburante mescolata a benzina pari a 7,5 miliardi di galloni entro il 2012, quota raddoppiata nel 2007 dall’Energy Independency and Security Act e in previsione di un ulteriore aumento entro il 2022. L’obiettivo –stabilito nella Direttiva europea– prevede per il 2020 un consumo di energia da fonti rinnovabili del 20% del totale (il 10% per il solo settore dei trasporti) che sta determinando un aumento della domanda di terreni agricoli.
- 2010-2012. Non disponendo di sufficienti superfici agricole per soddisfare la domanda interna di agro combustibili, l’Unione Europea sta cercando terreni al di fuori dei suoi confini: sono già stati acquisiti o richiesti almeno 5 milioni di ettari. Solo per raggiungere l’obiettivo europeo del 10% di carburanti proveniente da fonti rinnovabili (in prevalenza agrocarburanti), la Banca mondiale ha preventivato che saranno necessari 17,5 milioni di ettari di terra. Oltre alla conversione dei terreni e all’espansione delle superfici agricole, l’aumento della domanda di agrocarburante sarà anche causa dell’incremento del livello delle emissioni di CO2. Il mantenimento delle quote di consumo obbligatorie potrebbe condurre, tra il 2008 ed il 2018, ad un incremento del 54% della domanda di mais e frumento e del 32% di oleaginose per alimentare il settore degli agrocarburanti.
La destinazione preferita delle aziende europee (e statunitensi) è l’Africa: vaste superficie fertili a prezzi vantaggiosi. I casi di land grabbing in Kenya (Dakatcha) e Senegal (Fanaye) sono ben noti, da un lato perché interessano l’Italia (terzo produttore di agrocarburanti in Europa) e dall’altro per le reazioni che hanno generato a livello di territori locali. La lista è lunga: Mali, Etiopia, Mozambico, Madagascar, Sudan, Tanzania sono solo i casi africani più citati dai media. Qui i meccanismi coloniali si riproducono ineluttabilmente. È una storia già nota, già scritta. C’è il mito della terra vuota, la “no man’s land” che attende di essere “umanizzata”, modernizzata.
Poi c’è l’Asia (Thailandia, Filippine, Indonesia, Cambogia, Pakistan) che attrae i capitali sauditi. Gli sceicchi del Golfo usano il petrolio per assicurarsi l’accesso al cibo e alla terra agricola (prevalentemente per coltivare riso, piante da foraggio, ma anche palma da olio).
Ed infine il Sudamerica ove, a differenza di Africa ed Asia, la terra è privata e dove la corsa alla terra (pampa argentina e terreni brasiliani, uruguaiani e paraguaiani in particolare) è iniziata con qualche anticipo sulla crisi dei subprime e sull’impennata dei prezzi alimentari. Qui, oltre ai capitali stranieri, ci sono anche i brasiliani che comprano. Si coltiva soia destinata alla produzione di mangime e olio. Mato Grosso do Sul e Mato Grosso (Brasile), Paraguay, parte della Bolivia e Argentina orientale costituiscono la “repubblica unita della soia”, una gigantesca oligarchia retta da “cinque sorelle”: Cargill, Archer Daniels Midland (ADM), Bunge, Louis Dreyfus, Avipal. Il sistema è sostenuto dalla “civiltà e cultura dell’etanolo” il cui maggior esponente, il Brasile, produce agrocarburanti dalla metà degli anni Settanta del Novecento nei quali sono riposti fiducia ed investimenti incondizionati. Una storia vecchia metà secolo che continua la sua corsa.
- 2014. Secondo Land Matrix, un database pubblico costantemente aggiornato che consente di monitorare le acquisizioni di terra, dai negoziati alla chiusura delle trattative, dal 2000 ad oggi sono stati conclusi un migliaio di “affari” per un totale di quasi quaranta milioni di ettari di terre. Tra i più importanti “grabbatori” a livello globale ci sono, in ordine di ettari acquisiti, gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Regno Unito e l’India. Tra i paesi europei, l’Italia è al secondo posto. Gli investimenti italiani sono 19, concentrati nel continente africano (Fonte: Landmatrix, ultima consultazione 16 ottobre2014).
Mia annotazione: per seguire la progressione del land grabbing vai al sito ufficiale di Landmatrix http://www.landmatrix.org/en/

 

 

 

 

 

 

 

 

Le reazioni dei territori.

