Genar 2012. I popoli della ihànbla gmunka.

 

 

 

 

 

 

 

 

Impossibile non dover dedicare uno dei "mestée al mes" agli Indiani, ai Pellerossa, o più correttamente ai Nativi nordamericani. Per me, sin da piccolo e oltre, un mito: amati da sempre, pur con difficoltà di comprensione della verità da bimbo, perché cresciuto, come si cresceva allora, con l'epica americana degli "arrivano i nostri", con i "buoni" e i "cattivi" dei film western. E ovviamente i "nostri", come i "buoni", eravamo noi, i "bianchi", ovvero quelli che portavano cultura e progresso, civiltà e religione; loro erano gli "altri", i "cattivi", primitivi e selvaggi. I "buoni" risposero alla difesa del diritto dei "cattivi" di esistere e vivere nelle loro terre, di credere alla loro spiritualità, tradizione e cultura, con un sistematico genocidio e deportazioni di massa. Mi ci è voluto poco tempo per capire da che parte stare: l'"uomo bianco" è stato, ed è, troppe volte sinonimo di sopraffazione e morte.
Ricordo tra i primi album di figurine collezionati, uno bellissimo dedicato agli Indiani, i carnevali passati con le loro vestimenta; ricordo i film dove istintivamente ero con loro e i giochi con gli amici dove sceglievo sempre di essere "indiano" anziché "viso pallido". Rappresentavano appieno le mie fantasie, le mie sognate avventure, stimolando la mia curiosità col loro modo di vivere, dai rituali misteriosi agli affascinanti costumi e acconciature, in quei territori selvaggi e sconfinati in simbiosi perfetta con la natura: la diversità che attrae, nutre e ti fa crescere.
Per ricordarne la assoluta specificità ed immenso valore culturale, tre momenti di vita intervallati dalle foto con relativi commenti di Edward S. Curtis, il leggendario fotografo che ha dedicato la sua vita (1868-1952) agli indiani d'America. Curtis, tra la fine dell'800 e i primi decenni del '900, ha attraversato il vasto territorio degli Stati Uniti e del Canada per conoscere le popolazione degli Indiani d'America, registrarne le voci e i canti, raccontarne le storie e soprattutto fermare sulla pellicola, volti e ritratti. Altre foto, anonime, completano l'iconografia de "el mestée", sino all'epilogo ove riporto integralmente un classico della narrazione storica che ripercorre la tragica epopea dei nativi americani da leggere assolutamente: "Seppellite il mio cuore e Wounded Knee" di Brown Dee.

 

 

 

 

 

Una pattuglia armata dei Sioux Brulè (1908).
Prima dell'arrivo degli europei, le tribù potevano anche essere in conflitto fra loro, ma non avevano una politica espansionista. I conflitti erano in genere lotte sporadiche, e avevano per lo più radici territoriali e rituali: si basavano su antiche inimicizie fra tribù (come fra Sioux e Pawnee). E i giovani, senza motivi seri (i nemici erano "nemici e basta"), come iniziazione facevano incursioni, a cui seguivano rappresaglie. Ma c'erano alcuni meccanismi che controllavano l'aggressività: incontrare uno del proprio segno animale (la cui fratellanza superava quella tribale), scongiurava il combattimento. E se ci si uccideva in battaglia, occorrevano lunghi rituali di purificazione: gli indiani preferivano così ferire piuttosto che uccidere.

 

 

 

 

 

L'apsaroke Due Fischi, razziatore di cavalli sioux. Ferito, fu curato dalla medicina sciamanica con un falco.
Quando conobbero i bianchi, gli indiani erano nella loro epoca d'oro. Anche grazie al cavallo, che contribuì al loro sviluppo riducendo distanze e fatiche, facilitando la caccia e la difesa. Eppure il cavallo selvatico era da tempo estinto in Nord America. Questi equini erano stati reintrodotti, senza volerlo, dagli spagnoli insediati in Messico. Un gruppo di cavalli, scappato nel 1600 da un forte, si rinselvatichì nelle pianure nordamericane, dando origine alla razza dei mustang. Gli indiani, senza sapere che fosse possibile (non avendo mai visto qualcuno che cavalcasse) dal 1700 riuscirono ad addomesticarli. E inventarono anche un proprio stile di cavalcata. All'arrivo dei bianchi, gli indiani erano circa 20 milioni: poi ne rimasero solo il 10%, fra guerre, carestie ed epidemie.

