Febrar 2014. Dove comincia il tempo.

 

 

 

 

 

 

 


Sin da piccolo i territori delle foreste tropico-equatoriali e le profondità degli oceani hanno rappresentato per me la quintessenza dell'avventura, dell'esplorazione,per taluni aspetti del mistero. Dei primi ne ho vissuto, seppur marginalmente durante alcuni miei viaggi, l'emozione, il fascino, il coinvolgimento psicologico, la realizzazione di un sogno infantile, percorrendoli per fiumi e sentieri, dei secondi nulla ne ho potuto assaporare. Ma dei territori delle foreste profonde, tre luoghi hanno sempre catturato il mio immaginario: l'Amazzonia, il Congo, la Papuasia, per cui dedico questo "mestée del mes" alla narrazione di un viaggio in Amazzonia.
L'Amazzonia sublima il fascino dell'avventura determinato dal territorio per millenni inesplorato, ancor oggi in parte quasi inaccessibile, impenetrabile, un assoluto naturale, con -risalendo lungo il suo corso superiore sino all'incontro andino- il mistero delle civiltà precolombiane, le città d'oro o di cristallo, creando un cocktail straordinario.
I brani sono tratti dal libro "Dove comincia il tempo". Le foto sono anonime recuperate dal web: ambiente, giaguari, mayoruna, e come guest stars alcune specie di rane amazzoniche(perché me piasen i ran). Completano le immagini la riproduzione di alcune "mappe" (che amo quanto le rane): due relative al testo,e cinque relative alla spedizione di Leonard Clark del 1946. ("I fiumi scendevano a oriente", Garzanti).

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell'ottobre del 1969 Loren McIntyre, giornalista e fotografo del National Geographic, è in Amazzonia (corso superiore del Rio Javari), incaricato dal giornale di fornire un servizio fotografico sulla sorgente del Rio delle Amazzoni. Ma McIntyre sente che la vera sorgente non è stata ancora individuata, così, quando la sua guida si ammala e lui si ritrova solo nel cuore della foresta amazzonica, è ben deciso a non rinunciare al tentativo di scoprirla.
Costretto ad aggregarsi alla tribù dei mayoruna, i leggendari "uomini-giaguaro", dovrà seguirli in una faticosa marcia di trasferimento. Nel corso di questa forzata convivenza, incredulo sulle prime ma poi vinto dall'evidenza del fenomeno, si accorgerà di essere in contatto telepatico con il vecchio sciamano(Granchio) che è il capo della tribù. Apprenderà così, con questo inedito mezzo di comunicazione, che i mayoruna, in fuga dalle minacce del ventesimo secolo, vanno là "dove comincia il tempo", e vedrà, in una sorta di misteriosa allucinazione, un paesaggio mai conosciuto eppure noto: è forse, questo, un messaggio della memoria tribale, di cui McIntyre sembra essere diventato partecipe? Ha inizio così una nuova avventura, pericolosa ma quanto mai esaltante, forse l'ultima delle grandi imprese esplorative del nostro pianeta.
McIntyre non aveva mai rivelato a nessuno questa sua straordinaria esperienza: solo molto tempo dopo, nel 1987, ne parlò con Petru Popescu, che si trovava a Manaus, nel cuore della regione amazzonica. Popescu insistette perché l'esploratore gli consentisse di raccontarla, rendendo con straordinaria efficacia, l'avventura, l'enigma, lo straordinario arricchimento spirituale derivato dal contatto con uomini in profonda simbiosi con le forze della natura. La narrazione nel testo passa, terminata l'esperienza nei territori mayoruna avvenuta nel 1969, al 1971, quando McIntyre intraprende la spedizione alla ricerca della sorgente del Rio delle Amazzoni lungo il percorso del Lloqueta sino al massiccio del Mismi nelle Ande peruviane.

 

 

 

 

 

 

 

 