 


Dinnanzi alla grande metamorfosi, ci sono anche le risposte del territorio. Paradossalmente, di fronte a questo “neocolonialismo fondiario” (come lo definisce l’attivista Nadia Djabali), gli attori locali –cioè la popolazione contadina- si trovano coinvolti in un processo di assunzione di consapevolezza e di responsabilità, nonché di riappropriazione dei saperi locali, dei diritti delle comunità, del ruolo giocato nella difesa della propria sopravvivenza. Perché, oltre al danno, cioè il fatto di venire espropriati, la beffa è contenuta nel rischio di perdita dei diritti consuetudinari a favore di una “concezione più occidentale della proprietà fondiaria”, normalizzata giuridicamente dalle regole imposte dalle istituzioni straniere.
Remano contro questo processo di riappropriazione una serie di elementi: il potere tradizionale, le gerarchie dei lignaggi, la perpetuazione di meccanismi di sopraffazione, il localismo che intravede il proprio margine di rendita, anche l’analfabetismo. Ciò non toglie che una parte di territorio decida di riconquistare legittimità attraverso la partecipazione attiva, il recupero della legalità, la scommessa sulla comunità per ricostruire un nuovo senso comune di territorio, anche a partire dall’“incertezza”.

 

 

 

 

 

 

 

 

Alcuni “land grabbing” in Africa.


