Giugn 2013. Dubbio e inquietudine.

 

 

 

 

Molteplici possono essere le definizioni: stati del pensiero, stati d'animo, stati della esistenza. Solitamente convivono, nutrendosi l'un l'altra reciprocamente. Evidente che l'insieme, o talvolta anche il singolo, sia innegabile portatore di crescita, miglioramento, ricerca. Impongono movimento, non consentono l'immobilismo, non l'accettano aprioristicamente: mentre il dubbio è continuo rincorrere la verità, anche solo la tua verità, il mettere in discussione certezze e dogmatismi, il diffidare del potere, l'inquietudine impedisce di indossare pantofole cerebrali, di crogiolarsi nello status quo, scatenando tempeste interiori, o rivoluzioni.
Senza il dubbio e l'inquietudine, l'essere sarebbe assoluta noia, monotonia esistenziale, grigiore perenne, impossibilità di evoluzione e progresso, passivo consenso. Ma attenzione, quando dubbio e inquietudine diventano esclusivi protagonisti del tuo vivere, intrusivi e assillanti, lo condizionano pericolosamente: la loro presenza è fattrice di nevrosi, psicosi, determinanti timori, angoscia, ansia, inazione, profondo malessere.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate
serenamente e con rispetto chi
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti, che non deste
con troppa fiducia la vostra parola.
Leggete la storia e guardate
in fuga furiosa invincibili eserciti.
In ogni luogo
fortezze indistruttibili rovinano e
anche se innumerabile era l'Armata salpando,
le navi che tornarono
le si poté contare.
Fu così un giorno un uomo sull'inaccessibile vetta
e giunse una nave alla fine
dell'infinito mare.
Oh bello lo scuoter del capo
su verità incontestabili!
Oh il coraggioso medico che cura
l'ammalato senza speranza!
Ma d'ogni dubbio il più bello
è quando coloro che sono
senza fede, senza forza, levano il capo e
alla forza dei loro oppressori
non credono più!
Oh quanta fatica ci volle per conquistare il principio!
Quante vittime costò!
Com'era difficile accorgersi
Che fosse così e non diverso!
Con un respiro di sollievo un giorno un uomo
nel libro del sapere lo scrisse.
Forse a lungo là dentro starà e più generazioni
ne vivranno e in quello vedranno un'eterna sapienza
e sprezzeranno i sapienti chi non lo conosce.


Ma può avvenire che spunti un sospetto, di nuove esperienze,
che quella tesi scuotano. Il dubbio si desta.
E un altro giorno un uomo dal libro del sapere
gravemente cancella quella tesi.
lntronato dagli ordini, passato alla visita
d'idoneità da barbuti medici, ispezionato
da esseri raggianti di fregi d'oro, edificato
da solennissimi preti, che gli sbattono alle orecchie
un libro redatto da Iddio in persona,
erudito da impazienti pedagoghi, sta il povero e ode
che questo mondo è il migliore dei mondi possibili e che il buco
nel tetto della sua stanza è stato proprio previsto da Dio.
Veramente gli è difficile
dubitare di questo mondo.
Madido di sudore si curva l'uomo
che costruisce la casa dove non lui dovrà abitare.
Ma sgobba madido di sudore anche l'uomo
che la propria casa si costruisce.
Sono coloro che non riflettono, a non dubitare mai.
Splendida è la loro digestione, infallibile il loro giudizio.
Non credono ai fatti, credono solo a se stessi. Se occorre,
tanto peggio per i fatti. La pazienza che han con se stessi
è sconfinata. Gli argomenti
li odono con l'orecchio della spia.


