Febrar 2012. Il Naviglio.

 

 

 

 

Sono nato che il naviglio della cerchia era già un ricordo,
una melanconia crepuscolare, un rimpianto.
Ma ho, come tutti i milanesi,
molto naviglio nel mio sangue, nel mio DNA.
Il naviglio che mi porto dentro,
attraverso le memorie dei miei "vecchi",
attraverso il misterioso sedimento dei ricordi,
degli affetti metropolitani accumulati dalla cultura collettiva della città,
è assai più importante del tratto di naviglio che ho vissuto.
 
 
Guido Vergani

 

 

 

 

Premessa con spiega delle mie foto: le immagini "fisse" sono effetto del riflesso nelle acque del Naviglio Grande di case, cascine, chiese, sponde, alzaie, ripe: il vecchio Navigium riverbera e dona scorci pittorici che rimandano a opere impressioniste, macchiaiole, sino all'astrazione, mentre quelle "in sequenza" sono con la "fiòca", salvo ove s'impone all'orizzonte il Monte Rosa e una, doverosa, con la "scighera".

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Milano

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Bernate Ticino

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Castelletto di Abbiategrasso

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Castelletto di Cuggiono

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Gaggiano

 

 

 

 

 

Riverbero in quel tra Robecco sul Naviglio e Cassinetta di Lugagnano

 

 

 


Sarà per quella sua anima intimamente popolare, per la piena identificazione simbolica con una milanesità ormai largamente perduta, per il fascino discreto dovuto al suo pluricentenario esistere, ma il Naviglio (per meglio dire i Navigli) è per un milanese con almeno 50 primavere quello che è l'Arno per un fiorentino, il Tevere per un romano, la Senna per un parigino, il Tamigi per un londinese, il Danubio per un viennese. Interesse, se non attrazione, provarono per esso, non solo il popolo comune, ma uomini d'arte, quali scrittori, pittori, architetti, e uomini di scienza, tra cui è dovere citare il sublime Leonardo che ne fece per anni oggetto di studio, progettazione, innovazione.
Personalmente i primi ricordi furono per il Naviglio Grande, perché quello che vidi più frequentemente sin da piccolo per motivi di passaggio in auto o in tram, soprattutto transitando sul vecchio "ponte di ferro" di via Cassala o lungo la Darsena su entrambi i lati, per andare da Porta Vercellina a Porta Romana. Rammento i "barconi" pieni di sabbia e pietrisco, la banchina di stoccaggio della Darsena dove ancoravano giunti in Milano: questo fu motivo di curiosità e di particolare richiamo, perché elemento di diversità nell'ambiente metropolitano milanese ove vivevo, e perché l'acqua e quanto vive in essa attraggono sempre un bimbo.
Il Naviglio Grande mi piacque anche poi, crescendo, per la architettura urbana ed il tessuto sociale che si erano mantenuti in alcuni contesti intorno alle sue ripe e alzaie, contesti che si amalgamavano ad arte con la "via d'acqua" che li attraversava. Amalgama che diveniva esteticamente eccelsa nelle fredde giornate nebbiose, quando la "scighera" avvolgeva in atmosfere d'altri tempi i quartieri, e le acque del Naviglio alitavano piccole nivole di vapore come magico respiro. Indimenticate anche le opportunità, quando ancora era possibile transitare con l'auto lungo il lato sinistro da San Cristoforo a Corsico, di "andare in camporella" negli slarghi che si aprivano nella alzaia, tra la riva e i campi. Indimenticabili anche le ciclettate fatte da Trezzano sul Naviglio, dove ho vissuto per un lustro, percorrendo le alzaie sia verso Corsico, sia verso Gaggiano, con la mia bimba sul seggiolino di una vecchia bici tinta di rosa.
In conclusione, ancor oggi dopo oltre mezzo secolo, mi piace poter ancora camminare o ciclettare lungo le sue rive, molto meno lungo quelle di Milano snaturate ormai da locali e da una frequentazione estranea completamente alla tradizione, molto più lungo il tratto da Gaggiano a Turbigo, come pure starmene seduto ad ascoltare il fruscìo rilassante del suo quasi millenario scorrere leggendo un libro, guardare le sue acque che risalendolo sempre più sino al Panperduto sono tornate limpide e scorgervi in esso vaganti rivoli di nostalgia.
Non mi dilungherò nel "mestée al mes" riportando stralci di storia, sua e delle altre "vie d'acqua" che facevano di Milano bellezza e originalità, denunciando l'imperdonabile delitto architettonico e culturale compiuto dalle diverse amministrazioni pubbliche in diverse epoche che ne determinarono le coperture, ma se avete tempo e curiosità, vi consiglio di cercare foto e testimonianze dei tempi in cui Milano aveva ancora le "vie d'acqua" a cielo aperto: avrete la prova certa ed inoppugnabile dell'efferato crimine.
Porterò solo due assaggi di "cultura del Naviglio": l'uno tratta del trasporto nella sua peculiarità di mezzi e mercanzie, l'altro tratta delle antiche "vere" osterie lungo il suo acqueo itinere.