Era il 18 ottobre 1969. Ancora prima che il Cessna si alzasse in volo, la foresta che si profilava di là della sua esile sagoma di alluminio sembrava inviare consigli di prudente diffidenza. Era una vegetazione composta da mogani e cedri, alberi palo sangre dal legno cosi pesante che in acqua non galleggiava e dal colore cosi rosso da meritarsi il nome di "albero del sangue"; c'erano poi huacapu dal legno cosi duro che non si riusciva a piantarvi un chiodo, giganteschi sumauma e alti lupuma, altrimenti detti "fari del fiume" perché i battellieri se ne servivano come punti di riferimento (uno sorgeva non lontano da dove era ormeggiato l'aereo, ottimo segno di riconoscimento per Mercier, quando sarebbe tornato). C'erano alberi della gomma, palme chonta da cui si ottenevano stecche lunghe e resistenti, ideali per archi e frecce, e decine di altre specie, ciascuna con sue proprie caratteristiche e utilizzazioni. Tutti questi alberi, col loro appannaggio di bromelie, rampicanti, piante parassite, muschi, sembravano trasudare una tensione immobile, simile a quella d'una belva pronta a balzare sulla preda.
L'uomo moderno in questi luoghi aveva fatto solo brevi apparizioni, andando e tornando a capriccio: per nulla simile dunque all'aborigeno che stava alla foresta come la scimmia urlatrice o la formica tagliafoglie, la sauva. La foresta dava buona accoglienza all'uomo della tribù ma si comportava ostilmente contro l'intruso europeo, su cui spesso aveva la meglio.
La foresta che circondava il velivolo era del genere più selvaggio, fedele solo alle proprie leggi e non disponibile a compromessi con l'uomo civile. In essa permanevano e si evolvevano con un ritmo primordiale la metà delle invenzioni naturali del pianeta. Nessuno sapeva con certezza quante piante e quanti animali vivevano sulla terra: il loro numero presunto non cessava di crescere, ma l'Amazzonia continuava ad aggiungere a tale lista più specie che qualsiasi altra zona del mondo. Si presumeva naturalmente che la massima concentrazione di specie ignote si trovasse là dove la foresta era stata meno violata. Questa "foresta totale", e le tribù che l'abitavano, affascinavano McIntyre. La dove l'uomo era meno presente, meno aveva danneggiato l'habitat; il termine di homo inconspicuus certo non poteva più essere attribuito all'uomo moderno.
Questo tipo di foresta aveva uno strano effetto sulla mente dei civilizados che si aggiravano lungo i suoi bordi. In essa non c'era che foresta, sempre più fitta, intricata e aggrovigliata, sempre meno nota e studiata, ma i civilizados continuavano a sostenere che nelle sue profondità c'era qualcosa, una cosa difficile da trovare ma che valeva la pena di cercare.
Fin dalle prime scorrerie dei conquistadores si era guardato alla foresta come a una conchiglia che tra le sue valve teneva gelosamente custodito un tesoro; di volta in volta esso era un regno fiabesco sulle rive d'un lago incantato, un filone inesauribile d'oro e diamanti, un popolo di esseri metà uomini e metà animali, bonaccioni, tonti e ospitali, e infine un immenso giacimento di petrolio. Si chiamava El Dorado, il Regno degli Omagua, Siviglia d'Oro, Beni, Mojo, Gran Pará. Con questo miraggio i conquistadores si avventurarono in viaggi massacranti, sbandierati come "missioni civilizzatrici" che invece li conducevano verso la morte, la follia o la prigionia nelle mani degli indios.
Coloro che scampavano, malati e storpiati, alimentavano il mito. Il tesoro c'era: proprio all'ultimo istante, prima di riprendere penosamente la via del ritorno, in preda alle allucinazioni per la fatica e la fame, avevano avuto la visione lontana di quelle favolose torri, al di sopra delle cime degli alberi: li avevano incontrati, loro, gli orgogliosi araldi di quel regno, vesti e armi tempestate di pietre preziose e oro; essi si erano dissetati alle acque del lago incantato. Il mito non moriva, anzi cresceva di volta in volta. La densità della vita organica su quei tre milioni e più di chilometri quadrati poteva coprire, nascondere, camuffare e mascherare la minaccia di qualsiasi mostro della fantasia. Nel 1925, quando McIntyre era uno scolaretto, il famigerato colonnello Fawcett era scomparso nella giungla pressappoco intorno al corso superiore del fiume Xingu, alla ricerca di una città di cristallo. E chi poteva dire che non l'avesse trovata, e che lui stesso non fosse stato mutato in cristallo, soccombendo alle sovrannaturali emanazioni del luogo?
(...)
Si sarebbe detto che un potere soprannaturale proteggesse la regione dall'esplorazione. Le carte geografiche erano ancora tracciate in modo approssimativo e gli insediamenti erano piccoli e primitivi. Puerto Carmen era un villaggio di quattro capanne, Conceptiòn un paesello di quindici case, Puerto Amelia, capitale del distretto, era ancora priva di stazione radio. Quanto a Leticia, base del viaggio ora intrapreso da McIntyre, il South American Handbook definiva il suo Hotel Victoria Regina "primitivo... appena passabile. A Leticia può anche capitare di rimanere bloccati senza possibilità di scampo per una settimana... sconsigliata".
Per alcuni viaggiatori il fascino stava proprio in queste difficoltà: l'ignoto era l'attrazione, e l'accanimento a perseguirlo l'avventura da raccontare una volta tornati in patria. I battelli fluviali ancora affondavano in rapide non segnalate, e i loro scafi arrugginiti diventavano il ricovero di testuggini e avvoltoi dal collo rosso o si arenavano in qualche zona morta dove i rami pendenti dagli alberi facevano crollare i ponti, strappavano gli argani e i puntali, scrostavano la vernice. La regione sembrava attrezzata per distruggere tutto ciò che non le apparteneva: demoliva, avariava e scardinava, intasava tubi, condutture, pompe, bloccava cilindri e qualsiasi altro genere di congegno, corrodeva il metallo, logorava le stoffe, sbilanciava le ruote, faceva inclinare gli edifici, deturpava muri e pavimenti con la sua perniciosa umidità, creava cortocircuiti, deteriorava, inquinava e liquefaceva. Cibi e bevande diventavano acidi e amari, trasformandosi da generi commestibili e potabili in veleni. I corpi degli uomini si svigorivano e gonfiavano. Il fegato si ingrossava, gli occhi si annebbiavano per il glaucoma, le ferite andavano in suppurazione, i polmoni si intasavano dei liquidi prodotti dai raffreddori e dalle allergie. Sembrava che il nulla stesso fosse capace di ammuffire, di acquistare vita e diventare contagioso.
In un quadro così inesorabilmente malefico il mito fioriva e invariabilmente comprendeva anche gli indios, l'altra mercanzia offerta dall'Amazzonia: quel misterioso uomo naturale che mortificava la così detta superiorità del civilizado sopravvivendo in qualsiasi condizione, sgattaiolando silenzioso nella boscaglia, nuotando senza farsi attaccare dai piranha, guardando la morte negli occhi ogni santo giorno della sua vita. Accusato di pigrizia e di incapacità mentale di fronte a un orologio, l'indio era nella coscienza di tutti il superuomo quanto a resistenza e capacità di adattamento. In apparenza il civilizado ne aveva paura e lo disprezzava, ma dentro di sé lo ammirava e si macerava nel tentativo di superarlo.
Il Cessna scivolo controcorrente fino al braccio di fiume libero da tronchi, quindi fece dietro-front e il motore aumentò di giri. Corse poi sulla corrente del fiume come su una pista, si alzò, i galleggianti grondanti di luminose ghirlande di gocce, per prendere finalmente quota quasi sfiorando le cime degli alberi. In pochi secondi divenne una piccola croce nel cielo, che rifletteva la luce del sole filtrante dalle nubi. Faceva ritorno alla propria galassia come una nave spaziale, lasciando McIntyre a proseguire il suo viaggio nell'ignoto. L'esploratore lo seguì con gli occhi finché il suo luccichio si confuse con quello del cielo. Il ronzio del motore si dissolse. L'uomo sulla sponda di fango prese dalla borsa dei regali un altro pacco, una scatola di astucci contenenti un pettinino e una spazzola di plastica, in vendita in ogni supermercato brasiliano per pochi cruzeiros. Per gli indigeni delle tribù dello Javari avrebbero rappresentato una novità affascinante. McIntyre li dispose sulla riva, questa volta proprio sul limitare della foresta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli insetti si sono accorti della mia presenza. Sono delle specie di zanzare che sembrano attirate da me come da una calamita. Non ho in corpo quella vitamina B1 che prendevo come repellente per gli insetti fin quando ho avuto a disposizione le mie medicine. Le zanzare si compongono in formazioni puntando verso di me e io mi agito saltellando sul posto, dandomi manate sui fianchi e sulle spalle e andando a stanarle da sotto gli indumenti. E tutto inutile, mentre mi gratto un braccio, devo fare smorfie col viso su cui quelle si sono avventate.
Chiamate jejenes in Perù e pium in Brasile, lasciano una macchia nera sottocutanea, con una puntura che duole per circa un'ora pur non essendo particolarmente velenosa. Ho visto indios talmente cosparsi di queste punture da apparire completamente neri. Da questo momento in poi camminando nella foresta incontrerò le mie vecchie conoscenze, le formiche ustionanti la cui puntura è simile alla bruciatura d'una sigaretta ma che si risolve in breve, e i temibili tucanderos, lunghi quasi tre centimetri e che hanno tanto veleno che l'organismo umano ci mette anche sette ore a liberarsene.