Kenya (Dakatcha, foresta situata nell’area costiera a nord di Malindi).
Nella foresta Dakatcha, un’azienda italiana, la Nuove Iniziative Industriali Srl della famiglia Orlandi, con sede a Galliate in provincia di Novara, attraverso la locale Kenya Jatropha Energy Limited, ha cercato di prendere in affitto 50.000 ettari di terra per la produzione di jatropha il cui olio è utilizzato per produrre carburante. Le comunità locali hanno denunciato che il processo di acquisizione è avvenuto senza il loro previo ed informato consenso. L’area in questione è abitata da circa ventimila persone appartenenti alle minoranze Watha e Giriama. È l’habitat naturale di molte specie di uccelli rari e in via d'estinzione. Il progetto agricolo non solo esproprierebbe le popolazioni locali dalle loro terre, ma distruggerebbe anche molteplici luoghi sacri. La mobilitazione dei contadini e pastori locali, delle municipalità locali, il sostegno di alcune ONG, tra le quali Action Aid (Fuel for thought: Addressing the social impacts of EU biofuels policies) ha facilitato il respingimento del progetto italiano ed anche di un’altra industria britannica, G4 Industries, ma gli speculatori internazionali sono in agguato. Anche la zona umida del delta del Tana è minacciata da numerosi progetti tra i quali quello di una compagnia canadese, Bedford fuels, che prevede la coltivazione di 10.000 ettari di jatropha.
Senegal (Comunità rurale di Fanaye, Dipartimento di Podor, Regione di Saint Louis).
La SenEthanol SA è una holding con sede a Dakar, partecipata da ABE Italia Srl. Nel giugno 2011 l’azienda ottiene la cessione di 300 ettari per avviare la produzione di patata dolce e girasole da destinare al mercato alimentare e l’affitto di circa 20.000 ettari (25.000 CFA all'ettaro, ovvero circa 38 euro) per produrre agrocarburanti (coltivazione di jatropha) in un’area soggetta a vincoli in quanto zona agropastorale a priorità per l'allevamento. Questi 20.000 ettari vengono di fatto sottratti alla popolazione che viene privata di suoli coltivabili, aree di pascolo, foreste e zone umide. A Fanaye, centro dell’affare, è nato un Collettivo per la difesa della terra (Memorandum du Collectif pour la défense des terres).
La comunità rurale si è mobilitata e sollevata per difendere (anche con la forza) la propria terra, il proprio sviluppo, la propria sovranità alimentare. La lunga e accesa mobilitazione è degenerata, il 26 ottobre 2011, in uno scontro tra oppositori e sostenitori del progetto, per qualcuno dagli esiti tragici. L’obiettivo era di impedire la riunione del Consiglio Rurale (ente decentrato competente per la gestione delle terre pubbliche e favorevole alla “svendita”), ma le conseguenze sono state di gran lunga più soddisfacenti: l’allora presidente senegalese Abdoulaye Wade ha prima “sospeso” il progetto e, successivamente, annullato l’autorizzazione. La partita non è certo chiusa qui. Poco tempo dopo, il nuovo presidente Macky Sall (in carica dal 1° aprile 2012), con un decreto ha riclassificato i 20.000 ettari a vocazione silvo-pastorale dell’area di Fanaye in terreni agricoli. Con il nuovo rilancio dell’iniziativa, compare anche un nuovo attore, Senhuile SA, una joint venture composta dall’italiana Gruppo Finanziario Tampieri e da Senethanol SA.
Il progetto prevede la produzione di semi di girasole per l’esportazione in Europa, di arachidi per il Senegal e di alcune tipologie di piante da foraggio per le comunità locali che sono state però “tagliate fuori” dal progetto e impossibilitate ad utilizzare le terre da pascolo e le fonti d’acqua. Nulla di sinistro nella produzione di semi di girasole e arachidi, se non fosse per i capi d’accusa che pendono sugli attori coinvolti in questo affare: evasione fiscale, bancarotta, riciclaggio di denaro.
Mali.
Il Delta interno del Niger (Regione di Ségou) ha ospitato uno dei più grandi regni dell’Africa occidentale, l’impero peul del Macina (fondato nel XIX secolo). Oggi è una delle più grandi regioni coltivate a riso del Paese. L’Office du Niger, retaggio della tecnocrazia coloniale nazionalizzato nel 1960, è l’ente che qui controlla circa 1 milione di ettari coltivabili: la superficie agricola utilizzata è circa 80.000 ettari che il governo vorrebbe estendere per fare del Mali un Paese esportatore di riso. Dietro all’iniziativa c’è l’ombra di Malibya Agriculture, azienda nata nel 2008 da un accordo tra l’Autorità di Investimento libica e il governo maliano che punta alla produzione di 200.000 tonnellate di riso su circa 100.000 ettari (e 20.000 tonnellate di carne). Questa terra è stata concessa con un contratto di leasing per 50 anni, ma la mancata chiarezza dei contenuti della convenzione lasciano presagire una cessione a tempo indeterminato.
I lavori di bonifica, la costruzione di un canale d’irrigazione largo 30 metri e lungo 40 chilometri e la strada che lo costeggia sono stati affidati ad una società cinese (China Geo-Engineering Corporation). Dalla caduta di Mu’ammar Gheddafi nel 2011, il progetto Malibya ha subito un rallentamento anche se le popolazioni locali hanno continuato ad essere espropriate della loro terra ed è cresciuto il malcontento soprattutto per la totale assenza di risarcimento: quale compensazione è prevista per chi dalla terra trae la propria sopravvivenza? Dal villaggio di Sanamadougou (regione di Koulikoro) dove le famiglie e i contadini hanno dichiarato il loro dissenso per questo tipo di sviluppo ed opposto resistenza all’ordine di abbandonare abitazioni e campi, nel 2012, è intervenuto anche l’esercito. I rappresentanti locali di Via Campesina e le organizzazioni contadine hanno denunciato le violazioni in corso come “banditismo statale” (rapporto 2012 e intervista a Ibrahim Coulibaly, fondatore del CNOP, il Coordinamento Nazionale delle Organizzazioni Contadine del Mali, video in francese). CNOP ed altre organizzazioni (AOPP, UACDDD, CAD e LJDH - Ligue pour la justice, le développement et les droits humains) hanno dato vita alla “Convergence malienne contre les accaparements de terres” al fine di sostenere e coordinare dal basso delle azioni in difesa della terra. La mobilitazione dei contadini del Mali non smette di organizzarsi e prosegue la sua marcia.