 

 

 

 

 

Gli indiani avevano nomi di animali, ma l'animale tutelare poteva cambiare durante la vita. Pancia d'Orso, ritratto in questa foto, mi raccontò come aveva avuto la pelle dell'orso e il suo nome. "Arrivai su una rupe. Sotto di me vidi 3 orsi. (...) Attesi finché il secondo fu vicino al primo e feci fuoco. L'orso più lontano cadde, la pallottola aveva attraversato il corpo del primo per conficcarsi nel cranio del secondo. Il primo, ferito, mi caricò e io sparai, spezzandogli la spina dorsale. Un rumore mi ricordò del terzo orso: correva ringhiando ed era a soli 6 passi da me. Sparai col fucile che toccava il suo petto. Quello con la schiena spezzata si trascinava ancora. Mi avvicinai per dirgli "Sono venuto per cercarti, amico mio, per tenerti sempre con me". E sparai".

 

 

 

 

 

Il grande capo Tre Cavalli intorno al 1905.
Il capo non veniva inteso all'occidentale, era un semplice portavoce. Si ritiene che la Costituzione americana abbia preso spunto anche dalla democrazia degli Irochesi.

 

 

 

 

 

Questo indiano piegan è ritratto con ascia-pipa, piume di rapace, pelli di ermellino, artigli di grizzly, ossi di cervo.
I Pellerosa avevano 1.100 lingue. E fra tribù diverse si capivano a gesti. Gli indiani salutavano con "hog", che gli inglesi trascrivono con "haug" e gli italiani pronunciano (e scrivono) "augh", sbagliando.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Guardate, fratelli miei, la primavera è arrivata;
la terra ha ricevuto l'abbraccio del sole
e noi vedremo presto i risultati di questo amore!
Ogni seme si è svegliato.
E così anche tutta la vita animale.
E grazie a questo potere che noi esistiamo.
Noi perciò dobbiamo concedere ai nostri vicini,
anche ai nostri vicini animali,
il nostro stesso diritto di abitare questa terra.
 
 
Tatanka Iyotake(Toro Seduto)

 

 

 

 

 

Un piccolo della tribù dei Nasi Forati, anche noti col nome francese di Nez Percé. Vivevano nell'odierno Idaho, principalmente di caccia e di pesca e si dedicavano all'allevamento dei cavalli. Ma perché venivano chiamati Pellerossa? Alcune tribù che si cospargevano di terra per proteggersi dal sole.

 

 

 

 

 

Una ragazza della tribù dei Nespelem che abitavano all'estremo ovest.
Gli indiani usavano i segnali di fumo? Sì, ma avevano 1.100 fra lingue e dialetti, tanto che svilupparono un complesso linguaggio gestuale per capirsi fra tribù diverse. I Cherokee inventarono un alfabeto (68 segni fonetici), forse l'ultimo a comparire nel mondo in epoca moderna. Nel 1828 uscì il primo giornale in lingua scritta indiana, il Cherokee Phoenix, dedicato alla loro causa.

 

 

 

 

 

A parte figure carismatiche come l'irriducibile Cavallo Pazzo o il diplomatico Nuvola Rossa, nate dalla necessità di unirsi contro i bianchi, non c'erano veri capi. Esistevano esperti per la guerra (in genere nati sotto il segno dell'orso), esperti per trovare l'acqua, capi-caccia, capi costruttori di accampamenti, uomini di medicina e così via. Tutte le decisioni venivano prese dai consigli delle tribù. Il capo non veniva inteso all'occidentale, era un semplice portavoce. Si ritiene che la Costituzione americana abbia preso spunto anche dalla democrazia degli Irochesi.

 

 

 

 

 

Non tutti erano guerrieri: gli specialisti della guerra erano di solito i nati sotto il segno dell'orso.

 

 

 

 

 

"Mitragliatrice" a cavallo. Un indiano apsaroke con arco e freccia, altre due frecce pronte in mano e una in bocca. Gli Apsaroke (o absaroke), conosciuti anche come Crow, appartenevano al gruppo linguistico dei Sioux ed erano stanziati nelle pianure del Montana e del South Dakota.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