Con coloro che non riflettono e mai dubitano
si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono.
Non dubitano per giungere alla decisione, bensì
per schivare la decisione. Le teste
le usano solo per scuoterle. Con aria grave
mettono in guardia dall'acqua i passeggeri di navi che affondano.
Sotto l'ascia dell'assassino
si chiedono se anch'egli non sia un uomo.
Dopo aver rilevato, mormorando,
che la questione non è ancora sviscerata, vanno a letto.
La loro attività consiste nell'oscillare.
Il loro motto preferito è: l'istruttoria continua.
Certo, se il dubbio lodate
non lodate però
quel dubbio che è disperazione!
Che giova poter dubitare, a colui
che non riesce a decidersi!
Può sbagliarsi ad agire
chi di motivi troppo scarsi si contenta,
ma inattivo rimane nel pericolo
chi di troppi ha bisogno.
Tu, tu che sei una guida, non dimenticare
che tale sei, perchè hai dubitato
delle guide! E dunque a chi è guidato
permetti il dubbio!

 

Bertold Brecht

 

 

 


 

 

 

 

Senza dubbi, l'uomo sarebbe privo di libertà. Il dubbio è insito nella natura umana e ha una sua precisa funzione, che è quella di stimolare l'uomo verso una evoluzione psico-dinamica, ordinata e positiva. Ha scritto Carl Jung: "L'uomo va sempre in cerca di certezze, verità e non dubbi, risultati e non esperienze, senza accorgersi che le certezze non possono che provenire dai dubbi e i risultati dalle esperienze".
Il dubbio che si insinua tra i meandri della mente esige spontaneità e non forzature di sorta, tant'è vero che quando puntiamo testardamente a ricordare qualcosa o qualche nome la mente ce la nega ed ecco che, a bocce ferme, l'intuizione e la soluzione del dubbio. Basta solo questo per farci capire come la mente e quindi la coscienza abbiano bisogno di silenzi per esprimersi al meglio. Come la natura che opera meraviglie in perfetto silenzio. Lo si può anche definire quasi un "guaritore" interno.
Non per niente si dice che i dubbi alimentano le certezze, perché senza il dubbio, nessuno di noi andrebbe alla ricerca della verità e quindi delle certezze. Vivremmo in un limbo perenne, e credo non sia un bel vivere. Sarebbe solo una vita istintiva, al pari del mondo animale.
Da qui la "ragione e il motivo del dubbio" e quale spinta e valore può avere per noi. Se ben compreso quindi, può essere il motore che ci porta a trovare quella verità che cerchiamo. Una persona intelligente che non si pone mai dubbi, forse non è poi così intelligente, tanto vero che a tale riguardo Bertrand Russell disse: "Il problema dell'umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi". (Nonno Eugenio, 2013)

 

 

 

 


 


 


Gli scettici definiscono il dubbio "l'esitazione ad affermare o negare" cioè l'attimo in cui si verifica l'ondeggiamento del pensiero, la sospensione tra due o più oggetti tra i quali operare una scelta. È il rifiuto del dogmatismo, il riconoscimento di un'incertezza dell'animo. Cartesio, con il suo "Cogito ergo sum", ha travalicato i confini delle certezze e ha fatto scaturire dalla loro stessa essenza il dubbio, affermando che è appunto il cogito, cioè non solo il pensare ma anche il dubitare, a rendere l'io-uomo, in quanto soggetto che dubita, un'entità reale. I nostri dubbi ci rendono reali, ci verrebbe da dire. Nella letteratura, che è vita, il dubbio la fa da padrone. Amleto incatenato follemente a passi scanditi da dubbi che gli incendiano la mente, apparentemente delirante, annienta le eterne Ofelie e le loro soggiogate certezze.
E noi? E noi siamo Ofelia. Cerchiamo negli altri le nostre verità e parallelamente ci facciamo rapire dai dubbi altrui, sommandoli ai nostri, e venendone schiacciati. Stravolgeremmo i fatti se affermassimo che Ofelia non viene trascinata a fondo, e non solo metaforicamente, dalla follia di Amleto ma dal turbinio dei suoi dubbi? Le domande creano il caos, sono deleterie, sembra sussurrare la vocina di sottofondo che assiste alla rappresentazione teatrale di cui siamo attori e spettatori. Le domande sono deleterie, sembra dire l'annunciatore televisivo. Le domande sono deleterie, sembrano urlare i quiz in cui si mettono in palio pezzetti di vita.
I dubbi oggi sono destinati a sparire, oppure irretiscono ancora gli incauti pensatori, coloro che vagano con il pensiero, coloro che si spingono a tastare con mano quelle piaghe che, da altri, vengono solo nominate e mai realmente esplorate? Le nostre piaghe cosa nascondono? Le certezze precostruite che ingoiamo giorno dopo giorno. In tempi di precarietà (mai parola più funesta al giorno d'oggi) si sa, l'uomo preferisce gettarsi a testa bassa su assiomi insinceri piuttosto che scavare nel proprio giardino-pensiero. Consapevoli della dicotomia (già pirandelliana) vita vs forma, ci ammiriamo nella vischiosa pozzanghera in cui affondano le nostre caviglie e scegliamo la placida forma mistificatrice. (Francesca Taibbi, 2012)