L'unico modo per tener lontani questi insetti è muoversi, ma tutto ciò che posso fare nel buio è muovermi lentamente, tastando di volta in volta il terreno con i piedi e sperando di non disturbare qualche animale della foresta. Ma devo muovermi, altrimenti l'assalto delle zanzare mi farà impazzire. Per fortuna arrivo ad alcuni grandi alberi la cui ombra ha impedito la crescita di rami bassi; mi devo aspettare di inciampare in radici esterne o di sentirmi strisciare dei rampicanti sulla faccia. Serro i denti. Forse mi sto allontanando dalla traccia lasciata dagli indios nel sottobosco, ma certo non me ne allontanerò di molto. Forse la vedrò domani mattina. Sento un rampicante freddo, inerte, strisciarmi sul volto, poi un altro. Se ci fosse qui intorno un animale, certo si accorgerebbe della mia presenza. All'improvviso mi rendo conto che le pium mi hanno abbandonato. Tiro un respiro. Mi fermo. Mi trovano di nuovo. Ricomincio il balletto sul posto. Ecco una tortura che Dante ha dimenticato nel suo Inferno.
Un modo per occupare la mente è di ascoltare le voci della foresta. Come nel villaggio indio, anche nella foresta non tutti dormono nello stesso momento. Quando le straordinarie scimmie urlatrici, i macao e i pappagalli riposano, è come quando in un'orchestra il piano, il basso e la tuba tacciono, per lasciare spazio ai flauti, ai violini e alle viole. Sento rane le cui voci hanno una gamma incredibile di suoni: vanno da un gracchiare stridulo a un tubare amoroso. Un certo tipo di grillo mi fa trasalire quando lancia il suo richiamo sessuale, emettendo un suono come di qualcuno che sta affilando un coltello su una pietra.
A un certo punto vedo qualcosa: un ragno con quattro paia di occhi luminosi. (E' l'unico momento della notte in cui, riacquistato in parte il senso dell'orientamento, torno a mettermi in relazione con lo spazio circostante). Chino il viso verso il ramo e avvicino tanto i miei occhi a quella creatura che i suoi probabilmente si riflettono nei miei. Ora ci vedo meglio: ha zampe dalle giunture così alte che il corpo pende in mezzo ad esse, sospeso come un carro. Sembra anzi quasi un calessino, che appare piccolo per le ruote gigantesche. Il corpo peloso, quasi sferico, è una sorgente di luce. Si illumina a intermittenza. Quando la luce si accende, fa diventare il corpo trasparente e addirittura sprizza fuori dagli occhi.
Mi avvicino ancora di più. Le ciglia pelose che sono sopra agli occhi inferiori del ragno e che hanno quasi l'aspetto di sopracciglia cespugliose, sono qualcosa come un organo sensitivo (vinco la paura che siano dei pungiglioni, pronti a protendersi e pungermi la faccia). Attraverso gli occhi vedo nell'interno una palpitante massa di fuochi elettrici. Non ho mai visto un esemplare del genere e mi chiedo se sia mai stato classificato.
Ai suoi tempi, Henry Walter Bates aveva contato ben millequattrocento specie amazzoniche, oltre metà delle quali erano fino allora sconosciute agli scienziati. Con stime successive questa cifra divenne dieci volte superiore. Ma mentre noi scopriamo nuove specie, una quantità di altre scompaiono, sacrificare alla civiltà, senza che nessuno oda il loro grido di protesta. E torno a guardare quest'incredibile creatura. Dopo che ho potuto scrutare l'interno del suo corpo, chiedendomi che tipo di composti chimici rari e preziosi esso possa contenere, scorgo altri esemplari della stessa specie, accoppiati ad altri simili ma non luminosi.
La danza della luce è dunque il preliminare dell'accoppiamento, quella luminosità è un segnale sessuale. Il quale però purtroppo non attira solo il partner bensì anche un serpente paradiso; l'ho visto grazie alla luce emessa dal ragno e ne riconosco la specie per la taglia minuscola: sembra un ramoscello sinuoso che all'improvviso acquisti vita. Ora scivola lungo il ramo e incomincia a divorare gli insetti accoppiati. Nel momento in cui finiscono nella bocca del predatore, le vittime emettono forse un grido di disperazione sulla frequenza della loro specie, perché all'improvviso gli altri spengono le loro luci e rimaniamo tutti nell'oscurità.
Mi sposto da dove, saltellando, avevo finito con lo scavare una fossa nel letto della foresta. Finalmente le pium mi hanno perso di vista ed io me ne rimango là nel buio, quasi sonnecchiando in piedi. Ho dormito steso a terra nella foresta e ora mi sveglio grattandomi. Le zanzare mi hanno ritrovato e probabilmente hanno deposto le uova nelle ferite aperte dalle spine. Sento un prurito insopportabile sulla schiena dove non posso arrivare a grattarmi e questo mi fa sospettare che si tratti di larve perforanti.
Il giorno si annuncia con quel caratteristico passaggio dal buio alla luce proprio dei tropici: brusco e violento. Questa breve alba mi ha sempre riempito d'una insana eccitazione. So che ora è, con un'approssimazione di mezz'ora: sono le sei, sei e mezzo. La luce scopre la foschia grigia che si avvolge in falde leggere intorno agli alberi. Mi metto subito in movimento, ben deciso a ritrovare il villaggio e ad affrontare ciò che quei desperados possono riservarmi... a meno che non abbiano già levato le tende.
(...)
Lascio la radura e torno a infilarmi nella foresta, mi fermo incerto se fare uno spuntino a base di certi frutti simili a more, ma hanno un sapore aspro e devono avere uno scarso potere nutritivo, per cui ci rinuncio. Dopo cinque minuti, scorgo un'altra zona chiara per la luce che vi piove dalle fronde tagliate. Le squadre di tecnici vengono calate da elicotteri per fare dei sopralluoghi e i macheteiros cominciano a troncare rami, creando un passaggio verticale lungo le molte impalcature di fronde, fino a toccare terra, poi si mettono ad abbattere alberi per creare aree d'atterraggio per gli elicotteri. Vedo una grossa fune stesa a terra, probabilmente un cavo abbandonato. L'ombra del sottobosco lo fa apparire chiaro e lucente, come un essere vivo. Mi fermo perché mi accorgo che non si tratta di un cavo ma di una via brulicante del traffico a due sensi di formiche combattenti. Camminano in fila, spesso passando l'una sulla testa o sul dorso dell'altra, guidate da un istinto che non conosce deroghe.
Trasportano (sto seguendo quelle che hanno già prelevato il carico) pezzetti di qualche materiale che non so cosa sia verso un formicaio di fango e foglie, con vari pinnacoli, il più alto dei quali misura più d'un metro. Sembra il passeggio lungo il corso d'un centro cittadino. Mi metto a seguire l'altra fila: va dal formicaio a una scarpa, di cui rimangono solo la spessa suola di gomma e brandelli della tomaia di pelle. Vi si accanisce sopra una moltitudine frenetica di formiche che la stanno disintegrando e portando via a pezzettini. Mi fermo a osservarle con una specie di curiosità morbosa, come se avessi sotto gli occhi un cadavere scarnificato. Un'idea mi balena in testa, ma prima d'averla formulata con precisione, mi metto a correre lungo la fila delle formiche.
In capo alla fila, trovo quattro corpi. Che sono di esseri umani lo capisco dai teschi; dei tessuti sulle ossa è rimasto ben poco. La marea di formiche brulicanti e organizzate ha lasciato solo i bottoni di metallo e le cerniere lampo delle giacche di pelle; ha sfilacciato le camicie, i pantaloncini, la biancheria intima e tutto il resto. I rimasugli, ammucchiati, hanno l'aspetto d'una macabra opera d`arte. I crani sono stati spolpati all'osso, a parte qualche ciuffo di capelli e un berretto con visiera. Le mandibole non hanno più gengive intorno ai denti, neri per il tabacco.
Questi ultimi sembrano dondolare per le formiche che, percorrendoli instancabilmente, conferiscono un tremito impercettibile a quei ghigni sinistramente mortali. Piccoli nugoli di moscerini roteano intorno alle teste scarnificate, come un velo di vita affannata e affamata, ma le formiche non danno loro alcuna possibilità di accedere al banchetto. Guardo, in preda a una curiosità malata, e noto una freccia che esce dalla carcassa di un torace. Poi eccone un'altra a terra, liberata dalla carne che non c'è più, quindi una terza. Le punte annerite fanno pensare che fossero state intinte nel curaro. Sono frecce sibilanti, con quelle setole di cinghiale che ho visto usare a Granchio per legare le penne sulle sue sottili, eleganti aste.
Noto un'altra teoria di formiche della specie tagliafoglie. Sembra una processione di centinaia di piccoli ombrelli verdi: vanno verso il formicaio, ciascuna con un pezzetto di foglia tenuta sulla testa e sul dorso. Sauvas. Dicono che siano talmente tante che "se il Brasile non si libererà di loro, le sauvas faranno fuori il Brasile". La loro avanguardia evita prudentemente l'orda che ha divorato i macheteiros.
Mi aggiro per quello scenario e scopro una sega circolare, dal motore sfondato dentro al guscio di metallo. In mezzo a tale disastro dovrei poter ritrovare i portafogli con i nomi dei morti, ma non me la sento di rovistare in questi resti. Probabilmente facevano parte di una squadra esplorativa e non di qualche iniziativa statale, perché altrimenti sarebbero venuti gli elicotteri a portar via i corpi. Ma non si può dire. Accadono cose, qua, di una nequizia senza pari, a causa delle carenti comunicazioni telefoniche, delle carte geografiche poco precise, o anche solo a causa del sistema brasiliano (o portoghese). Squadre di soccorso sbagliano destinazione, si stancano presto e decidono che hanno fatto tutto quello che potevano. Una lettera alla famiglia chiude il caso mentre le ossa rimangono qua a imputridire, a diventare per sempre parte della natura selvaggia.
Mi conviene fermarmi qui? Arriveranno mai i soccorritori? A giudicare dallo stato dei cadaveri sembra assurdo pensarlo. Sto sudando abbondantemente; il caldo ha raggiunto la punta più alta della giornata e così rimarrà fino al breve, troppo breve tramonto. Decido dunque di proseguire. Non posso starmene lì a gironzolare in mezzo a questa scena allucinante: spero di non dare anch'io tra qualche giorno uno spettacolo del genere. Sul cofano deformato della sega circolare c'è un numero di serie, che segno nel mio taccuino. Forse sulla scorta di questo numero si potranno identificare quei poveretti.