I bianchi non furono corretti con me. Io andai da loro, invitato a un incontro di pace. Nessuno dei fratelli che mi accompagnavano teneva armi nascoste dietro la schiena. Eravamo disarmati come le nostre mani e il nostro pensiero. Quando ci sedemmo intorno a un tavolo per parlare mi trovai con corde ai polsi e alle caviglie. Lì capì che il tradimento è parte fondamentale del loro modo di vivere.
Io amo la terra su cui sono, il mio corpo è fatto della sua sabbia; il Grande Spirito mi diede gambe per attraversare questa terra; mi diede mani per sopravviverci; mi diede occhi per vedere i suoi stagni, i fiumi, le foreste e gli animali da cacciare; e infine una testa con cui pensare. Il sole, che è caldo e luminoso come i miei sentimenti, splende per scaldarci e dare forza ai nostri raccolti, la luna porta gli spiriti dei guerrieri che ci hanno lasciati, dei nostri padri, delle mogli e dei figli.
Il bianco che viene qui cresce pallido e malato; perché non possiamo vivere in pace? Io sono il nemico dell'uomo bianco. Potevo vivere in pace con lui, ma lui per primo ha rubato cavalli e bestiame, ci ha ingannati e ha preso le nostre terre. Gli uomini bianchi sono magri come le foglie delle paludi e dimagriscono ogni anno. Ci possono sparare, rapire moglie e figli, possono incatenarci braccia e gambe, ma il cuore del pellerossa sarà sempre libero.

 

 

 

 

 

Geronimo l'apache. Raccontò a Curtis che il Grande Spirito gli disse: "Nessun fucile dei bianchi potrà ucciderti". Fu un condottiero leggendario (foto del 1905).

 

 

 

 

 

L'immagine degli indiani nomadi, cacciatori di bisonti è corretta, ma solo per gli indiani delle pianure, come Sioux, Cheyenne, Piedineri e Arapaho.
I pellerossa infatti avevano diversi tipi di economie. Per esempio, l'indiano makah del nordovest (foto sopra) era un baleniere (brandisce l'arpione e i galleggianti) e si affidava alla pesca per sopravvivere. I Navajo, nel sud degli attuali Stati Uniti, erano seminomadi che allevavano pecore, e vivevano anche di furti ai danni di altri indiani. Altri predoni erano gli Apache. I Pueblo, che si spingevano fino in Messico, erano invece agricoltori stanziali, abili nell'irrigazione: coltivavano mais e zucche e lavoravano gioielli d'argento.

 

 

 

 

 

Aquila Nera (nato nel 1834) con l'ala del suo rapace. Già guerriero a 13 anni, mi confessò di non essere mai stato un eroe: catturò solo 6 cavalli.
Lo scalpo, per cui i nativi americani sono famosi, era in realtà un cimelio di cattivo gusto inventato da francesi e inglesi per dare un premio per ogni indiano ucciso. Fu solo in seguito adottato dalla resistenza indiana.

 

 

 

 

 

Aquila nera, un uomo della tribù dei Nasi Forati, anche noti col nome francese di Nez Percé. Abitavano in capanne di legno. Il Tipì, la capanna tipica dei film western, era l'abitazione degli indiani delle pianure. Quelli del sud abitavano in case di pietra. Al nord in capanne di legno.

 

 

 

 

 

Le società indiane non erano assistenziali: i vecchi, benché molto ascoltati, se non autosufficienti erano un peso e in genere lasciavano il gruppo per andare a morire. Nella foto un Navajo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Awicalowanpi e Estsanatlehi.
 