Etiopia.
Il rapporto di Human Right Watch, Waiting Here for Death: Forced Displacement and ‘Villagization’ in Ethiopia’s Gambella Region del 2012 ribadisce atrocità già precedentemente rilevate dall’Oakland Institute (think tank californiano) nel rapporto “Understanding Land Investment Deals in Africa: Ethiopia”. Un’autentica deportazione di circa 70.000 persone, violentemente allontanate dalle loro abitazioni e condotte verso terre e villaggi senza cibo, né servizi educativi e sanitari. Queste “deportazioni” risultano legalizzate da un programma governativo ”Villagization Programs” avviato nel 2010 dal Ministero dell’Agricoltura e finalizzato alla ricollocazione delle popolazioni in nuove aree provviste dei servizi essenziali. Le terre fertili della regione di Gambella, al confine con il Sudan, sono abitate dagli Anuak e dai Nuer e sono quelle cedute agli investitori stranieri. Dal marzo 2011 sono diventate l’eldorado del miliardario saudita Sheikh Mohammed al-Amoudi proprietario del gruppo agro-industriale Saudi Star Agricultural Development Plc e sulle quali ha annunciato un investimento di 2,5 miliardi di dollari.
Il progetto è di coltivare riso, girasole e mais su 300.000 ettari di terra ottenuti per 60 anni in esclusiva al canone annuo di 9,42 dollari l'ettaro. Sempre qui, anche il gruppo alimentare indiano Karuturi Global Ltd. si è aggiudicato 312.000 ettari di campi per produrre olio di palma, zucchero, riso e cotone per 50 anni. Nel 2013 la Karuturi è stata riconosciuta colpevole di evasione fiscale; oltre a ciò, è stata accusata di favorire standard lavorativi molto bassi e di essere complice di violazioni dei diritti umani. Ma questi gruppi non sono soli. Tra il 2008 e il 2011, l'Etiopia ha ceduto oltre 3 milioni di ettari di terreni agricoli ad investitori stranieri, tra i quali spiccano, oltre ai sauditi, gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Regno Unito e la Banca Mondiale.
In Etiopia, Meles Zenawi (ex Presidente e dal 1995 Primo Ministro) ha saputo trasformare una riforma agraria di stampo socialista il cui principio cardine afferma che “la terra è proprietà comune delle nazioni, nazionalità e popoli d’Etiopia” (art. 40 della Costituzione), in un affare privato. L’obiettivo del “grande piano d’affitto” è di riempire le casse del Paese (delle sue élite) di valuta forte: ottenere in prestito dollari da reinvestire anche svendendo le proprie risorse ambientali ed umane. Un “buon” progetto protetto dallo sguardo di riguardo che Stati Uniti ed Unione Europea hanno sempre avuto verso l’Etiopia di Zenawi, considerato un esempio di politico moderno e raffinato, nonostante l’autoritarismo e le evidenti violazioni dei diritti umani che ne caratterizzano l’operato politico. La svendita delle terre è la pagina più attuale, nonché l’ultima delle tante malefatte di questa dittatura.
Madagascar.
Fino al 2003, una legge impediva l’acquisto di terre malgascie da parte di aziende straniere. Poi la modifica pilotata dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale: permesso accordato a quelle che aziende che avessero eseguito l’acquisto in associazione con un partner locale. Nel 2008, la sudcoreana Daewoo si preparava a trattare, direttamente con il presidente Ravalomanana, l’affitto di 1,3 milioni di ettari coltivabili, cioè il 40% delle terre coltivabili del Paese, per 99 anni gratuitamente. La Daewoo progettava di impiantare monoculture di mais e alberi di palma per farne agrocombustibili e materie prime da importare in Corea del Sud. Precisamente: 1 milione di ettari per produrre mais (la Corea del Sud è il terzo consumatore mondiale di mais, quasi totalmente importato) e 300.000 ettari per produrre olio di palma da trasformare in carburante. In cambio di un investimento di 6.700 milioni di dollari su vent’anni per la costruzione di un porto funzionale alle esportazioni verso la Corea del Sud. Scambio che doveva rendere possibile la conclusione dell’affare e soprattutto assicurare posti di lavoro per la popolazione locale e la realizzazione di una scuola.
La notizia dell’accordo –più volte smentita dal Governo di Antananarivo– e la già profonda crisi politica ed economica che stava attraversando il Paese, ha scatenato la mobilitazione dei collettivi locali. In particolare, il Collectif pour la Defense des Terres Malgaches ha portato, nel marzo 2009, ad un golpe militare e alla cacciata del presidente Ravalomanana. Il nuovo governo e il nuovo presidente della repubblica, l’ex sindaco della capitale, Andry Rajoelina, hanno ufficialmente cancellato l’affare da oltre un milione di ettari, per sostituirlo con una serie di piccoli affari, mentre Daewoo continua ad affittare terre in Madagascar e continuando ad invitare gli investimenti stranieri di questo tipo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli espedienti di chi è davanti.