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Abbiategrasso

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Robecco sul Naviglio

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Bernate Ticino

 

 

 

 

 

Riverbero in quel tra ponte dello Scodellino e vico dei Lavandai

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Trezzano sul Naviglio

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Bernate Ticino

 

 

 

 

I barconi delle "vie d'acqua".
 

I barconi erano chiamati "cagnoni", "mezzani" e "borcelli" e costruiti sul lago di Como. I cagnoni erano lunghi 24 metri, i mezzani 22 metri mentre i borcelli erano più piccoli ed arrivavano fino a 18 metri. Questi barconi erano costituiti da timoni mobili e l'equipaggio era composto da tre uomini, e poichè nella risalita da Milano si era ovviamente controcorrente, si utilizzavano "cobbie" composte da cinque barche aiutate da almeno 5 cavalli.
Per secoli a Milano arrivò dal Lago Maggiore ogni sorta di merci in grande abbondanza, che si ammassava giornalmente alla stazione di Sesto Calende: carbone, legna, fieno, graniti bianchi di Montorfano e rossi di Feriolo e Baveno, beole di Locarno, calce di Ispra e della Valtravaglia, formaggi dell'Ossola e della Svizzera, vino, vetri, pesce, vitelli, castagne ed una infinità di altre merci provenienti dall'Oltralpe attraverso il Sempione, il Gottardo e il San Bernardino. Dal Ticino poi, lungo il canale, si raccoglievano ciottoli per selciare, mattoni a Robecco, Corsico e Ronchetto, paglia a Boffalora, fieno ad Abbiategrasso, creta e ghiaccio a San Cristoforo.
Mentre da Milano verso il nord si trasportavano sale, ferro, grani e molti altri prodotti di diverse provincie lombarde destinate alla Svizzera.
Nel novecento, con la concorrenza dei nuovi mezzi di comunicazione, il trasporto sul Naviglio Grande continuò ad essere conveniente solo per alcune merci, in primo luogo la sabbia ma anche ghiaia e mattoni. Il dazio imposto alla mercanzia che viaggiava sul Naviglio era detto "della catena", che di traverso del naviglio si teneva per proibire il passo alle navi che non lo pagano, introdotto per far fronte alle spese di manutenzione e formalmente vigente sino alla fine del settecento.
Una breve nota "curiosa": in occasione della costruzione del Duomo, Ludovico il Moro decise di non far pagare tale balzello, poiché il materiale serviva per uno scopo religioso, sacro; pertanto i materiali contraddistinti dalla scritta A.U.F. (dal latino ad usum fabricae, cioè per uso del costruttore e manutentore della cattedrale, le fabbricerie o fabbriche) avrebbero evitato di pagare il servizio offerto. Anche se si discute ancora sull'etimologia della locuzione "a ufo" che sottintende la fruizione di un servizio senza pagarne il relativo prezzo, pare proprio che derivi dal "famoso" A.U.F. I conducenti dei barconi erano chiamati "comballi". Giunti a Milano erano soliti fermarsi presso un'osteria che si trovava nelle immediate vicinanze del ponte sotto il quale il Naviglio Grande si immetteva nella Darsena per farsi dare una scodella di minestra "bollente", soprattutto nelle fredde giornate autunnali e invernali: da questa usanza il nome del ponte, Ponte dello Scodellino, ancora esistente. (Autori diversi)

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Castelletto di Cuggiono

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Gaggiano

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Gaggiano

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Milano al "Pont de fer"

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Milano

 

 

 

 

 

Riverbero in quel di Milano

 

 

 

 

Le antiche osterie lungo il Naviglio Grande.
 