In quasi tutte le tribù l'arrivo di una fanciulla alla pubertà veniva consacrato con una cerimonia. Il rituale detto Awicalowanpi (esse cantano del loro primo mestruo) accompagna il menarca delle ragazze. Questa cerimonia arrivò in visione all'Uomo Medicina Tatanka Hunkeshme, molto tempo fa, in un periodo in cui i Nativi non conoscevano ancora l'atto barbarico, introdotto dai "civili" bianchi, di violare una donna.
Alla comparsa del suo primo Periodo della Luna, la fanciulla, deve essere resa consapevole dell'importanza e della sacralità del mutamento avvenuto in lei. Deve essere preparata ad affrontare la sua futura vita di donna e di madre, e ai suoi nuovi doveri. Il suo mutamento interiore e il suo cambiamento di status esigono anche profonde variazioni comportamentali nell'abbigliamento, nel modo di sedersi e persino nella foggia della pettinatura.
Il rituale si celebra alcuni giorni dopo il termine della comparsa del menarca. La giovane, dopo avere conservato in un fagotto il primo flusso mestruale, lo deve depositare nell'incavo d'un pruno selvatico, allo scopo di preservarlo dai cattivi influssi e per propiziarsi la fertilità. Durante la cerimonia la ragazza si toglie gli abiti infantili per vestire quelli della donna adulta e le viene insegnato a sedersi con la compostezza della donna. Da quel momento in poi, la donna ha la proibizione di eseguire rituali sacri durante gli anni di fertilità,e deve ritirarsi in una tenda speciale (isnatipi, tenda della solitudine) durante il ciclo mestruale.
Dopo la purificazione rituale nell'Inipi (la tenda "sudatoria"), e dopo avere affrontato una lunga e complessa serie di riti officiati per lei da un uomo o donna medicina, le si legano le mani con una lunga corda. Un capo di questo legaccio è tenuto dai genitori della ragazza che l'accompagnano così ad una festa celebrata per lei. Allora, alla presenza di tutta la tribù, la fanciulla recide la corda e si libera le mani. Da quel momento è da considerare una donna adulta e responsabile a tutti gli effetti. Questo rituale costituisce tuttora un aspetto importante del ciclo vitale femminile Lakota, poiché il ciclo mestruale e il corpo femminile venivano considerati sacri e il sangue mestruale ritenuto generatore e rigeneratore di vita. Dalla ciclicità del mestruo femminile affiorò la coscienza dello scorrere del tempo: di mese in mese le mestruazioni ricomparivano, accompagnate dalle fasi lunari, collegamento che fu chiaramente stabilito.
Inoltre era chiaro anche il legame che ha la Luna con le gravidanze e i parti, con la semina e la crescita delle piante, con la vita animale e con le maree. Questa stretta associazione delle donne con i cicli della natura era evidente ed era oggetto di venerazione, si riteneva dunque che le donne fossero dotate di poteri mistici, che permettevano loro di far nascere i bambini. Le donne erano in contatto con queste energie sacre e ad esse si allineavano in vari modi: secondo il ciclo della Luna Nera, mestruando durante il Novilunio, secondo il ciclo della Luna Rossa mestruando in Luna crescente e ovulando in Novilunio o seguendo la Sorellanza Ovarica, allineandosi cioè alle altre donne del gruppo. Durante le mestruazioni il contatto con l'energia era ancora più profondo e la sensibilità femminile si acuiva a tal punto da renderle capaci di profezie. Originariamente il significato della parola tabù era sacro e le donne nel periodo mestruale erano considerate tali.
Tra gli Apache e i Navajo, si conosce Estsanatlehi, la "Donna che si Rinnova", una divinità della Natura dai molti e diversi nomi, tra cui "Donna della Conchiglia Bianca", quella che portò la luce sulla terra che muta d'abito quattro volte l'anno, quando attraversa le quattro porte della sua dimora celeste per creare le stagioni. La "Donna che si Rinnova" rappresenta tutte le fasi dell'esistenza femminile, ma in particolare il momento in cui una ragazza diventa donna: una transizione che è considerata apportatrice di bene per l'intero clan, ed è perciò caratterizzata da festeggiamenti e riti. Fu dalla "Donna che si Rinnova" che gli esseri umani ricevettero la conoscenza e la saggezza, i cicli lunari e mestruali, i canti, le celebrazioni e il desiderio di ricerca. Essa insegnò inoltre ai Navajo come costruire le capanne dal tetto arrotondato chiamate hogan.
Il massimo tributo che le viene reso è il rito che contrassegna l'arrivo del mestruo. Si racconta che questo rito fu insegnato direttamente dalla stessa Estsanatlehi, sotto forma delle precise istruzioni tuttora seguite. La festa inizia all'arrivo del menarca e dura quattro giorni, durante i quali lo sciamano intona preghiere invocando la "Donna che si Rinnova" affinché infonda la sua essenza nella ragazza, affinché si trasformi in una donna feconda e generosa e sia onorata e venerata dalla sua gente. In risposta, lo spirito della "Donna che si Rinnova", "viaggia sui canti" dello sciamano e va ad abitare nell'adolescente, che diventa l'incarnazione della dea per i quattro giorni sacri.
Durante l'intero rito,la ragazza riceve l'esclusiva attenzione di una donna più anziana che la vezzeggia, la massaggia e la consiglia. Una delle finalità del rito è di caricare di energia magica un amuleto di cui l'iniziata possa servirsi quando a sua volta perderà i poteri legati alla procreazione. Il primo e l'ultimo giorno l'iniziata cammina in senso orario, accompagnata dagli acuti lamenti delle donne, intorno a un cesto contenente polline, piume, pittura e cereali, considerati elementi sacri dei riti. In diversi momenti vi sono festeggiamenti, racconti e danze, aperte da ballerine danzatrici chiamate gahe. Nel corso della cerimonia l'iniziata rappresenta il congiungimento della "Donna che si Rinnova" con il Sole.
Quando il rito si conclude,è diventata una donna e contemporaneamente un simbolo di pace e prosperità per il suo Popolo. (A.M.Secci)