Riprendo il cammino, niente affatto certo di non girare a vuoto. Dov'e il fiume? Non può essere scomparso. Questo sottobosco dovrebbe essere attraversato da torrenti, ruscelli e subaffluenti d'ogni misura, tutti diretti verso il corso principale, invece non mi imbatto nemmeno in un rigagnolo. Il prurito è diventato insopportabile. In alcune piaghe della schiena sento muoversi sotto la pelle qualcosa, devono essere bruchi perforanti. Dopo qualche po' mi accorgo di un gonfiore sul braccio sinistro: tiro fuori il coltello e incido il bubbone, da cui esce un bruco bianco. La larva di una mosca cannibale. Ricordo anche il suo nome scientifico, Calitroga hominivorax. Hominivorax significa divoratrice di uomini. Un bue infestato di calitroga può morire nel giro di una settimana. Riprendo la marcia, fantasticando ad ogni momento di sentire il mormorio dell'acqua corrente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bevo per un minuto, mi risciacquo il viso e le braccia, poi bevo di nuovo, so che non è un'allucinazione. Mi rialzo come ubriaco e seguo il ruscello nella sua discesa, lo perdo dietro una massa di cespugli, in cui m'infilo per ritrovarlo, quindi continuo a seguirlo. Diventa un torrente poco profondo. Piuttosto che tentare di camminare lungo la sponda, privo come sono d'un machete, preferisco camminare nell'acqua e procedere sulla riva solo dove non c'è vegetazione. Esiste il pericolo di mettere un piede su una razza dalla coda velenosa, quindi me ne sto per lo più con gli occhi volti in basso, ma ugualmente mi rendo conto dei raggi di sole che di tanto in tanto filtrano tra gli alberi. E uno dei pochi giorni senza nubi, da quando mi trovo qua. Quando all'improvviso il torrentello si allarga diventando un fiume stretto ma trasparente, alzo la testa e mi vedo davanti un lungo braccio d'acqua e là in fondo, dove la prospettiva fa apparire unite le due rive fitte di alberi, in quel punto si leva, come una verde cupola di chiesa, una montagna.
Ho le traveggole? Il sole scintilla sulle sue pendici e ai suoi piedi, come se essa fosse tutta tempestata di pietre preziose. So che il fiume c'è veramente, perché mi trovo con i piedi immersi nelle sue acque. Ma come faccio a essere sicuro della montagna? Chiudo un pugno a cannocchiale per guardare attraverso il pertugio e quella che sembra una cascata di gioielli si rivela essere una coppia di cascate, parallele e così vicine che mi chiedo se per caso non sono io a vedere doppio per la stanchezza.
Avanzo e il miraggio non svanisce: si tratta proprio proprio di due cascate gemelle. Trovo una spiaggia di sabbia bianca dove non sono arrivate le radici della foresta e lì mi siedo. Con le unghie faccio scoppiare le vesciche che ho sulle braccia e sulle spalle, estraendone altri bruchi, e intanto guardo quella meraviglia che ho davanti a me. Questa non può esser altro che la sorgente dello Javari. Trovarla quando già mi sentivo perso e stremato, incapace di interessarmi ad alcunché, ha un effetto meraviglioso. Mi siedo e guardo, finché i colori del fiume e della montagna incominciano a mutare, mentre il sole va declinando verso la mia destra. Dunque sono rivolto verso sud. Non ne so granché, della sorgente dello Javari, ma questa altura, se non me la sto sognando, dev'essere l'ultimo contrafforte delle Ande prima della terra piatta. L'ultima altura, dopo la quale si estendono tremila e duecento chilometri di terra piatta.
Dalle Ande all'Atlantico c'è un dislivello di poco più di duecento metri. Sono meno di cinque centimetri al chilometro, il che fa sì che tutti gli affluenti se ne vadano vagando pigramente come giganteschi serpenti. La montagna sembra piuttosto alta, la sua cima deve dominare di almeno trecento metri la foresta. Come un doppio filo di perle, le cascate dello Javari ne fioriscono, riversandosi nel ruscello che scorre qui, davanti a me. La bellezza di questo Shangri-la è senza confronti, e certo non concepita per visitatori umani. E qui da migliaia di anni e a vederla sono stati solo gli indios delle tribù, qualche guardia confinaria e forse uno o due estrattori di gomma. Nella sua caduta l'acqua solleva nell'aria pesante una nube di impalpabili goccioline che danno vita a un intero universo di foglie, radici aeree e piccoli esseri viventi.
Ora posso seguire il fiume rimanendo sulla sua riva destra, la sponda brasiliana (nozione buffa e assurda in questo momento). Ma è difficile staccarsi da questo luogo. Alla fine vi sono costretto, ancora con l'incertezza che le cascate esistano veramente. Mi avvio seguendo lo scorrere del ruscello e ascoltandone il fragore. Do un'occhiata alle mie spalle, e le rivedo uguali a come le avevo già viste. Poi il ruscello fa una svolta. Ne seguo il corso, le gemelle scompaiono. Inutile ormai girarmi a guardare indietro. Non direi la verità se dicessi di esserne addolorato, eppure provo una certa sensazione. Una tristezza indefinibile, legata alla perfezione di quello spettacolo.
(...)
Lo ritrovarono e lo riportarono al villaggio. Si svegliò in un'amaca, in un bagno di sudore per la febbre, sotto le mani di due sciamani che tastavano delicatamente tutte le sue membra. Constatato che non aveva fratture, lo rigirarono e si misero succhiargli le larve e le spine che gli erano rimaste nella schiena. Dopo, al di sopra della spalla nuda d'uno sciamano, vide il mucchietto della sua roba: pantaloncini, camicia e taccuino. Gli unici legami che ancora aveva con il mondo da cui era venuto. Poi uno degli sciamani gli premette la bocca sulla fronte e gli "aspirò" i demoni. I due sciamani accesero dei sigari di tabacco verde e gli soffiarono in faccia e sulla schiena il fumo; infine si misero ciascuno da un lato dell'amaca e presero a salmodiare, mentre Loren continuava a navigare tra sogno e realtà. Gli sciamani lo tennero nella capanna, lo nutrirono, gli succhiarono più volte i demoni dalla testa e lo massaggiarono per tutto il corpo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nella notte del 9 o forse del 10 novembre(le date sono state ricostruite dopo, facendo i conti a ritroso), una bufera incominciò a scuotere gli alberi e la pioggia prese a battere sulla grande volta verde in modo così violento che scrosci come colonne d'acqua si aprirono la strada fino al sottobosco, mentre i tuoni si succedevano l'uno dopo l'altro. L'oscurità che regnava sotto le alte fronde era continuamente illuminata da lampi che inondavano le chiome degli alberi d'una apocalittica luce azzurrina.
L'affluente che scorreva nelle vicinanze all'improvviso uscì dal suo letto e si avvento con inaspettata furia contro gli alberi sommergendone le radici, allagando tutto il terreno della foresta e incominciando a creare un corso d'acqua il cui impeto fece fuggire tutti gli animali incapaci di mettersi in salvo sugli alberi. Alcuni di essi erano buoni nuotatori, abituati per memoria ancestrale a sopravvivere alle inondazioni. Gli altri corsero a cercare terreni sopraelevati. I luoghi non troppo fitti di sottobosco, quelli tra gli alberi più grandi, che non lasciavano trapelare la luce del sole, furono i primi a riempirsi di acqua; la massa scura del fiume si avvento in queste zone, trascinando via il fogliame in decomposizione e dando luogo a una specie di sporca brodaglia su cui galleggiavano insetti, vermi, piccoli roditori e rettili sorpresi dall'inondazione.
Pesci strappati dal letto del fiume guizzavano tra gli alberi, lesti ad azzannare qualsiasi preda offrisse il terreno inondato della foresta. La stagione delle piogge nell'Amazzonia di solito si apre con burrasche che fanno alzare pian piano il livello delle acque, ma inondazioni improvvise possono verificarsi se il terreno e collinoso, e il villaggio era proprio vicino a quella zona più alta su cui era salito McIntyre il giorno in cui aveva avuto la visione della misteriosa cascata. Altra causa di inondazioni impreviste è l'aria fredda proveniente dal lontano sud della Patagonia, e quella notte la temperatura, già insolitamente fredda, era rapidamente calata.
Si ebbe l'impressione che di colpo il fiume si fosse alzato di livello. Al rimbombo incessante dei tuoni i mayoruna saltarono giù dalle amache e si diedero a raccogliere freneticamente bambini e masserizie. Intanto, tutta la macchia era in tumulto: nella fitta oscurità McIntyre si immagino gli animali fuggire all'impazzata davanti all'avanzare dell'acqua, le varie specie che si scavalcavano a vicenda. Capibara della grandezza di maiali, i roditori più grandi del mondo, si trascinavano sui piedi palmati senza troppo sconcerto, abituati com'erano a passare metà delle loro vita nell'acqua; più in difficoltà erano i cervi pigmei della giungla, i grandi opossum, gli ocelot, i quali tutti galoppavano, sfrecciavano, saltavano, aprendosi la strada tra mammiferi di taglia più piccola, uccelli e rettili: in un battibaleno la macchia sembrò abitata da un numero triplicato di animali. E quasi per confermare il suo dominio sulla creazione, il fiume faceva annegare un'intera generazione di forme di vita, solo per assicurare, attraverso l'estensione del suo liquido elemento, le condizioni per l'avvento di un'altra generazione.
Quel che si stava svolgendo nel piccolo villaggio degli indios, sarebbe avvenuto nel giro di qualche giorno o qualche ora nella maggior parte dell'Amazzonia superiore. Centinaia di affluenti sarebbero tracimati, si sarebbero formati nuovi laghi e nuovi stagni, che sarebbero rimasti per molte lune; O Rio Mar, il Fiume Mare, avrebbe incominciato a dar luogo a una palude di migliaia e migliaia di chilometri quadrati, creando letteralmente un mare interno, fitto di alberi. Da questo momento e per tutto giugno e luglio, aree dell'Amazzonia ampie quanto l'intera Inghilterra sarebbero rimaste costantemente sommerse. E dopo il ritiro delle acque centinaia di fiumi avrebbero incominciato a fluire in alvei diversi da prima, con anse e meandri che non potevano essere riportati da nessuna carta geografica.