 

 

 

 


 

 

 

 

Inquietudine è conoscenza e crescita culturale e sentimentale.
Inquietudine non caratterizza solo chi vive stati d'angoscia o d'ansia.
Inquietudine avvolge e pervade chi ama,
chi è tormentato dalla creatività artistica,
chi ha desiderio di conoscenza,
chi è pervaso dal dubbio,
chi è affascinato dal mistero,
chi è sedotto dalla vita,
chi partecipa ai drammi dell'umanità contemporanea,
e, ancor più, chi ne è afflitto direttamente.


Il Circolo degli Inquieti

 

 

 

 

 

 

 


Tornando a casa, stasera, abbiamo assistito allo stupendo spettacolo, donatoci gratuitamente dalla natura, di un cielo temporalesco alla El Greco. Da una parte, nuvoloni scurissimi che galoppavano e si accavallavano gli uni sugli altri, sino a formare una cappa quasi nera, impressionante; dall'altra, un azzurro indescrivibile, purissimo, solcato da poche nuvolette che il sole al tramonto bordava d'oro, mentre l'orizzonte si andava tingendo, dietro la linea già cupa dei monti, di una serie di delicatissime tonalità dal giallo al verde all'indaco. Il pomeriggio era stato afoso, opprimente; l'umidità si era stesa come un velo sulle cose e provocava un senso di disagio, quasi di soffocamento. Ora che il crepuscolo sta scendendo lentamente su questa giornata di un tardo settembre che pare ancora estate, un vento gagliardo si è levato e spazza le fronde degli alberi che si agitano e si scuotono fremendo, stormendo come se una forza prodigiosa le avesse afferrate dall'interno e si fosse aperta un varco sino al centro del loro essere.
Ecco: questa, forse, è l'inquietudine: lo scuotersi e il fremere degli enti quando li afferra la sublime nostalgia dell'essere; il vento gagliardo che spazza l'afa stagnante e irrompe sulle cose come un soffio di vita nuova; lo squarciarsi delle nubi e l'apparire di un altro orizzonte, di un nuovo cielo e di una terra nuova, più fresca, più viva, come se fosse stata investita da un'ondata di amore e gratitudine; come questi abeti e questi platani che si piegano e si contorcono in una convulsione che è l'aspra sincerità e la gioia dolorosa della vita stessa.
A torto si guarda all'inquietudine come ad una condizione interiore preoccupante e potenzialmente pericolosa. Non parliamo, ovviamente, dell'inquietudine legata a circostanze contingenti e travagliate, per esempio al senso di colpa per una cattiva azione commessa, o all'incertezza per un evento minaccioso che ci viene incontro, o, ancora, alla difficoltà di prendere una decisione difficile, penosa, che ci vede obbligati a scegliere tra due mali. Parliamo invece dell'inquietudine come condizione esistenziale e legata a un'intima esigenza di cambiamento, di rinnovamento, di superamento, da una condizione chiusa e frustrante verso una di la libertà, apertura, realizzazione.
L'inquietudine esistenziale è il segno di una intensa vitalità dell'anima, che non si accontenta della banalità del quotidiano e aspira a una meta degna dei suoi sforzi e dei suoi ardori (Giordano Bruno parlava di "heroici furori"). Grazie ad essa, la coscienza si pone di fronte al mondo e a se stessa in un atteggiamento di stupore, ma anche di insoddisfazione per i limiti di ciò che è abitudinario, per i sentieri ormai ben noti, per gli orizzonti ristretti e ormai troppo familiari; e avverte una pungente nostalgia di ciò che sta oltre: non oltre questo o quell'oggetto particolare della nostra esperienza, ma oltre la nostra stessa condizione di persone inautentiche, spente, ingrigite. Essa è come un pungolo nella carne, che ci sprona a non sederci sulle comodità di quanto già riteniamo acquisito e ci sfida a osare, a buttarci, a lasciarci andare nella grande corrente dell'essere, dalla quale proveniamo e alla quale aneliamo a fare ritorno.