 

 

 

 

 

Un indiano Arapaho fuma una pipa normale (foto del 1910, circa). La pipa della pace, invece, aveva a un suo estremo un'ascia vera, segno di equilibrio fra due opposti, la pace e la guerra. Serviva anche per comunicare con le divinità.

 

 

 

 

 

Un uomo della tribù dei Piegan. La parola totem (in origine ototeman) è l'unica che tutte le lingue europee hanno ereditato dagli idiomi indoamericani.

 

 

 

 

 

Tre capi piedineri. Erano indiani delle pianure e prendevano il nome dalle calzature. Vivevano lungo il fiume Bow.

 

 

 

 

 

Un villaggio Piegan.
I tipì erano la capanna tipica, ma solo degli indiani delle pianure. Quelli del sud abitavano in case di pietra. Al nord in capanne di legno.

 

 

 

 

 

Due membri dei Nakoaktok con i costumi tradizionali durante una danza tribale. I Nakoaktok vivevano nella costa occidentale dell'odierno Canada. Proprio nelle tribù del nord-ovest si usata il Palo-totem: non serviva per i prigionieri, ma a mostrare le effigi degli animali protettori degli avi che originarono la tribù.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La canunpa-wakan.


Per la sacra pipa (in lingua Lakota "canunpa-wakan"), il tabacco utilizzato veniva spesso mischiato alla corteccia interna del salice o del "sanguinello" creando una profumata mistura chiamata: "kinnikinnik" e presso i Lakota "cansasa". Questa mistura non aveva, data la scarsa quantità di tabacco, le dannose proprietà dell'odierno tabacco. Il fumo del tabacco portava in alto le preghiere offerte sino a raggiungere il "Grande Padre" affinché fossero esaudite.
Molte erano le occasioni in cui era fumata la sacra pipa: celebrare un evento, onorare un ospite, allontanare eventi negativi che potevano colpire la famiglia od il campo, o per un congiunto che stava morendo, per una caccia abbondante, per una nascita, per la pace, etc.. Il cannello in legno veniva congiunto col fornello (spesso di catlinite o "pipestone", una particolare pietra rossa che proviene dal Minnesota) ed allora ecco che la sacra pipa poteva esprimere tutta la sua potenza: allo stesso modo in cui un uomo ed una donna si uniscono dando origine alla vita di un nuovo essere così, l'unione dei due elementi della pipa, creano come una potente "antenna" di trasmissione di preghiera al grande Creatore.
A lui arrivano le preghiere rappresentate dalle offerte di tabacco, e dal "cansasa" che si deposita all'interno del fornello stesso. Ogni piccola quantità di tabacco viene, prima di essere inserita nella pipa, passata sopra il fumo della salvia sacra (qualità botanica conosciuta come artemisia lodoviciana); quando tutto il fornello è stato riempito di tabacco, prima lo si offre ai quattro quadranti dell'universo (partendo sempre da ovest verso est) quindi al cielo e alla terra, poi si fuma. Una volta offerta la pipa ad una persona, questa dovrà essere sempre sincera e le sue parole non dovranno poter mai "far male al cuore" dei presenti, e ciò perché la verità dovrà essere sempre detta.
Una volta terminato di fumare, le ceneri presenti nel fornello, saranno gettate nel fuoco o deposte su un sacro altare (generalmente una pietra piatta sulla quale vengono bruciate erbe sacre) e le due parti della pipa divise e riposte avvolte in una pelle o in una stoffa. Nessuna donna che sia nel ciclo mestruale potrà avvicinare o toccare la sacra pipa, in quanto in questo periodo la donna è particolarmente sacra, perché si sta purificando in maniera naturale, pertanto la forza della sua sacralità inciderebbe sulla energia della sacra pipa.
Ogni proprietario adornava la sua pipa in modo diverso a seconda delle visioni avute, o delle istruzioni di certi "uomini di medicina" i quali potevano suggerire di adoperare certi colori o certe decorazioni ognuna delle quali aveva un preciso significato non solo estetico ma anche pratico. Ad esempio, usando parti dell'aquila si voleva rappresentare la forza del sole e del "Grande Spirito".
Spesso se un uomo affermava qualcosa che poteva essere messa in discussione, per controllare le sue affermazioni gli veniva offerto di fumare e se egli declinava l'invito, allora nessuno gli avrebbe creduto, solo dopo aver fumato si aveva certezza di ciò che era stato affermato. Se un uomo si disonorava fumando e comunque mentendo, era spesso punito con l'esilio dal campo e con il disonore di tutti. (Alessandro Martire)