Rotolato fuori dall'amaca, McIntyre venne quasi investito dall'agitazione terrorizzata della gente della tribù. Per sottrarsi al loro armeggiare convulso, corse verso gli alberi circostanti e si trovò immerso nell'acqua fino alle ginocchia. L'acqua si stava alzando rapidamente ed egli fu sorpreso dalla velocità e dalla virulenza del fenomeno. Venne sollevato di peso e scaraventato contro il tronco di un albero. Cerco di tornare indietro ma fu colpito a un ginocchio da un oggetto galleggiante, annaspò e sentì sotto le mani la forma di una zattera, una rudimentale zattera costituita da due tronchi di legno di balsa legati con fibre di palma. Vi si accasciò sopra senza nemmeno l'idea precisa di aggrapparsi a essa, e la corrente li trascinò tutti e due contro un groviglio di rami bassi; McIntyre sentì i rami graffiargli la schiena, quindi uno strattone quasi lo strappo dalla zattera. Prima di capire che cosa lo trattenesse, ecco un altro strattone, questa volta alla vita, e la cordicella che gli teneva il coltellino legato alla cintura cedette, mentre la corrente spingeva la zattera di balsa sotto il groviglio di rami e poi oltre di essi. Cerco di rimanersene bocconi sul galleggiante, ma invece scivolo in acqua (sentendola più calda dell'aria, ch'era pungente) e si ritrovò a navigare sballottato da una corrente più veloce e più profonda.
All'improvviso scosso e sbattuto con furia, come se una nuova diramazione del fiume si stesse creando un passaggio nella foresta, si agito in preda alla disperazione, abbrancò la zattera e vi si issò di nuovo sopra. Fu colpito da altri rami bassi mentre la zattera roteava qua e là in mezzo agli alberi. Non appena si diede a cercare di farla tornare indietro remando con le mani, fu attraversato dal pensiero che alle sue spalle non c'era che il villaggio, dove lui aveva lasciato, di suo, solo l'amaca. Si contorse per arrivare con la mano alle tasche posteriori e si accorse di aver perso uno dei due rullini, mentre l'altro era ancora nella tasca sinistra. La scoperta che più lo sconvolse fu che non c'erano più gli ami che aveva custodito con tanta cura. Se n'erano andati anche il taccuino e la penna (o forse li aveva lasciati nell'amaca), e trovò stupefacente che l'acqua lo avesse portato via in pochi minuti, in maniera rapida e definitiva.
Oltrepassò una cortina di arbusti semisommersi e udì tuoni ancora più potenti e lo scroscio della pioggia sulle foglie. L'aria divenne ancora più fredda. L'aperta vastità del fiume era lì davanti a lui e la zattera di balsa non roteava più, ma navigava in una direzione costante lungo la corrente. Dietro di sé udiva ancora le voci degli indios. La zattera rispondeva almeno parzialmente ai movimenti che faceva lui con le mani, remando con più forza da un lato quando voleva spostarsi verso il lato opposto. Avrebbe potuto tentare di tornare alla sua nuova famiglia, ma forse la confusione apportata dal diluvio rappresentava l'occasione giusta per la fuga. Rapidamente soppesò il rischio di darsi alla fuga sull'acqua e di essere inseguito: nell'inseguimento gli indios erano capaci di correre tra gli alberi più velocemente di qualsiasi imbarcazione a remi sul fiume. Ma ora questo rischio era eliminato dall'immane calamità dell'alluvione. Con un nodo di angoscia alla gola, con i sensi pur stanchi ma richiamati alla massima attenzione, si accorse che aveva già scelto la fuga.
Le zattere di balsa sono il mezzo di trasporto più diffuso tra le comunità rivierasche, sia delle tribù che dei civilizados, e i bambini spesso le usano per giocare. Il loro legno poroso le rende inaffondabili e la loro leggerezza è garanzia contro qualsiasi incidente. Tenendosi aggrappato alla balsa, egli sarebbe stato al sicuro almeno finché poteva evitare spuntoni di alberi o rapide. L'immersione nell'acqua ingrossata dalle piogge lo avrebbe in seguito protetto da un'eventuale insolazione quando i rovesci intermittenti avrebbero lasciato apparire il sole; quanto ai piranha e alle razze velenose, si trattava di un rischio limitato perché queste specie sono temibili soprattutto nelle acque basse e durante la stagione secca. C'erano altri pericoli, come la presenza di caimani, ma McIntyre quasi non ci pensò; doveva concentrarsi su cose di ben altra importanza, come per esempio viaggiare solo durante il giorno, al fine di ritrovare l'accampamento, che a suo giudizio doveva trovarsi ad almeno due giorni di navigazione più a valle sul fiume. Doveva ritrovarlo, il suo accampamento, perché non aveva armi per cacciare e non poteva far conto sulla pesca in un fiume in fase di piena.
Dei pensieri che gli turbinavano nella testa, tuttavia, uno dei più tormentosi era quello che riguardava il capotribù. Non inviarmi messaggi, Granchio, era più o meno l'affannata preghiera che gli si formava nella mente. Non inviarmi messaggi, Granchio. Sperava che nel frattempo Granchio fosse tutto preso dal frenetico compito di provvedere alla sopravvivenza della sua gente. La tribù vagante doveva fare i conti con quello che era il suo migliore alleato e il suo peggiore nemico, il tempo atmosferico.
In pochi secondi, o così gli parve, la zattera si trovò a galleggiare sul fiume, e i lampi che balenavano in continuazione presentavano una corrente color porpora, ribollente, schiumante, traboccante, ormai almeno mezzo metro più alta delle rive di fango e delle strisce di sabbia della stagione secca; una corrente che si avventava tra gli alberi su ambedue i lati, facendoli in parte cadere sotto la sua spinta. Dei tronchi caduti nel fiume, alcuni erano sommersi e altri erano stati portati via; quelli fluttuanti, venivano raccolti tutti insieme dall'acqua precipitosa e McIntyre si rese conto che sarebbe stato impossibile aggirarli: l'impeto dell'acqua avrebbe fatto urtare e saltare la zattera fino a superarli, per cui, essendo ormai impossibile tornare indietro, non gli rimaneva che sperare di riuscire a venirne fuori, malconcio ma vivo.
I lampi fornivano un'illuminazione quasi continua e l'acqua sobbolliva là dove incontrava ostacoli; una mezza dozzina di volte in meno d'un minuto l'esploratore rischio d'entrare in collisione con qualche massa scura. Poi passò lungo un immenso blocco di sponda che stava rovinando nel fiume come la fetta d'una torta gigantesca. Subito dopo questo tratto crollato, un torrente sfociava dalla foresta inondata, irrompendo nel fiume un impatto schiumeggiante di acque. Il fiume diventò più largo, quasi il doppio di prima, mentre gli alberi caduti incominciavano ad appoggiarsi spontaneamente contro la foresta ch'era i bordi. Sembrò allora che McIntyre e la sua zattera potessero quasi navigare liberamente su un'autostrada d'acqua tumultuosa.
(...)
Navigava trasportato dal flusso a una velocità che stimo di tre nodi all'ora, sempre con gli occhi puntati sulla riva destra per ritrovare l'accampamento, nonostante che, secondo i suoi calcoli, dovesse trovarsi ancora a una giornata di distanza. Non vedeva alcun albero di lupuna. Sapeva che la sponda di fango su cui era approdato allora, adesso era probabilmente sommersa dall'acqua, ma sperava di vedere i sacchi impermeabilizzati, saggiamente appesi a tre metri da terra. Alcune ore dopo si trovò a galleggiare su un braccio di fiume così ingombro di detriti che la navigazione divenne lenta in modo esasperante. Il vantaggio di quelle condizioni atmosferiche era che non arrivava il caldo opprimente della parte centrale della giornata. Affamato, pensò di staccare qualche pezzo delle fibre di palma che tenevano legati i legni della zattera e di farne una specie di trappola per acchiappare qualche pesce, ma poi scartò l'idea, perché la trappola si sarebbe subito intasata di detriti, senza contare che tutti i luoghi adatti alla pesca erano stati sommersi dall'inondazione.
Cercò di ricostruire mentalmente la mappa della regione. Il fiume Javari era lungo circa milletrecento chilometri. A trecento chilometri dalla sorgente, sulla sponda peruviana, c'era Bolognesi, un piccolo villaggio che aveva preso il nome da un eroe della guerra del Perù contro il Cile del 1879. Si trattava d'un avamposto militare inizialmente costituito per tenere d'occhio Rodriguez, altro insediamento della stessa portata, circa diciotto chilometri più a valle sulla sponda brasiliana. Tra i due piccoli centri il fiume sempre tortuoso presentava un tratto più diritto, un estiròn adatto all'ammaraggio degli idrovolanti. Con un pizzico di fortuna e sfruttando la velocità ora accelerata dalla forza dell'alluvione, ci sarebbero voluti tre giorni di zattera per arrivare a Bolognesi.
Lungo quel tratto c`era un altro paio di piccoli insediamenti, ma probabilmente li avrebbe trovati vuoti, dato che la maggior parte delle comunità amazzoniche abbandonavano i villaggi nella stagione delle piene, ritirandosi verso zone più alte. Cerano anche delle purmas, abitazioni di estrattori di gomma, alcune delle quali risalivano alla seconda guerra mondiale, o addirittura agli inizi del secolo. La maggior parte erano ormai inutilizzate da anni, ma in una d'esse avrebbe potuto trovare una canoa più o meno in buono stato, il che avrebbe aumentato le sue possibilità di arrivare a un centro permanentemente abitato.
Ora si trovava davanti all'aspetto più difficile dell'Amazzonia, alle distanze che creavano l'isolamento. Ci si poteva perdere, là dentro, per settimane o per tutto il resto della vita. La pioggia cessò ed egli continuò a scivolare sul fiume. La giungla grondante d'acqua assisteva al suo passaggio. Nel pomeriggio lasciò incagliare la zattera in una striscia di sabbia invasa dai rami portati dalle acque impetuose del fiume. Carcasse di animali annegati erano impigliate tra i rami più bassi. Un cervo grottescamente gonfio fu strappato dalla corrente e defluì. Battendo le ali inzuppate gli avvoltoi si contendevano le vittime del disastro. Sollevando la zattera sopra la testa, McIntvre si portò sulla sabbia e si sistemò sotto un albero dove il terreno era zuppo come tutto il resto del paesaggio. Era rimasto tanto a lungo immerso nell'acqua che la pelle delle mani e dei piedi era tutta grinze come una prugna secca. Sprofondò nel sonno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

