Genar 2013. Monsieur Serge.

 

 

 

 

Il cuore antropologico della società della crescita
è la dipendenza dei suoi membri dal consumo.
Il fenomeno si spiega da una parte con la logica stessa del sistema
e dall'altra con uno strumento privilegiato
della colonizzazione dell'immaginario: la pubblicità.
E trova una spiegazione psicologica nel gioco del bisogno e del desiderio.
Per usare una metafora siamo diventati dei "tossicodipendenti " della crescita.
Che ha molte forme, visto che alla bulimia dell'acquisto,
siamo tutti "turboconsumatori ",
corrisponde il workaholism, la dipendenza dal lavoro.
Un meccanismo che tende a produrre infelicità,
perché si basa sulla continua creazione di desiderio.
Ma il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà,
poiché si rivolge ad un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti.
Senza poter trovare il "significante perduto",
si fissa sul potere, la ricchezza, il sesso o l'amore,
tutte cose la cui sete non conosce limiti.
 
 
Serge Latouche

 

 

 

 


 

 

 
 
 A sinistra c'è il café Le Metro, a destra il Ronsard. Uno di fronte all'altro, con la stessa veranda affacciata sul viale e lo spazio interno percorso dalla luce dei paralumi e dai riflessi degli specchi. In mezzo scorre Boulevard Saint Germain: 30 metri di asfalto antracite, bollente e polveroso, la colonna vertebrale della rive gauche parigina. "Una volta, i giornalisti li ricevevo dall'altra parte: il proprietario del caffè abita al primo piano, proprio sotto il mio appartamento, peccato che mia moglie ci abbia litigato".
Il teorico della decrescita, Serge Latouche, si presenta al tavolino del Ronsard con un affare di condominio e la fatica di attraversare la strada. A dispetto delle lunghe gambe e dello sguardo da marinaio, l'economista 72enne sembra desideroso di restringere il mondo. Anche quello che lo circonda, fatto di caffè dove si dibatte di politica e filosofia, da cui sono passati sia Adam Smith sia Karl Marx.
Latouche ha cominciato a parlare di globalizzazione quando la parola non era nemmeno nei dizionari, ma da poco era stato pubblicato il rapporto dell'associazione non governativa Club di Roma sui limiti dello sviluppo e la fine del petrolio. Ha riletto i liberali classici e il padre del comunismo e ne ha concluso che né il capitalismo concorrenziale teorizzato dai primi, né l'economicismo statalista dei marxisti sarebbero stati capaci di dar vita a una società in equilibrio con l'ecosistema.
Entrambi, anzi, avrebbero portato al collasso. Così ha messo in discussione il concetto di sviluppo come progresso, teorizzando la necessità di un dopo-sviluppo, della decrescita: l'uscita dal dominio dell'economia e una rifondazione culturale, fondata sulla limitazione dei bisogni. Le sue idee si sono diffuse attraverso il mondo globalizzato, diventando la critica radicale del nostro tempo, la controcultura del mondialismo. Oggi che è docente di Scienze economiche all'Università di Parigi Sud, i giornali squadernati sul bancone del locale sembrano dargli ragione: parlano di rifiuti nucleari e licenziamenti, di nazioni indebitate e speculazione internazionale. (G. Faggionato, 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 


 
 
 

 