Fu naturale che col costante aumento dei traffici sul Naviglio Grande sorgessero dei luoghi di ristoro e di ricovero per i viandanti. Tuttavia queste osterie non erano distribuite in modo equilibrato lungo il corso d'acqua, ma si concentravano soprattutto nel tronco Milano-Abbiategrasso, per poi rarefarsi oltre. Una carta topografica della pieve di Rosate, risalente alla seconda metà del Cinquecento, raffigura tra Gaggiano e Abbiategrasso sette osterie, tutte ancora esistenti, contraddistinte dalla caratteristica insegna. Oltre a quelle di Bonirola e di Gaggiano, è segnata la "Bettolina", dal nome di per sé esplicativo. E non lontano c'era la "Rosa", nella seconda metà del Quattrocento detta anche "la betola de Fagnano" perché all'inizio della strada che conduce a quella località, che talvolta ospitò Bona di Savoia durante la sua permanenza al castello di Abbiategrasso. Manca l'indicazione della bettola di Vermezzo, ricordata nel Trecento, mentre è indicata la "Barbattola", che prese il nome da Zanino Barbato, esponente della corte sforzesca.
A Castelletto di Abbiategrasso le osterie erano e sono ancora due: sulla riva destra c'è l'"Osteria di Sant'Antonio", già menzionata nel 1411 e dove nel 1432 gli ambasciatori del duca di Savoia stipularono con un procuratore del duca Filippo Maria Visconti un trattato di alleanza col marchese di Monferrato. L'altra è sulla riva opposta, proprio sull'angolo che il Naviglio descrive per dirigersi a Milano: denominata "Osteria dell'Angelo", nel 1412 venne donata da Filippo Maria Visconti a Oldrado Lampugnano per le benemerenze di suo padre.
Risalendo il corso si trovavano due bettole, una all'altezza del ponte di Cassinetta di Lugagnano, l'altra al ponte di Robecco sul Naviglio, e forse la più importante di tutto il Naviglio, perché situata a Boffalora all'incrocio di diversi itinerari postali e stazione di confine, ed anche tra le più antiche, essendo citata nella donazione del 1396 di Gian Galeazzo Visconti al monastero di Santa Maria delle Grazie di Pavia; posta sulla sponda sinistra, era detta "di Sant'Antonio" e una raffigurazione popolare del santo campeggiava infatti sull'insegna dell'ingresso, aperto sulla strada costeggiante il Naviglio.
Era detta anche "Osteria Grande" sia per le dimensioni, potendo alloggiare una ventina di viandanti, sia per distinguerla dalla "Osteria Piccola" o "della Croce Bianca", che vi faceva coerenza, anch'essa menzionata dal Seicento come proprietà dei certosini. Entrambe appartennero a quel monastero sino alla fine del Settecento. Un'osteria lungo il Naviglio è documentata anche a Bernate Ticino alla metà del Seicento, di proprietà di Crivelli; un'altra bettola esisteva a Turbigo in prossimità del ponte, e di un bettolino si ha traccia, sempre nel Seicento, presso il ponte di Castelletto di Cuggiono.
Ritornando verso Milano sono da citare almeno la seicentesca osteria di Cesare Corio in territorio di Ronchetto e l'hospitium di Trezzano sul Naviglio, pure della Certosa pavese.
Ormai a Milano esisteva infine nel Seicento l'"Osteria Cattabrega" presso San Gottardo "sul Naviglio Grande sotto il segno della volpe": la raffigurazione di questo animale nella insegna aveva origine da un legato a favore del convento di Sant'Eustorgio di Milano, disposto nel 1677 da un certo Francesco Volpi, titolare di quell'osteria e del relativo diritto di "vendere ogni sorte di vino bianco e rosso, di continuo". (M.Comincini)

 

 

 

 

 

 

 


Le città attraversate dai fiumi e dai canali ne traggono una linfa vitale e segreta: ma gli uomini, nella loro tendenza proterva a ridurre l'ideale al materiale, la interpretano come efficienza dei collegamenti e dei trasporti.
Anche Milano è stata vittima di questa allucinazione. Ha impiegato secoli di lavoro geniale per trasformarsi in una città acquatica, rendendo sempre più capillare la trama dei canali e la civiltà dei rapporti. Ma poi, nel giro di un secolo, dominata da due miti moderni , la macchina e la velocità ha iniziato e in gran parte coperto il percorso contrario, convinta che i navigli adempissero ad un'unica funzione, quella utilitaria.
Trasformare le vie d'acqua in vie asfaltate appariva una operazione coerente con lo sviluppo della città; non si capiva che se ne tradiva la storia, se ne spegneva la bellezza, se ne impoveriva l'umanità. 
L'interramento dei navigli, mi appariva nonostante fossi giovane, qualcosa di sinistro: non la copertura di un alveo, ma la sepoltura di un mondo. Un paesaggio fatto di un accordo armonioso tra la natura e gli uomini veniva smantellato soprattutto per accelerare la circolazione che oggi, in un processo di continuo superamento, arriva spesso al suo esito naturale: la paralisi. (Giuseppe Pontiggia)