McIntyre venne visitato dal dottore della base, il quale aprì gli ascessi e glieli ripulì dei parassiti, quindi gli consigliò un periodo di riposo. Appena solo, piombo nel sonno e dormi fino al pomeriggio avanzato. Si alzò, infilò un foglio di carta nella macchina per scrivere che gli era stata prestata da Faura e scrisse una breve lettera alla moglie nella loro residenza di Arlington, in Virginia, e ai due figli in California. Rimandò la relazione di viaggio per il National Geographic e prese a ricostruire gli appunti che aveva perso durante l'alluvione.
Lavorò di buona lena per circa un'ora sui fogli di carta intestata che gli fecero rammentare i rapporti che inviava al capo della missione navale una ventina di anni prima. Poi incominciò a interrompersi e a perdere la concentrazione, tormentato da un sentimento oscuro. Infine prese un altro foglio di carta.
"Cacique Granchio" scrisse a macchina in cima al foglio. "Tribù Matses, Cachoeira Esperanza, Cordillera Ultra-Oriental..." Sto compilando un telegramma, pensò. Il solito antico lavoro di compilare telegrammi. "Caro Granchio" batté sulla macchina, in inglese, a un uomo che l'inglese non lo parlava, che non sapeva né leggere né scrivere e nemmeno sapeva di essere stato chiamato Granchio: e che, infine, forse era già morto. Non penso che questa lettera ti potrà mai raggiungere, dato che il servizio postale non arriva nemmeno a Bolognesi, e se anche ti arrivasse tu non potresti leggerla senza l'aiuto di qualcuno come Cambio (salve,Cambio!) ma scriverti serve almeno a farmi sentire che tu sei vivo. Ho navigato lungo il fiume in piena per tornare al mio mondo; presto andrò a cercare la madre dei fiumi, a ovest del vostro fiume, lassù sulle Ande. Ma un giorno o l'altro tornerò al tuo principio, con un sacco pieno di coltelli e medicine. Insieme compiremo gesti di convivenza familiare che nessuna creatura selvaggia usa fare: come sedersi vicino a un fuoco e dividere un pasto, o fare frecce, o semplicemente pensare in silenzio l'uno dall'altro, fin quando i nostri pensieri trovano il modo di entrare in contatto".
Si fermò. In realtà non c'era nulla da dire, dato che la sua comunicazione con Granchio non era mai stata verbale. Eppure decise di proseguire. "Mi chiedo se tu hai mai pensato alla possibilità di un continuum tempo/spazio/pensiero. Ma tu probabilmente non avevi bisogno di pensarci, perché sei tu stesso un continuum. Caro Granchio, tu sei uno scienziato, a modo tuo, come io lo sono nel mio, e ambedue sappiamo che ciò che rende possibile la scienza ed efficace l'ispirazione scientifica è l'atteggiamento mentale. Il tuo atteggiamento mentale è che tutto intorno a noi è vivo, e per questo accessibile. Siccome tutto è vivo, non c'è nulla che sia vietato all'esperienza umana. Questa è la ragione per cui tu puoi viaggiare nel tempo, nonostante tu non sappia che cosa sia il tempo (ma quanto a ciò, lo so forse io?) e questa è la ragione per cui sei presente qui e riuscirai in un modo o nell'altro ad apprendere il contenuto di queste righe. Vorrei sapere qualcosa intorno al tempo e intorno a tutti gli altri argomenti. Vorrei sapere qualcosa della terra e soprattutto della sorgente di quel grande fiume, e del mondo naturale che esso alimenta. Per te è meno importante avere tutte queste conoscenze: quello che conta per te è che cosa farne. Tu stai facendo un lavoro, col tempo, invece di affannarti a cercare di capirlo. Tu mi hai insegnato qualcosa.
Mi aspetto di ricevere da te ulteriori prove del continuum tempo/spazio/pensiero, non perché io sia tanto importante e tu non abbia null'altro da fare, ma perché io sono arrivato ai confini del tuo modo di operare, e parte di questo modo di operare sta diventando anche il mio. Cercherò di ricordarmi della tua tribù, anche se i viaggi fino al tuo territorio sono quasi impossibili, e nonostante io non abbia progetti in quel senso; ci sono altri luoghi in cui ho in programma di andare per esplorarli, dove tu potrai apparire e mettermi a parte di quello che sai. Uno di questi luoghi è la mia memoria. Mentre sto scrivendo queste righe, mi aspetto di apprendere su di te cose sicure che, occupati come eravamo in quel periodo, consideravamo implicite e sottintese. E tu imparerai altre cose su di me. Il nostro accordo produrrà un risultato. Forse se ne avvantaggeranno altre persone, o forse solo tu e io".
Fu interrotto da qualcuno che bussava alla porta. Era un attendente con un messaggio dal laboratorio fotografico della base, nel quale gli si comunicava che il suo unico rullino di foto era stato deteriorato dall'acqua penetrata nell'astuccio. Ringraziò l'attendente e aspettò che la porta si chiudesse, quindi prese un altro foglio di carta. Mentre lo stava infilando nella macchina per scrivere, fu di nuovo interrotto, questa volta da una visione di Granchio: aveva gli occhi spalancati, disperati, come se un'ondata di acqua lo avesse sollevato dal terreno della foresta ed egli si aggrappasse a un arboscello squassato dall'alluvione. Forse non sapeva nuotare; ci sono indios della foresta che non sanno nuotare, sebbene tutti i giorni facciano il bagno, perché scelgono fiumi bassi e specchi d'acqua tranquilli.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ottobre 1971.