 Intervista 1


Sappiamo già che l'attuale sistema crollerà tra il 2030 e il 2070, il vero esercizio di fantascienza è prevedere che cosa succederà tra cinque anni.
Lei ha un'idea?
L'Europa nata nel Dopoguerra farà la fine del Sacro romano impero di Carlo Magno che cercò di restaurare un regno crollato, durò per 50 anni e fu travolto dai barbari.
Che cosa c'entra l'impero romano?
Crollò alla fine del V secolo, ma non morì: continuò a sopravvivere per centinaia di anni con Carlo Magno, l'impero d'Oriente e poi quello germanico. Un declino proseguito nel tempo, con disastri in successione. Come succederà a noi.
È la fine della globalizzazione?
Io la considero una crisi di civiltà, della civiltà occidentale. Solo che, visto che l'Occidente è mondializzato, si tratta di crisi globale. Ecologica, culturale e sociale insieme.
Più di un crollo finanziario...
Se vogliamo andare oltre è la crisi dell'Antropocene: l'era in cui l'uomo ha cominciato a modificare e perturbare l'ecosistema.
E il sogno degli Stati Uniti europei?
È un'illusione. Perché è solo un prodotto della globalizzazione: non hanno costruito un'Unione, ma un mercato liberista.
Che fine farà il Vecchio continente?
L'Europa è schiacciata tra due movimenti. Uno politico e centrifugo che si è sviluppato anche in Italia con la stessa Padania. E uno economico e centripeto, la globalizzazione.
Per ora l'economia batte la politica...
Sì, il movimento centripeto ha il sopravvento. Ma è anche quello che nel lungo periodo andrà a crollare. Non può funzionare senza il petrolio e il blocco delle risorse materiali. Alla fine, con tutta probabilità l'Europa si dividerà in macro regioni autonome.
Come ci arriveremo?
La barca affonda e andremo giù tutti insieme. Ma non è detto che questo avverrà senza violenza e dolore.
Parla del conflitto sociale in Grecia e Spagna?
Ecco, purtroppo siamo già dentro il capitalismo catastrofico. È solo l'inizio del processo, ma vediamo già gli effetti del mix di austerità e crescita voluto dai leader europei.
È comunque meglio della sola austerità...
Crede che l'imperativo della crescita funzioni? Basta guardare alla Francia: questo governo socialista vuole allo stesso tempo la prosperità e l'austerità. Ma non riuscirà a ottenere la crescita. O, se avverrà, sarà per pochi. Mentre l'austerità è sicura per molti.
Perché?
Perché non hanno scelta.
In che senso?
Sono chiusi dentro questo paradigma del produttivismo, del prodotto interno lordo (Pil). È per questo che la decrescita è una rivoluzione. Perché prima di tutto è un cambiamento di paradigma.
Facile dirlo. Ma lei che cosa farebbe se fosse il premier italiano?
L'Italia dovrebbe andare in bancarotta.
Che cosa intende?
Pensi al debito.
Secondo l'FMI quello italiano è quasi al 140% del Pil.
Appunto: non sarà ripagato, lo sanno tutti. Ne è consapevole anche Mario Monti. Il problema, per l'attuale classe dirigente, non è ripagare il debito. Ma è fingere di poter continuare il gioco: cioè ottenere prestiti e rilanciare un'economia che è solo speculativa.
Quali sono le prime cinque misure che adotterebbe al posto di Monti?
Innanzitutto, cancellerei il debito. Parlo come teorico, so che ci sono cose che Monti non potrebbe fare comunque, neppure se fosse di sinistra o un decrescente. Ma sto parlando di bancarotta dello Stato.
La bancarotta è la soluzione?
È più che altro la condizione per trovare le soluzioni.
In che senso?
Non porta necessariamente alla soluzione, anzi in un primo momento le cose possono peggiorare. Ma non c'è altro modo, perché non esiste via d'uscita dentro la gabbia di ferro del sistema attuale. L'Italia non sarebbe la prima né l'ultima. Tutti quelli che l'hanno fatto si sono sentiti meglio, da Carlo V all'Argentina.