 


Per chi sta davanti, l’operazione di acquisto, affitto, ecc. delle terre è una questione d’investimento, cioè di “incremento dei beni capitali, di acquisizione o creazione di nuove risorse da usare nel processo produttivo per ottenere un maggior profitto futuro”. L’obiettivo è palese: i massicci investimenti servono per la realizzazione di piantagioni industriali di monocolture destinate all’esportazione. Le dichiarazione d’intenti sfiorano l’ipocrisia quando mettono al primo posto la sicurezza alimentare e lo sviluppo locale dei Paesi “oggetto” d’investimento. La monocoltura –si sa–, la Rivoluzione Verde dovrebbe averlo insegnato, distrugge la biodiversità perché geneticamente uniforme e intacca la sovranità alimentare delle comunità locali, sottrae risorse idriche, compromette i sistemi agricoli tradizionali.
Cosa fa la Banca Mondiale di fronte a questa distruzione? È spettatrice e complice allo stesso tempo. Nel 2010, il rapporto Rising Global Interest in Farmland era particolarmente atteso perché doveva fornire un quadro esaustivo dell’accaparramento di milioni di ettari di terre in Africa, Asia ed America Latina. Ciò significa che oltre ai dati numerici riferiti agli ettari ceduti, affittati, acquistati, il rapporto avrebbe dovuto fornire indicazioni sulla tipologia di investitori, sui loro obiettivi e sulle loro strategie. Nessun accenno. Da sempre favorevole alle privatizzazioni, la Banca Mondiale appoggia gli investimenti in agricoltura nei paesi del Sud, convinta che il meccanismo regolatore del mercato libero porti con sé sviluppo, ovunque. Via Campesina e le altre organizzazioni contadine le sono ostili. Paradossalmente, la Banca Mondiale recepisce le provocazioni trovando modo di trasformare gli evidenti rischi e pericoli per la piccola agricoltura in opportunità: gli investimenti possono contribuire a rilanciare economie deficitarie e ad aumentare la produttività agricola. Da qui la scrittura e pubblicazione di alcuni “princípi per investimenti responsabili in agricoltura” (RAI): tra questi, rispettare e riconoscimento dei diritti esistenti di accesso alla terra e alle risorse naturali; non intaccare la sovranità alimentare; assicurare processi di accesso alla terra trasparenti e monitorati; generare impatti sociali desiderabili e distribuibili senza aumentare la vulnerabilità. Imbarazzanti princípi di carta. Quale giustizia ne assicura il rispetto?

 

 

 

 

 

 

 

 

ONU: Primo obiettivo e sicurezza alimentare.

 