Non si confonda l'inquietudine esistenziale con la nevrosi, con l'iperattivismo, con lo scomposto agitarsi, correre qua e là, mangiarsi le unghie, imbottirsi di sonniferi per riuscire a dormire, tempestare amici e conoscenti di telefonate per essere continuamente rassicurati su questo e su quello. La nevrosi è un'altra cosa: è una malattia della psiche che nasce da un groviglio di traumi, complessi, paure e insicurezze che avvertiamo come dei corpi estranei che c'ingombrano e dei quali vorremmo liberarci ad ogni costo.
L'inquietudine, invece, è una malattia dell'anima, ma è una malattia provvidenziale; non riguarda determinati aspetti della nostra vita psicologica, ma investe la totalità della nostra coscienza; non agisce come un peso opprimente, come una maledizione incontrollabile; e non vorremmo, in fondo, liberarcene, perché avvertiamo che essa è tutt'uno con noi, con la parte migliore di noi stessi: la generosità, lo slancio idealistico, l'apertura, il dono, il coraggio, la ricerca di senso, la lotta per progredire, l'impulso a trascendere ontologicamente la nostra stessa natura.
L'inquietudine è la molla che ci proietta sempre avanti, al di là delle certezze prefabbricate, delle verità rassicuranti, delle formulette da prontuario a un tanto il chilo; ci strappa al nostro quieto vivere, ci schioda dal nostro mediocre desiderio di tirare a campare; ci scaraventa nell'arena, nel rischio, nel pericolo. Non in senso fisico: o, comunque, non per amore del rischio fisico: la pratica dei cosiddetti sport estremi nasce dalla noia ed è il rovescio della medaglia dello spirito borghese che tutto vuole etichettare, incasellare, normalizzare. L'inquietudine è amore del pericolo in senso esistenziale: perché ci spinge fin sul baratro di abissi che non conosciamo, ma oltre i quali intuiamo che deve trovarsi qualcosa capace di dare un senso al nostro tendere, al nostro interrogarci incessante, alla nostra stessa inquietudine.
Chi pratica gli sport estremi vuole semplicemente uccidere la noia e, al tempo stesso, esorcizzare la paura della morte, reiterando estreme manifestazioni di coraggio. Chi è pungolato dall'inquietudine esistenziale, invece, sente l'angustia della finitudine e vorrebbe aprirsi una strada verso l'assoluto, verso l'essere; non vuole esorcizzare nulla e non deve dimostrare niente a nessuno, né a se stesso, né agli altri: è protagonista e testimone solitario del proprio rischio, del proprio azzardo.
Certo, esistono tante forme d'inquietudine quanti sono gli esseri umani. L'animale (come osserva anche Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) non conosce questo sentimento. O forse no? Un cane che abbaia alla luna non manifesta anch'esso, a suo modo, la propria inquietudine? Sia come sia, esistono diverse maniere di vivere l'inquietudine esistenziale e ciascuna di esse, ovviamente, dipende dal livello della evoluzione spirituale di quella data persona. In un individuo spiritualmente poco evoluto, l'inquietudine porterà a galla le tendenze inferiori, le paure, i difetti, gli egoismi, le piccole astuzie per aggirarla o per eluderla. Poiché essa è un sintomo, noi possiamo anche ignorarla: non siamo obbligati a darle ascolto. Possiamo anche stordirla con l'acool, il sesso, la droga; possiamo ridurla al silenzio sommergendola sotto ritmi febbrili di superlavoro; possiamo beffarla sfogando il nostro malessere in bizze e capricci, tormentando il prossimo, ingegnandoci a complicare le cose semplici.