Ma l'Argentina non era dentro una moneta unica.
Questo significherebbe uscire dall'euro, ovviamente, dentro non si può fare niente. Per questo dico che parlo come teorico: nemmeno i greci hanno avuto il coraggio di abbandonare l'Unione.
Siamo al terzo punto allora: uscire dall'euro, cancellare il debito e poi?
Rilocalizzare l'attività. C'è tutto un sistema di piccole imprese, di saper fare diffuso, che è stato distrutto dalla concorrenza globale.
Sì, ma come si fa?
Devo usare una parola che in Italia fa sempre paura: serve una politica risolutamente protezionista.
Su questo, il dibattito è annoso...
Esiste un cattivo protezionismo, è vero. Ma c'è anche un cattivissimo libero scambio. Mentre esiste un buon protezionismo, ma non un buon libero scambio.
Perché no?
Perché la concorrenza leale sempre invocata non esiste. E non esisterà mai. Semplicemente perché tutti i Paesi sono diversi. Come si può competere con la Cina? È una barzelletta.
Parla come se facesse parte della Lega Nord.
Lo so, lo so. E anche come uno del Front National. Sa perché ha successo l'estrema destra?
Me lo dica lei...
Perché non tutto quel che dicono è stupido. C'è una parte insopportabile, ma se sono popolari, e lo saranno sempre di più, è perché hanno capito alcune cose, hanno ragione. È questo che fa paura.
Quindi qual è la ricetta della decrescita?
Il protezionismo ci permette di non essere competitivi per forza. Se lo siamo in alcuni settori, bene. Ma possiamo anche sviluppare produzioni non concorrenziali. Stimoliamo la concorrenza all'interno, ma con Paesi che hanno altri sistemi sociali, altre norme ambientali, altri livelli salariali, questo non è possibile. D'altra parte, è stata l'eccessiva specializzazione a renderci così fragili.
Siamo alla quarta misura, quindi.
La tragedia attuale, per me, è soprattutto la disoccupazione.
E come pensa di risolverla?
Lavorando meno, ma lavorando tutti.
Una formula già sentita...
Sì, ma ci dicevano anche che la concorrenza attuale ci avrebbe fatto lavorare di più per guadagnare di più, come ha dichiarato quello sciagurato di Nicolas Sarkozy. E invece ci fa lavorare di più e guadagnare sempre meno: questo è sotto gli occhi di tutti.
Ma è una questione di denaro?
No, si tratta di vivere. Dobbiamo ritrovare il tempo per dedicarci al resto, alla vita. Questa è un'utopia, ma l'utopia concreta della decrescita: superare il lavoro.
Sì, ma come?
Partendo dalla riconversione ecologica. Tornando a un'agricoltura contadina, senza pesticidi e concimi chimici. In questo modo, la produttività per l'uomo sarà più bassa, ma si creeranno milioni di posti di lavoro nel settore agricolo. E questa è la quinta misura.
Basta l'agricoltura?
Dobbiamo affrontare la fine degli idrocarburi, sviluppare le energie rinnovabili e riconvertire le attività parassitarie che danneggiano l'ambiente.
Per esempio?
Le fabbriche di automobili, che oggi sono in crisi.
Peugeot ha annunciato 8 mila licenziamenti...
Bisognava aspettarselo da anni. Si sa che l'industria dell'auto non ha futuro: con lo stesso know-how potrebbero essere trasformati in stabilimenti che producono sistemi di cogenerazione.
Parla di una globale ristrutturazione del mercato del lavoro?
La quota di occupati in agricoltura potrebbe arrivare al 10%. Ci sono industrie nocive come l'automobile, il nucleare, la grande distribuzione che vanno ripensate. E c'è la necessità di una riconversione energetica. In Germania, con le energie rinnovabili hanno creato decine di migliaia di posti di lavoro.
Ma sono dati contestati...