 


Ma il bello venne subito, appena ebbero lasciato Arequipa. Prima ancora di puntare diritto verso nord la strada 109 serpeggiava lungo un tracciato molto ripido attraverso vecchie zone di ceneri vulcaniche dell'El Misti e del Chachani; un vento gelido incominciò a soffiare tra le due gigantesche cime, tanto che il pur nuovissimo Bronco non sembrava difenderli meglio d'un casalingo paravento. La cenere caduta dappertutto rendeva difficile riconoscere il tracciato della strada; gli autocarri locali avevano ignorato le curve tagliando direttamente giù lungo la china. Stanco dell'interminabile sequela di tornanti, Victor Tupa cercò di inerpicarsi anche lui per queste scorciatoie, ma si trovò su una pendenza troppo ardua anche per le quattro ruote motrici del Bronco.
Tornarono a rimettersi in carreggiata sul pietrisco, col Bronco che procedeva a salti e strappi. Il vento continuava a soffiare e la compagnia affronto coraggiosamente questo tragitto, battendo i denti per gli scossoni e per il freddo. Nonostante lo sconforto, era impossibile non restare affascinati dalla gelida maestà del paesaggio. Lembi di nubi si avvolgevano intorno agli impressionanti dirupi e quando le loro ombre scendevano, i neri contrafforti sembravano emettere una musica silenziosa. Era un unico e arido deserto; l'occhio cercava invano qualcosa di verde dell'altezza almeno d'una persona. Scure contro la sierra, una coppia di oche huallata svolazzavano da un ciuffo di erba a un altro; unite per la vita, queste creature fedeli impersonavano la solitudine dell'ambiente e l'impossibilità di alternative.
Finalmente giunsero sull'altopiano aldilà del Chachani, senza incontrare nient'altro che una carovana di lama condotta da due mandriani. A quattromilatrecento metri dovettero fermarsi perché Tupa venne assalito da un feroce mal di capo. Scese dal mezzo per respirare l'aria sottile e fredda, seguito da McIntyre. Il vento ululava lungo la strada gelata. Mentre se ne stavano lì, al riparo del Bronco, l'assenza di vento parve loro come un'emanazione di calore.
Stavano seguendo l'itinerario di un'antica strada inca. I messaggeri imperiali, i chasqui, in passato la percorrevano correndo, vestiti quasi solo della loro pelle dorata. Pur soffrendo, Tupa non aveva perso il suo senso dell'umorismo. Impedì che gli altri si preoccupassero di lui e fece apprezzamenti ironici sul "mandarino" dello IAGS che avevano costretto a seguirli solo per autenticare una loro ipotetica scoperta. Dopo alcuni minuti stava già meglio e insistette perché McIntyre si mettesse al volante. All'interno del Bronco tutto sembrava più rassicurante, piccolo e familiare. Abituato alle alte quote, Bradshaw se ne stava in paziente silenzio. Il mal di testa di Tupa non era stato altro che un'avvisaglia. Andando avanti avrebbero potuto trovarsi ad affrontare il vero e proprio soroche, quello che si divertiva a fare scherzetti alla mente umana.
Dopo un po', il paesaggio divenne più verde e l'aria più tiepida, e si fermarono per lasciar fotografare a Loren alcuni lama e alpaca che pascolavano. Tutto ciò che cresceva ai bordi della strada era ttola, un arbusto aromatico che veniva adoperato come combustibile domestico. I suoi steli e i suoi rametti erano duri ma abbastanza flessibili per servire da imbottitura per uno pneumatico che si fosse spaccato. In distanza vedevano i grandi ammassi di yareta, una specie di muschio gigantesco, che, nel giro di cinquecento anni, da un mucchietto non più grande d'un fungo arriva a una massa di dieci metri di diametro e d'un metro d'altezza. Per cinque secoli queste macchie di yareta continuavano a crescere, con la pioggia o il bel tempo, nel sole accecante, sotto la neve, contro i venti e le bufere, fin quando, esauriti, si seccavano. Una volta morti, gli yareta apparivano stecchiti e incolori. Quando erano nel colmo del loro rigoglio era così difficile sradicarli che i minatori li facevano saltare con la dinamite, se avevano bisogno di combustibile per far fuoco.
Il paesaggio era uguale ai cespugli di yareta: grave, paziente, elastico. Esisteva un mestiere proprio delle alte Ande: quello dello yaretero, dell'uomo cioè che raccoglieva lo yareta, lo seccava e lo vendeva come combustibile. Da ciò si può capire quanto direttamente la civiltà andina dipendesse dall'ambiente. Eppure questo scenario così severo aveva consentito agli inca di moltiplicarsi fino a contare una popolazione di sei milioni di abitanti in un'area pari per estensione all'impero romano dalla Britannia alla Persia.
Attraversarono Pulpera, un pugno di case in pietra con i tetti di paglia. Quindi giunsero a Callalli. Nei piccoli mercati si vedevano indios che compravano e vendevano, con quei loro copricapi a bombetta. I vestiti delle donne erano elegantemente ricamati, con motivi diversi da una regione all'altra e talvolta persino da un villaggio all'altro, mentre gli uomini indossavano goffi pantaloni e giacche di foggia occidentale. Tutti però avevano mani e piedi nudi e ogni centimetro quadrato di pelle scoperta, persino quella dei visi dei bambini, era screpolata dall'aria secca e dalla luce solare che li colpiva senza incontrare alcun filtro. L'aridità era così assoluta che persino lo sporco non sembrava tale: chiaro, non fermentato, a grana grossa e percorso da crepe.
A Sibayo, a 147 chilometri da Arequipa, attraversarono le sponde superiori del fiume Colca. Altri sessantaquattro chilometri fino a Cailloma. Oltrepassarono lo spartiacque continentale quasi senza accorgersene, mentre da una nuvola schizzarono fuori alcuni refoli di neve che si abbatterono sul parabrezza. Fece la sua apparizione un ruscello che correva prima su un lato della strada e poi sull'altro, e Tupa riconobbe in esso l'Hornillos. Nel tardo pomeriggio giunsero al villaggio di Angostura, nome che significa "restringente". Patetico per quanto era piccolo, sembrava quasi uno scenario teatrale. All'improvviso il letto pantanoso andò a confluire in quello che, data l'aridità del luogo, sembrava un vero fiume degno di tale nome: l'Apurimac.
Tutti emozionati, fermarono il Bronco e usciti dalla vettura si ritrovarono su una prateria spugnosa punteggiata da mucchi di yareta. Questo era l'Apurimac: un rivoletto di poca profondità, in un letto non più largo di dieci metri, solo parzialmente riempito dalle sue acque. Le rive giallastre e spugnose, qua e là macchiate dai cespugli di ichu, andavano serpeggiando come i bordi di una vecchia trincea invasa dalla vegetazione e col fondo roccioso. Il terreno che si imbeveva facilmente d'acqua rallentava parte del flusso, dando luogo ad acquitrini e a piccole pozze che riflettevano il cielo della sera. Questo era ]'Apurimac, il Grande Oracolo, il Grande Parlatore.
Per il momento privo di voce, si sarebbe infilato nei canyon della Cordillera Orientale con un rabbioso muggito, diventando quel corso irresistibile che aveva travolto il compagno di Michel Perrin. Gli inca osavano attraversarlo solo su ponti sospesi fatti di fibre intrecciate d'un cespuglio detto kkolla, ponti che venivano riparati e dedicati ogni anno al fiume con cerimonie speciali. Il suo corso era il confine naturale dell'originario regno inca prima che diventasse un impero, ed era la matrice d'una mitologia ancora viva nelle roccaforti andine di lingua quechua. Questo era il legame tra le lacrime della Luna e la Terra. Questo era l'Apurimac.
Lo contemplarono per alcuni minuti commentando la capacità di assorbimento del terreno, nonostante la stagione eccezionalmente asciutta. Questo era un segno della forza del flusso originario. La porosità del luogo tratteneva buona parte dell'acqua che scorreva sottoterra e riemergeva a quote più basse. Il Rio delle Amazzoni era vivo e forte e scorreva letteralmente sotto i loro piedi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sveglia alle sei. E'già giorno. Scivolo fuori dalla tenda e subito col fiato che esce dalla bocca e dalle narici mi si forma una nuvoletta di vapore caldo intorno al viso. Le montagne sembrano pregne d`un loro potere nascosto, come una minaccia in attesa di esplodere: speriamo non esploda in un terremoto, L'anno scorso, nel pomeriggio d'una domenica di maggio, una scossa fece crollare la cima nord dello Huascarán, la montagna più alta del Perù, seppellendo la città di Yungai con i suoi diciottomila abitanti e uccidendo altre cinquantamila persone nel Perù centrale.
Non sono solo. Anche Bradshaw è sveglio: accovacciato davanti alla sua tenda, si cucina il porridge sul fornello da campo. Non si è fatto la barba, indossa una giacca marrone con la lampo e un cappello di feltro. Canticchia, felice di sentirsi autosufficiente, esempio vivente di tutti quei figli d'Europa che hanno acceso fuochi e hanno mangiato pasti simili sui lidi più lontani. So d'aver fatto una buona scelta, perché per Bradshaw, perfettamente acclimatato alle alte quote, la salita sarà uno scherzo da nulla. Non sarà lo stesso per il sottoscritto figlio della giungla, che ha anche quasi vent'anni di più.
Quasi leggendomi nel pensiero, mi fa altre domande sulle mie esperienze di alpinista. Cito il Cristobal Colon e il Cotopaxi, ambedue poco sotto i seimila. Dal 1957 in poi ho vissuto cinque anni agli oltre tremilaseicento di La Paz, in Bolivia, dove mi sono adattato abbastanza bene all'aria povera di ossigeno, ma dal 1962 i miei polmoni si sono abituati di nuovo alla pianura, respirando i vapori delle zone umide e fitte di vegetazione. Bradshaw è dell'opinione che Tupa dovrebbe farcela; è sui quarantacinque anni e di buona tempra. Gli confesso che sono preoccupato di un'altra cosa: dell'effetto del soroche sulle nostre capacità di giudizio.
Ci troveremo a vagare per un paesaggio lunare di vette e valichi tutti simili, con rivoletti serpeggianti lungo pendici non molto diverse le une dalle altre, e ciascuno di tali rivoletti apparirà e scomparirà nella terra gelata incidendo le guance delle montagne, la maggior parte di essi indirizzati verso lo stesso punto cardinale, il nord. Non voglio farmene sfuggire uno che potrebbe non essere segnato sulle carte. Non voglio confonderli tra loro. Continuerò a consultare bussola e altimetro e a fotografare tutti i particolari del terreno che mi sarà possibile, allo scopo di documentare l'ascensione, ma anche ciascuno dei cinque torrenti sorgivi che vanno a costituire il Lloqueta.
Se non si procede in tal modo, nonostante la nostra accurata preparazione cartografica, potremmo finire con lo sbagliare, come quelli che ci hanno preceduto, la cui mancanza di scrupolosità tuttavia, vista ora in questo ambiente, appare molto più scusabile. Ci sono nella zona un centinaio di sorgenti, ed è quasi impossibile distinguerle l'una dall'altra. Ma noi siamo qui per trovarne una in particolare: la più lontana, quella e nessun'altra.
Quassù non è difficile farsi sfuggire un corso d`acqua. C'è quello che sprofonda nel terreno e ricompare poco oltre, e un altro che può trarre origine da una qualsiasi nevicata, prendere a scorrere con tutte le caratteristiche d'un torrente vero e proprio, e poi non essere più visibile la primavera seguente o anche addirittura dopo una sola settimana. Non voglio essere preso in giro da impostori di tale fatta e spero che le condizioni atmosferiche rimangano quali sono, senza precipitazioni di nessun genere. Ieri il negoziante della bottega dove alla fine non abbiamo trascorso la notte ci ha confermato quanto già ci aveva detto il direttore dell'albergo di Arequipa: questa è la stagione più asciutta che si sia verificata negli ultimi decenni. Il che ci favorisce, nel senso che si sono asciugati alcuni rigagnoli stagionali: e se la siccità avesse prosciugato anche un corso d'acqua regolare e perenne? Come facciamo a saperlo? Il bacino di raccolta delle acque che è lì davanti a noi all'improvviso mi appare come un labirinto pullulante di possibili inganni.
Dobbiamo eseguire rilevamenti rigorosi: e per questo che abbiamo bisogno di lucidità di giudizio, che è invece proprio la cosa che il soroche offusca, e Tupa e io con tutta probabilità soffriremo di soroche.
Dobbiamo nutrirci in modo corretto, ma se non riusciamo a ingaggiare dei lama per farci trasportare attrezzature e provviste, dovremo portarci tutto sulle spalle, il che ci costringerà a limitare drasticamente i rifornimenti. Ci nutriremo di alimenti liquidi e semiliquidi, i più facili da digerire, e berremo acqua di rigagnoli e di fusione del ghiaccio. Ma il mal di montagna induce a rifiutare cibo e bevande. Un'alimentazione troppo povera aggiunta alla scarsezza di ossigeno può indebolire le capacità di giudizio; questa diminuita capacità logica può condurre a dimenticarsi di tale debolezza, perché la prima funzione che viene a essere intaccata è proprio la memoria.