 

 

 

 

 

Un uomo della tribù degli Apache Jicarilla. Il termine deriva dalla parola spagnola che significa "piccolo canestro" e che si riferiva alle coppe per bere intrecciate a spirale usate da questo popolo Apache.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una donna della tribù dei Mohave.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


La "dottoressa delle formiche" degli Chumash.


Sino al termine del periodo missionario, diverse tribù di indigeni della California utilizzavano la pianta allucinogena-delirogena del toloache per contattare il mondo sovrannaturale e acquisire poteri sciamanici. Durante il periodo invernale, quando il toloache non è reperibile, essi utilizzavano un'altra fonte visionaria, che consideravano più potente della datura: formiche rosse del genere Pogonomyrmex(che produce diversi composti biologicamente attivi e tossici, fra cui peptidi, neurotossine e alcaloidi), il cui doloroso pizzico è ben noto alle popolazioni indigene.
Le etnie maggiormente coinvolte in questa pratica riguardavano gruppi Shoshoni della California del sud (Kitanemuk, Kawaiisu, Tubatulabal e diversi gruppi Chumash di lingua hokan). Anche alcuni gruppi di Yokuti della California centrale e i Miwok della California settentrionale erano dediti a questa pratica mirmecofila, seppure in forma attenuata. Fra i Chumash della California meridionale, se un giovane desiderava acquisire uno "spirito alleato", doveva seguire la seguente procedura: si faceva accompagnare da una "dottoressa delle formiche", una donna anziana del villaggio specializzatasi in questo compito, in un luogo appartato, a cielo aperto.
Dopo tre giorni di digiuno e di vomiti notturni indotti per purificare il corpo, l'aspirante visionario si sdraiava sul terreno a schiena in giù; seduta accanto, l'anziana donna gli porgeva sulla bocca una piccola pallottola inumidita di peluria di aquila attorno alla quale erano avvinghiate 4-5 formiche vive. Il giovane doveva aspirare la pallottola con un unico soffio, in modo tale che non si fermasse nella bocca, ma fosse deglutita direttamente nello stomaco.
Una dopo l'altra, il giovane poteva assumere sino a 90 pallottole, per un totale di circa 400 formiche. Queste dovevano restare vive nello stomaco; se fossero morte, sarebbe morto anche il giovane. Terminata l'assunzione, la donna muoveva energicamente il corpo del giovane, lo tamburellava allo stomaco, lo faceva rotolare avanti e indietro sul terreno, lo colpiva ai fianchi, e in tal modo le formiche ingoiate si mettevano a mordere la parete interna dello stomaco, iniettando tutte contemporaneamente il loro veleno.
Come conseguenza di ciò il giovane perdeva conoscenza ed esperiva la visione così dolorosamente ricercata. Infatti tutta la fase di assunzione di formiche vive, che non risparmiavano morsi a destra e a manca mentre scendevano nell'esofago, era accompagnata da una forte sensazione di bruciore alla gola, che aumentava sempre più, fino al momento della perdita di conoscenza. Se aveva assunto le formiche di prima mattina, il giovane riprendeva conoscenza nel pomeriggio. A questo punto egli beveva dell'acqua calda per indurre il vomito e permettere il "ritorno a casa" delle sacre formiche, rimaste vive per tutto quel periodo di tempo.
Ciò era solo l'inizio di una serie di "scorpacciate" di formiche, a 400 per volta, che si susseguivano per 2 o 3 volte al giorno, per 3, 4 o più giorni, sino al momento in cui le formiche ingerite trovavano la via del "ritorno a casa" da per loro, cioè risalivano l'esofago e fuoriuscivano dalla bocca, senza più doverle vomitare. A quel punto si era completato il contatto con lo spirito alleato, che aveva scelto il giovane conferendogli le sue virtù. (Giorgio Samorini)

 

 

 

 

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