Il dibattito è aperto: si dice che chiudere le centrali nucleari francesi cancellerà 30 mila posti di lavoro ma, allo stesso tempo, prima bisogna smantellare. E nessuno lo sa fare. Quanti posti di lavoro si potrebbero creare allora?
E la grande distribuzione?
Sicuramente ha effetti distruttivi per l'ambiente e alimenta un alto tasso di spreco alimentare, pari a circa il 40% della produzione.
E allora?
Cancellarla significa essere pronti a ripensare tutto il sistema della città e soprattutto delle periferie.
Come?
La gente ha bisogno di piccoli negozi. Di fare la spesa più spesso, con più tempo a disposizione. Quando si comincia a cambiare un anello, come in una catena cambia tutto.
E i trasporti?
Dobbiamo pensare che il 99% dell'umanità ha passato la propria vita senza allontanarsi più di 30 chilometri dal proprio luogo di nascita. Quelli che si sono spostati di più, cioè noi, sono solo l'1%. Anche questo è un fenomeno molto recente e la maggioranza delle persone non ne soffrirà, poi ci saranno sempre i grandi viaggiatori alla Marco Polo.
Ne è certo?
È stata la pubblicità a creare il turismo di massa. In ogni modo, con la fine del petrolio, non ci sarà il traffico aereo di oggi, i trasporti costeranno sempre di più, andranno meno veloce. Muoversi sarà sempre più difficile.
E a livello fiscale?
Bisognerebbe introdurre una tassazione diretta e progressiva. Che può arrivare anche al 100%, se i redditi superano un certo livello. E poi una tassazione sul sovraconsumo dei beni comuni. A partire dall'acqua.
Quindi meno lavoro e più agricoltura. Per ottenere cosa?
Un mondo di abbondanza frugale.
Cioè?
Una società capace di non creare bisogni inutili, ma di soddisfarli. E per soddisfarli, bisogna limitarli.
Le sembra possibile, quando gli operai cinesi si suicidano per un iPad?
In una società sana non esiste questa forma di patologia dell'insoddisfazione. Ci può essere una forma di seduzione, ma non un'insoddisfazione permanente. Questo fenomeno è esacerbato dalla pubblicità.
Cioè?
Ci convince che siamo insoddisfatti di ciò che abbiamo, per farci desiderare ciò che non abbiamo.
Vorrebbe spazzare via il marketing?
Una delle prime misure della società della decrescita riguarda la pubblicità: non si tratta di cancellarla, perché non siamo terroristi, ma di tassarla fortemente, questo sì.
Con che motivazione?
È lo strumento di una gigantesca manipolazione, il veicolo della colonizzazione dell'immaginario.
E la finanza che rappresenta il 10% del Pil britannico?
Penso che questa crollerà da sola. Sarebbe già successo se questi sciagurati di governi non avessero salvato le banche.
Che cosa intende?
È colossale quello che è stato fatto per le banche negli Usa: secondo l'Ocse, 11.400 miliardi di dollari di fondi pubblici sono stati destinati agli istituti di credito.
Se facciamo crollare le banche si affossa il sistema...
Sì, meglio così. Abbiamo bisogno che il sistema crolli.
E i cittadini?
Dobbiamo pensare a come riorganizzare il funzionamento della società. Ma bisogna ricordarsi che questo sistema così come lo conosciamo è piuttosto recente.
Quanto?
Non ha più di 30-40 anni, prima era un sistema capitalista, ma non funzionava su queste basi finanziarie.
Che misure bisognerebbe adottare?
Il primo passo, prima di rimettere in discussione l'intero sistema bancario, è cancellare il mercato dei futures: pura speculazione. Un economista francese, Friederic Lordon, ha anche proposto di chiudere le Borse. E non sarebbe un'idea stupida.
Che cosa succede alle società che ci lavorano? E ai dipendenti?
La situazione attuale è talmente tragica che possiamo affrontare con serenità anche un cambiamento difficile.