La maggior parte della gente che sale a queste quote prova gli effetti classici, cefalea, nausea, crampi, vertigini e persino febbre. Il cuore incomincia a pulsare con un ritmo impressionante, il respiro si fa ansimante, e la sensazione di non riuscire a immettere abbastanza aria nei polmoni conduce al panico, proprio l'ultima cosa di cui si ha bisogno per condurre delle osservazioni scientifiche. Ricordo che in Ecuador, immediatamente sotto il cratere sommitale del Cotopaxi, ho avuto un improvviso attacco di AMS (acute mountain sickness, mal di montagna acuto). Non rammento il malessere preciso, bensì solo una forma di cefalea, ma rammento che non riuscivo a spiegarmi perché mai fossi là; sapevo chi ero, come mi chiamavo, che epoca era, ma non perché ero in quel luogo, tanto che per un attimo ebbi l'impressione di essere qualcun altro, un estraneo con motivazioni misteriose. Per fortuna, fu una sensazione che si esaurì in pochissimo tempo. Non penso che stiamo correndo pericolo di vita. Siamo in tre e anche se dovessimo legarci in cordata, probabilmente non incontreremo né crepacci né valanghe. Ma non voglio che la stanchezza o l'ipossia, cioè la scarsezza di ossigeno, ci blocchino proprio a due passi dalla sorgente estrema, qualsiasi essa sia. Oppure che ci facciano tornare indietro con risultati non documentabili.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Impossibile essere preparati a un simile momento. Era il 15 ottobre 1971, pochi minuti dopo le tre del pomeriggio. Gli uomini della spedizione si trovavano in prossimità della cima del Mismi e, in silenzio, guardavano in giù, verso il laghetto. Allora Richard fece un qualche commento sulla sorgente estrema e Loren si ricordò che due mesi prima quelle parole avevano ben poco significato per il giovane inglese: ora aveva tutta l'aria d'uno molto compreso dell'importanza dell'argomento ed estremamente emozionato. Il pensiero che subito dopo venne in mente a Loren fu quello delle carte geografiche. Victor aprì la carta 1:200.000, dove non trovò nessun lago segnato lungo le pendici settentrionali del Mismi. Poi aprì quella a scala 1:100.000 ma anche questa, pur essendo più particolareggiata, non recava traccia del lago. Tirò fuori le fotografie aeree e i tre uomini si piegarono a studiarle. Dapprima, là sotto la cresta dello spartiacque, non trovarono nulla che potesse suggerire l'idea d'un lago. Poi a un certo punto, su una foto 23x23, Victor individuò una macchia scura. La confrontarono con quanto vedevano e la localizzazione sembrava coincidere. La macchia scura era quel lago. "La fotografia è stata presa nel 1955" precisò Victor. "Dunque si tratta di un lago permanente. Credo che quella sia la sorgente".
Dopo un attimo Victor aggiunse che se quel laghetto non aveva un nome locale -cosa che era da verificare- bisognava trovargliene uno. Tutti e tre continuavano a fissare prima le foto, e poi laggiù, la costa della montagna, quindi all'improvviso Victor esclamò: "Guardate là!" . Sotto il piccolo lago, circa seicento metri più in giù di dove si trovavano loro, il corso tortuoso del Carhuasanta si immetteva in un altro specchio di acqua racchiuso in un incavo del terreno. "Un altro lago!" disse Richard. Con le dita intirizzite dal freddo, si affrettarono a spiegare di nuovo le carte lise e strapazzate, e le fotografie aeree. " Nemmeno questo ha un nome". Poi si volse verso Loren e dichiarò che avevano scoperto una sorgente sicura. Lo sgocciolio del nevaio adagiato lungo quel versante si raccoglieva nel laghetto, da cui aveva origine il Carhuasanta che serpeggiando scorreva giù per la montagna e alimentava un secondo lago, per poi riprendere la sua discesa e versarsi prima nel Lloqueta e infine nell'Apurimac. " Il più alto" e Victor indicò con una certa solennità il primo che Loren aveva intravisto attraverso l'obiettivo. " Il più alto, quello è la sorgente più lontana".
All'improvviso, quasi che il loro fisico avesse programmato di reggere fino a quando non avessero trovato la sorgente, Tupa confesso di sentirsi al limite delle forze. Aveva le labbra blu e negli occhi uno sguardo assente. "Penso di scendere per vederlo meglio e poi mi dirigerò verso il campo base", annuncio. "So bene che tu devi fare delle foto, Loren, ma io ho bisogno di un pò d'aria respirabile". In seguito, capirono che Bradshaw, il più esperto dei tre in fatto di alpinismo, avrebbe dovuto impedirglielo e decidere di rimanere tutti insieme. Ma Bradshaw era stato sopraffatto dall'emozione, mentre a Loren non era nemmeno passato per la testa che fosse meglio non separarsi.
Lui e Bradshaw seguirono con lo sguardo Victor che aveva preso a scendere, scivolando e saltando sul ghiaione mobile da cui si era ritirata la neve. Dopo poco lo videro fermarsi vicino al lago e aggirarlo osservandolo attentamente. In seguito avrebbe raccontato agli altri due che a un primo esame non aveva visto defluire l'acqua, ma poi aveva scorto il ruscello del Carhuasanta che emergeva dallo sfasciume direttamente sotto il lago. Soddisfatto per aver potuto controllare questo particolare, aveva preso a seguire il Carhuasanta verso il campo base. Richard raccolse la corda, la piccozza e i suoi campioni di minerali.
"Meglio tornare all'ovile. Vuoi che ti porti il cavalletto? Non abbiamo messo niente sotto i denti per tutto il giorno". In seguito Loren ricordò di avergli risposto, quasi senza pensarci: "Non c'è ragione di star qui ad aspettarmi, quando ti raggiungerò tu avrai bell'e preparato qualcosa da mangiare". Porse a Bradshaw il cavalletto con la borsa degli accessori fotografici e rimase solo, lì, sulla montagna, a fare quelle foto che avrebbero documentato la scoperta.
Incominciò a fotografare Richard che correva giù lungo il ghiaione a lunghi salti e scivolate. Nel giro di dieci minuti Richard giunse al laghetto, indugio a guardarlo e si chinò a bere alle sue acque. Quindi riprese a correre scendendo da un masso all'altro, seguito sempre dalle piccole frane che smuoveva lui stesso. All'improvviso Loren si ritrovò completamente solo, seduto sulla vetta ghiacciata e battuta dal vento.
Avvolse la macchina in un maglione e la ficcò nello zaino per proteggerla da eventuali cadute nella discesa lungo il ghiaione. Prese quindi la piccozza e si avviò. A ogni passo il laghetto diventava più grande e più reale. Era orlato da una cornice abbastanza larga di pietre e di graniglia d'un colore che andava dal bruno al nero, in netto contrasto con la neve. Alla fine si trovò a calpestare un mucchio di neve e poi le pietre che formavano il bordo del lago, dove si fermò per controllare l'altimetro: 5.243 metri. Tra i sassi l'acqua era d'un azzurro perfetto, riflettendo l'azzurro altrettanto perfetto del cielo. Era un classico laghetto alpino, di forma ovale, con l'estremità più stretta che puntava verso il Carhuasanta, cioè verso nord. Era lungo poco più dì sessanta metri e largo una trentina, fiancheggiato da piccoli penitentes che si riflettevano nell'acqua.
Le pietre intorno a quella cornice erano di grandezza variabile, ma alcune piccolissime e arrotondate dall'erosione dell'acqua, il che confermava che il lago era permanente e antico. Loren ne poteva vedere il fondale, profondo alcuni metri, mentre il vento increspava la superficie con piccole onde che sciabordavano andando verso l'estremità settentrionale, quella diretta verso valle. Alzò gli occhi dal lago al Choquecorao, cercando di immaginare un ghiacciaio che si era man mano ritirato nel corso di chissà quanti anni. Per quel che riguardava la neve, invece, la prossima nevicata avrebbe coperto la cima dei penitentes, nascondendoli e rendendo la china sopra il lago simile a un compatto cuscino bianco che si estendeva dalla cima del Mismi fino a laggiù.
Costeggiò il lago dirigendosi verso la punta settentrionale, dove si inginocchiò a esaminare la morena che lo sbarrava. Era una piccola morena lungo la quale non sembrava di vedere scorrere acqua, ma era più chiara delle pietre di tutto il bordo, come se si fosse scolorita, e ne usciva una traccia di umidità che serpeggiando puntava verso il Carhuasanta. La morena era compatta e regolare, come se l'infiltrazione dell'acqua si fosse già da tempo assestata in un suo percorso segreto nella massa di pietrisco. In tutto il quadro che Loren aveva davanti agli occhi, non c'era nulla che potesse far pensare all'esito di un recente capriccio stagionale.
Erano le quattro e un quarto del pomeriggio. Sfinito, ma desideroso di godersi quel momento, McIntyre si mise carponi e immerse il volto nel lago, bevendo alcuni gelidi sorsi. Di tutti i sentimenti di cui riusciva a essere consapevole, in quel momento ce ne fu uno che prese il sopravvento: com'era bella la sorgente, com'era bello il luogo in cui era situata, com'era chiaro il collegamento col flusso che ne discendeva e con la neve da cui sgorgava, a monte. Eccola lì, e lui vicino a essa, circondato da cose sicure e tangibili, di cui non si poteva dubitare. Si ricordò che doveva fare una cosa e si impegnò con fatica a darsi un comando preciso. Bisogna fare le fotografie del lago. Lui che beveva alle sue acque, il viso chino sulla superficie lucente e con i penitentes sull'altra riva come sfondo: ecco una bella inquadratura.
Scelse un masso dalla sommità piatta vicino al bordo occidentale del laghetto, vi sistemò sopra la macchina fotografica e ne regolò l'autoscatto, lo caricò, quindi si precipitò per stendersi vicino al lago, in posizione prona. Aveva a disposizione dieci secondi di tempo e non ce la fece, ci riprovò, ma non era sicuro del risultato e ripeté lo scatto finché fu così stremato da non reggere a un ulteriore tentativo.
Si sedette sul masso per cambiare il rullino, ma aveva le dita bagnate, fredde e intirizzite. Perse la presa sul rullino già esposto, che rotolò tra i sassi sotto di lui, sfuggendo fuori della sua portata. Accidenti. Non poteva permettersi di perderlo. Per ripescarlo doveva smuovere le pietre. Una ad una sollevò le più leggere, facendo rotolare lentamente da parte quelle più pesanti, preoccupato di non far scivolare ancora più in profondità l'astuccio o di danneggiarlo. Le pietre ammassate lungo il lago formavano una barriera alta anche un metro e mezzo e doveva assolutamente evitare che il rullino vi si infilasse tanto in fondo da non poter più essere ripescato. Con le dita rattrappite rovistò cautamente tra i sassi, consapevole che nel frattempo la luce andava scemando.
Il sole stava calando dietro le montagne. Tra breve sarebbe scomparso. Infine arrivò a toccare l'astuccio. Lo stava estraendo per riporlo nella tasca della giacca a vento, quando perse l'equilibrio. Tutto il mondo intorno a lui si mise a vorticare. Il sole scomparve. Crollò a terra svenuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel luglio 1972 Loren ricevette copia di una lettera con l'intestazione dello IAGS e la firma di Victor Tupa, sovrintendente alla toponomastica, indirizzata a Warren Ashworth, Chief of Engineers, Progetto USA IAGS, Perù. Oggetto: Relazione sulla spedizione per individuare la vera sorgente del Rio delle Amazzoni. Tupa apriva la relazione dichiarando che "durante la prima quindicina dell'ottobre 1971, le controversie esistenti a proposito della vera sorgente del Rio delle Amazzoni erano state risolte". Descriveva come la spedizione, "avendo individuato con studi cartografici il probabile punto di scaturigine del Rio delle Amazzoni", si era trasferita prima a Cailloma, poi aveva continuato in macchina verso sud, lungo una carrozzabile.
"Giunti al termine di tale strada, abbiamo proseguito su terreno aperto, utilizzando fin dove possibile la trazione integrale. Dopo aver lasciato la vettura sulla riva settentrionale del lago Carhuacocha, abbiamo iniziato la marcia a piedi, puntando più o meno verso sud, fino ad arrivare a destinazione. In quel punto c'erano i massicci dell'Hueracahua e del Mismi, in quella stagione ancora liberi dal ghiaccio. Proseguendo, arrivammo in vista della vetta innevata del Choquecorao, splendida nella sua selvaggia bellezza, coperta da spuntoni di ghiaccio simili a stalagmiti che davano luogo a una specie di foresta bianca, formati dall'azione di "fronti" di vento spiranti da ambedue le direzioni. Essi resero particolarmente difficile l'ascesa.
Nel punto di raccolta delle acque, a 5.200 metri di quota, sul versante nord della già citata montagna, si è notato un primo piccolo lago, che ho denominato "Lago McIntyre" in omaggio all'amico americano, l'infaticabile sognatore della natura. Un altro chilometro più a nord rispetto a esso, è comparso un altro laghetto a una quota più bassa, 5.000 metri circa... . Gli specchi d'acqua citati sono i più lontani dalla foce, e danno origine all'Apurimac e di conseguenza al Rio delle Amazzoni... . Sulla base di tali dati, se la massima distanza della scaturigine è il fattore che definisce la sorgente d'un fiume, il Rio delle Amazzoni nasce dalla sorgente situata sul versante nord delle nevi del Choquecorao, a 5.200 di quota, 15°31'00" di latitudine e 71°41'40" di longitudine, in cima alla gola del Carhuasanta, nella provincia di Cailloma, dipartimento di Arequipa. In questo luogo, come sempre avviene, le acque piovane filtrano nel terreno e poi per il fenomeno della capillarità emergono alla superficie sotto l'aspetto di sorgenti e laghi. A esse si uniscono quelle che provengono dallo scioglimento di masse di neve e che poi defluiscono per effetto della gravità attraverso infiniti percorsi sotterranei fino al letto del Carhuasanta, dove riaffiorano in superficie".

 

 

 

 

 

Mappa comprensiva delle quattro mappe di seguito riportate relative alle spedizione di Leonard Clark del 1946.