Il controllo su terra e acqua rappresenta anche la chiave di volta del primo degli otto obiettivi delle Nazioni Unite lanciati nel 2000 attraverso la Dichiarazione del Millennio. Il primo obiettivo mira appunto a dimezzare la povertà e la fame e a raggiungere la piena occupazione della popolazione attiva e il lavoro dignitoso per tutti entro il 2015. In particolare, l’attenzione alla problematica della fame –che interessa più di 800 milioni di persone nel mondo– porta le Nazioni Unite e le altre organizzazioni che se ne occupano, la FAO, l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura, l’IFAD, il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo e il PAM, il Programma alimentare mondiale, a pensare di risolverla attraverso politiche e pratiche di sicurezza alimentare. Significa cioè “assicurare a tutte le persone e in ogni momento una quantità di cibo sufficiente, sicuro e nutriente per soddisfare le loro esigenze dietetiche e preferenze alimentari per una vita attiva e sana” (FAO, 1996). I principali obiettivi della sicurezza alimentare sono l’aumento della produzione agricola e la stabilizzazione dei prezzi e del commercio dei prodotti alimentari. Essi sono finalizzati ad accrescere la disponibilità di cibo aumentando le rese dei terreni agricoli e la produzione e a facilitare le condizioni per potervi accedere con lo scopo di diminuire il numero delle persone che soffrono la fame. È noto però che non è l’aumento della produzione che risolverà la fame. Paradossalmente, anche secondo la FAO la quantità di cibo prodotta oggi potrebbe sfamare 12 miliardi di persone.
Inoltre, la sicurezza alimentare contribuisce a trasformare il cibo in merce quotata in borsa, cioè fa diventare le materie prime agricole dei beni da acquistare e da vendere al prezzo più conveniente in un grande mercato, con tutte le conseguenze che questo comporta. Il fatto che l’offerta di cibo non sia “sufficiente” a soddisfare la domanda, questo ne accresce il valore e, quindi, il prezzo sul quale diventa interessante speculare. Significa che il presente e il futuro del cibo, e quindi la possibilità o meno di mangiare per milioni di persone, dipendono dall’andamento finanziario dell’economia. Il cibo diventa quindi una merce su cui investire per far aumentare i guadagni privati; l’effetto di questo gioco in cui il guadagno è riservato a pochi è che non viene ridistribuito a livello pubblico, alle collettività.
Inoltre, un altro effetti negativo della sicurezza alimentare è proprio il fatto che per garantire il cibo a tutti viene meno la preoccupazione di dove e come il cibo viene prodotto e consumato e degli impatti ambientali, sociali, culturali che può avere produrre un cibo a migliaia di chilometri da dove verrà poi consumato. La distanza tra i luoghi di produzione e di consumo viene normalmente riempita di intermediari che in qualche modo facilitano lo scambio, fanno aumentare il valore della merce e nello stesso tempo allontanano chi produce da chi consuma. Il cibo oggi, essendo considerato un bene di scambio e quindi economico, viene prodotto dove è più conveniente e commercializzato nel modo più conveniente. Con questa logica saranno i Paesi o le aziende più forti e più potenti ad avere maggiori margini di scelta di dove e come produrre cibo. Gli affari sulla terra portati avanti dalle multinazionali vengono firmati anche in nome della sicurezza alimentare.
A questo proposito è interessante notare come l’Agenda globale per lo sviluppo post-2015 presti un’attenzione particolare alle problematiche della sicurezza alimentare, della nutrizione e dell’agricoltura sostenibile. Dai documenti preparatori emerge un ampio consenso sul riconoscimento delle interconnessioni tra cibo, terra e acqua, quindi tra cibo e questione ambientale che include la biodiversità e la sostenibilità. La complessità è tale però che se da un lato c’è unanimità sulla questione dell’accesso al cibo, politicamente diventa meno condiviso l’approccio da seguire perché molteplici sono le posizione e gli interessi ad esempio sulla produzione di agrocarburanti, sugli OGM, sui sussidi che influenzano il commercio e sul land grabbing.

 

 

 

 

 

 

 

 

Una corsa contro la sovranità alimentare.

 