Nella società della decrescita circola denaro?
La moneta è un bene comune che favorisce lo scambio tra i cittadini. Ma se è un bene comune non deve essere privatizzata. Le banche sono degli enti privati. E allora dico sempre che noi vogliamo riappropriarci della moneta.
Come?
Magari partendo dai sistemi di scambio locali che utilizzano monete regionali. Come ha funzionato per due o tre anni in Argentina, dopo il crollo del peso.
E chi governa il commercio?
Diciamo che sarà necessario trovare un coordinamento tra le varie autonomie.
Ma nel suo modello ogni regione fa da sé?
Ogni Paese deve trovare la sua strada. Una volta che siamo riusciti a uscire dal mondo del pensiero unico, dell'homo oeconomicus, a una sola dimensione, allora ritroviamo la diversità. Ogni cultura ha il suo modo di concepire e realizzare la felicità.
Esistono già esperienze in questa direzione?
In Sud America sono sulla strada giusta. In Ecuador e Bolivia, ispirandosi alla cultura india, hanno inserito nella Costituzione il principio del buen vivìr: del buon vivere. Ma, con la crisi, la decrescita ha avuto un successo incredibile anche in Giappone.
Come mai?
I giapponesi stanno riscoprendo i valori del buddismo zen che si basa sul principio di autolimitazione. E sono convinto che la stessa cosa potrebbe succedere in Cina nei prossimi anni, anche attraverso il confucianesimo.
La Cina però è anche la più grande fabbrica del mondo...
Lì la crisi è già arrivata. La situazione cinese è bifronte: 200 milioni di abitanti hanno un livello di vita quasi occidentale e altri 700 milioni sono stati proletarizzati. Cacciati dalla terra, si accumulano nelle periferie delle metropoli, dove c'è un tasso di suicidi altissimo.
Ma l'economia continua comunque a crescere.
Anche il ministro dell'Ambiente cinese ha riconosciuto che se si dovesse sottrarre dal Pil di Pechino la quota di distruzione dell'ambiente questo calerebbe del 12%.
Come immagina la transizione?
Può avvenire spontaneamente, dolcemente. Ma anche in un modo violento.
Lei sogna la democrazia diretta? 
Se si deve prendere la parola sul serio, ha senso solo la democrazia diretta. Ma direi che su questo punto, recentemente, le mie idee sono cambiate.
In che direzione?
Prima immaginavo un'organizzazione piramidale con alla base piccole democrazie locali e delegati al livello superiore.
E ora?
Oggi penso che la democrazia sia un'utopia che ha senso come direzione. Ma la cosa importante è che il potere, quale che sia, porti avanti una politica che corrisponde al bene comune, alla volontà popolare, anche se si tratta di una dittatura o di un dispotismo illuminato.
Si spieghi meglio.
Norberto Bobbio si chiedeva quale è la differenza tra un buono e un cattivo governo. Il primo lavora per il bene comune. Il secondo lo fa per se stesso. Questa è la vera differenza.
Va bene, ma come si ottiene un buon governo?
Con un contropotere forte. Un sistema è democratico, non è la democrazia, attenzione, ma è democratico, quando il popolo ha la possibilità di fare pressione sul governo, qualunque esso sia, in modo da far pesare le proprie esigenze e idee.
Ma non sta rinnegando la democrazia?
L'ideale sarebbe naturalmente l'autogoverno del popolo, ma questo è un sogno che forse non arriverà mai.
Non pensa alla presa del potere?
Gandhi l'aveva spiegato a proposito del suo Paese: "Al limite gli inglesi possono restare a governare, ma allora devono fare una politica che corrisponde alla volontà dell'India. Meglio avere degli inglesi piuttosto che degli indiani corrotti". Mi sembrano parole di saggezza.
Sa che Silvio Berlusconi vuole tornare in politica?
Ah, lo so, ma lui è pazzo.
(G. Faggionato, 2012)