L'inquietudine è una sfida che sollecita le persone mature, abituate a vivere nella dimensione dell'essere e non in quella dell'avere; che le obbliga a non adagiarsi mai sugli allori, a proseguire sempre il cammino solitario del perfezionamento spirituale; a sforzarsi di dare il meglio di sé senza giocare al risparmio, senza badare a spese. Nelle persone predisposte alla generosità, all'apertura, al dono, nonché dotate di spirito di sacrificio, l'inquietudine è lo strumento capace di stimolarle a dare il meglio di sé in un vasto progetto di amore universale; nelle persone abituate al calcolo, al nascondimento, al compromesso, essa si riduce a svolgere la funzione di cattiva coscienza e di sterile rovello interiore. Infatti l'inquietudine è una prova, un vaglio, un setaccio: serve a dividere il frumento dalle erbacce, le anime che aspirano alla nobiltà da quelle che si compiacciono di meschinità e bassezza. L'inquietudine è un marchio di nobiltà per le anime nobili; ma è una forma di nevrosi e un inutile tormento per le anime grette ed egoiste. Per l'anima malata, l'inquietudine è una malattia che si aggiunge alle altre. Per l'anima sana e forte, è una sfida a mettersi in gioco, una finestra spalancata sull'essere.
Se è una finestra, essa è anche una possibilità. L'inquietudine, di per sé, non rende né migliori né peggiori coloro che ne sono afferrati; essa apre degli scenari nuovi e mette in gioco delle forze dello spirito che erano rimaste latenti. Il suo insorgere costituisce un richiamo, il richiamo delle lontananze, delle altezze. Il corvo ne sarà spaventato; ma l'aquila se ne sentirà vibrare tutta, ricorderà di avere un paio d'ali possenti, e si lancerà dalla vetta della montagna che, sino allora, gli era parsa una disperata prigione.
Tuttavia, se è una possibilità, l'inquietudine è anche la possibilità del nulla. La sua sollecitazione può non venire accolta, oppure può essere degradata a ossessione che si compiace di sé stessa. Il mondo è pieno di ossessionati che non hanno saputo completare il movimento della coscienza, che dell'inquietudine non hanno saputo farsi un trampolino per spiccare il volo verso le altezze. La letteratura contemporanea è piena di queste figure di ossessionati, uomini e donne non-morti ma che non sono mai riusciti ad essere vivi. Un buon esempio di un simile tipo umano è offerto dal romanzo di Carson McCullers Riflessi in un occhio d'oro, magistralmente portato sullo schermo dal regista John Huston nel 1967.
Quando l'inquietudine si accende in un cuore generoso e lo spinge a osare la grande avventura, essa prefigura, mediante la nostalgia che ne scaturisce, lo stadio più alto del movimento ascensionale dell'anima: quello della speranza. L'inquietudine nasce dalla delusione del desiderio che non trova adeguata soddisfazione nei singoli oggetti finiti; e la nostalgia d'infinito, che da essa si origina, apre la strada alla speranza, attesa fiduciosa di quella pienezza e di quell'appagamento profondo che solo nel ritorno all'essere gli essenti possono assaporare. Il cuore tiepido, che non ha mai bruciato d'inquietudine, che non si è mai acceso di nostalgia, non arriva nemmeno a capire la bellezza e la profonda necessità di questo movimento.
Se non ha mai provato la divorante nostalgia dell'essere, vuol dire che non è mai salito in coperta, dove soffiano liberi i venti, a contemplare l'orizzonte marino disseminato di nubi, a respirare profondamente l'odore di salso delle vastità equoree. Vuol dire che è sempre rimasto acquattato in un angolo buio della stiva, nell'odore di muffa e di stantio, dove giunge appena un'eco del possente fragore delle onde e dove le ragnatele tessono indisturbate la tela fra vecchie cose logore e polverose. (Francesco Lamendola, 2007)