Olivier De Schutter, relatore speciale sul diritto all’alimentazione delle Nazioni Unite dal 2008 al 2014, è convinto che gli investimenti su larga scala in agricoltura non siano per forza una cosa buona. È critico nei confronti dei RAI della Banca Mondiale; la sua lista di principi, sottoposta al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, è molto diversa da quella delle grandi agenzie internazionali: la terra non deve essere ceduta senza l’accordo delle comunità locali; gli investimenti devono essere a beneficio delle popolazioni locali; una percentuale della produzione deve essere venduta sui mercati locali, ecc.. Inoltre, l’istituzione di un processo trasparente di informazione sui progetti e sulle condizioni di realizzazione non è una condizione sufficiente perché le popolazioni locali possano dare il loro consapevole consenso. Permangono forti asimmetrie di potere a sfavore di chi non ha alternative, depauperato, vulnerabile.
Nel frattempo la corsa avanza e chi sta davanti è sempre più irraggiungibile. Avanza l’insicurezza alimentare e arretra la sovranità alimentare, in alcuni casi fino a ritirarsi dal grande gioco. Capitali transnazionali senza scrupoli e governi nazionali opportunisti stanno depauperando intere regioni rurali del pianeta. Laddove l’agricoltura di sussistenza è il principale motore dell’ordinamento territoriale, l’agro-business è un nemico da respingere perché minaccia il diritto di decidere cosa, come e per chi produrre. Il diritto al cibo ed alla sovranità alimentare è minacciato dalle pratiche di land grabbing: il riso prodotto da Malibya sulle terre dell’Office du Niger prende il volo per la Libia, come pure quello coltivato in Etiopia è destinato all’Arabia Saudita. Nello specifico del caso africano, la disponibilità di terre ancestrali sulle quali le comunità locali praticano un’agricoltura pluviale di tipo tradizionale (mais, miglio, sorgo o altri cereali antichi come il fonio, Digitaria exilis) diminuisce progressivamente di fronte all’avanzata tecnologica delle piantagioni di jatropha o altri vegetali destinati alla produzione di agrocarburanti.
Queste espansioni agricole sottraggono alla piccola agricoltura quel margine di sicurezza minimale che –fatte salve le eccezioni pluviometriche negative– ha da sempre consentito di riempire i granai di miglio. Si forzano le economie locali verso le esportazioni, lasciandole prive di margini di beneficio e quindi di opportunità di sviluppo e di sopravvivenza. Secondo Via Campesina “l'agricoltura e l'alimentazione sono fondamentali per tutti i popoli, sia in termini di produzione e disponibilità di quantità sufficienti di alimenti nutrienti e sicuri, sia in quanto pilastri di comunità, culture e ambienti rurali e urbani salubri. Tutti questi diritti vengono erosi dalle politiche economiche neoliberiste che con crescente enfasi spingono le grandi potenze economiche come gli Stati Uniti e l'Unione Europea, attraverso istituzioni multilaterali come l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il Fondo Monetario Internazionale (IMF) e la Banca Mondiale. Invece di garantire l'alimentazione per tutta la gente del mondo, questi organismi presiedono un sistema che moltiplica la fame e diverse forme di denutrizione, con l'esclusione di milioni di persone dall'accesso a beni e risorse produttive come la terra, l'acqua, le sementi, le tecnologie e le conoscenze”.
Nel suo ultimo rapporto, “Il potenziale trasformativo del diritto al cibo del 2014”, Olivier de Schutter, ex relatore speciale dell’ONU per il diritto al cibo, afferma: “le innovazioni sociali emergenti in tutto il mondo mostrano come i consumatori urbani possono essere collegati ai produttori alimentari locali, riducendo al tempo stesso la povertà rurale e l’insicurezza alimentare. Occorre però sostenere queste iniziative locali a livello nazionale e, al tempo stesso, anche le strategie nazionali necessitano di condizioni internazionali favorevoli per poter dare dei frutti”. Secondo De Schutter, da qui in avanti, “la priorità deve essere quella di promuovere i circuiti brevi e i legami diretti fra produttori e consumatori in modo da rafforzare le aziende agricole locali di piccole dimensioni e ridurre la dipendenza dalle importazioni. Il diritto ad una alimentazione adeguata necessita di un ripensamento radicale e democratico dei sistemi alimentari mondiali”.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dove sta andando la corsa?

 


Parafrasando il titolo di un noto film di Herzog del 1984, si può dire che le formiche verdi sono tornate a sognare a Londra (26-28 giugno 2012) dove si è tenuto il quinto Agriculture Investment Summit. Presenti grandi ingegneri finanziari (fondi di investimento e fondi pensione) pronti a mettere le mani su terre, risorse agricole e agrocarburanti per diversificare gli investimenti in un contesto economico fortemente aleatorio. L’Apocalisse è adesso –rimanendo dentro un linguaggio cinefilo– per milioni di contadini di Africa, Asia ed America Latina. Perché quei fondi d’investimento vanno a sradicare complessi sistemi territoriali restringendo sempre più la finestra di opportunità: operaio agricolo, indigente o migrante? La portata delle conseguenze del fenomeno di accaparramento delle terre alla scala globale è smisurata e sta assumendo dimensioni spaziali faticosamente calcolabili perché dentro un flusso temporale fluido. Per quanto ci riguarda, alla scala europea, l’Italia è sul podio (seconda dopo il Regno Unito): banche, compagnie assicurative, grandi (e piccoli) nomi del settore energetico e dell’abbigliamento tutti ugualmente pronti ad “investire” rifugiandosi nel business della terra soprattutto in Africa, in particolare in Mozambico, Etiopia e Senegal.