 

 

 

 


 
 

 

 
 Manifesto del "dopo sviluppo"

 
La corrente di pensiero che si riferisce alla decrescita ha conservato fino a oggi un carattere quasi confidenziale. Nel corso di una storia già lunga ha prodotto, ciò nonostante, una letteratura non disprezzabile che si trova rappresentata in numerosi campi di ricerca e d'azione nel mondo (1).
Nata negli anni sessanta, il decennio dello sviluppo, da una riflessione critica sui presupposti dell'economia e sul fallimento delle politiche di sviluppo, questa corrente riunisce ricercatori, attori sociali del Nord come del Sud portatori di analisi e di esperienze innovatrici sul piano economico, sociale e culturale. Nel corso degli anni si sono intrecciati dei legami spesso informali tra le sue diverse componenti e le esperienze e le riflessioni si sono mutuamente alimentate. Il movimento per la decrescita s'inscrive dunque nel più ampio movimento dell'International Network for Cultural Alternatives to Development (INCAD) e si riconosce pienamente nella dichiarazione del 4 maggio 1992. Intende proseguire e ampliare il lavoro così cominciato. Il movimento mette al centro della sua analisi la critica radicale della nozione di sviluppo che, nonostante le evoluzioni formali conosciute, resta il punto di rottura decisivo in seno al movimento di critica al capitalismo e della globalizzazione. Ci sono da un lato quelli che, come noi, vogliono uscire dallo sviluppo e dall'economicismo e, dall'altro, quelli che militano per un problematico "altro" sviluppo (o una non meno problematica "altra" globalizzazione). A partire da questa critica, la corrente procede a una vera e propria "decostruzione" del pensiero economico. Sono pertanto rimesse in discussione le nozioni di crescita, povertà, bisogno, aiuto ecc. Le associazioni e i membri della presente rete si riconoscono in tale impresa. Dopo il fallimento del socialismo reale e il vergognoso scivolamento della socialdemocrazia verso il social-liberalismo, noi pensiamo che solo queste analisi possano contribuire a un rinnovamento del pensiero e alla costruzione di una società veramente alternativa alla società di mercato. Rimettere radicalmente in questione il concetto di sviluppo è fare della sovversione cognitiva, e questa è la condizione preliminare del sovvertimento politico, sociale e culturale.
Il momento ci sembra favorevole per uscire dalla semiclandestinità dove siamo stati relegati finora e il grande successo del colloquio di La ligne d'horizon (2), "Défaire le développement, refaire le monde", che si è tenuto presso l'UNESCO dal 28 febbraio al 3 marzo 2002, rafforza le nostre convinzioni e le nostre speranze. Rompere l'immaginario dello sviluppo e decolonizzare le menti di fronte alla globalizzazione, che non è altro che il trionfo planetario del mercato, bisogna concepire e volere una società nella quale i valori economici non siano più centrali (o unici). L'economia dev'essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo.
Bisogna rinunciare a questa folle corsa verso un consumo sempre maggiore. Ciò non è solo necessario per evitare la distruzione definitiva delle condizioni di vita sulla Terra ma anche e soprattutto per fare uscire l'umanità dalla miseria psichica e morale. Si tratta di una vera decolonizzazione del nostro immaginario e di una diseconomicizzazione delle menti indispensabili per cambiare davvero il mondo prima che il cambiamento del mondo ce lo imponga nel dolore. Bisogna cominciare con il vedere le cose in altro modo perché possano diventare altre, perché sia possibile concepire soluzioni veramente originali e innovatrici. Si tratta di mettere al centro della vita umana altri significati e altre ragioni d'essere che l'espansione della produzione e del consumo.
La parola d'ordine della rete è dunque "resistenza e dissidenza". Resistenza e dissidenza con la testa ma anche con i piedi. Resistenza e dissidenza come atteggiamento mentale di rifiuto, come igiene di vita. Resistenza e dissidenza come atteggiamento concreto mediante tutte le forme di autorganizzazione alternativa. Ciò significa anche il rifiuto della complicità e della collaborazione con quella impresa dissennata e distruttiva che costituisce l'ideologia dello sviluppo.
Illusioni e rovine dello sviluppo. La attuale globalizzazione ci mostra quel che lo sviluppo è stato e che non abbiamo mai voluto vedere. Essa è lo stadio supremo dello sviluppo realmente esistente e nello stesso tempo la negazione della sua concezione mitica. Se lo sviluppo, effettivamente, non è stato altro che il seguito della colonizzazione con altri mezzi, la nuova mondializzazione, a sua volta, non è altro che il seguito dello sviluppo con altri mezzi. Conviene dunque distinguere lo sviluppo come mito dallo sviluppo come realtà storica.
Si può definire lo sviluppo realmente esistente come una impresa che mira a trasformare in merci le relazioni degli uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e umane. Progetto aggressivo verso la natura e verso i popoli, è -come la colonizzazione che la precede e la mondializzazione che la segue- un'opera al tempo stesso economica e militare di dominazione e di conquista. È lo sviluppo realmente esistente, quello che domina il pianeta da tre secoli, che causa i problemi sociali e ambientali attuali: esclusione, sovrappopolazione, povertà, inquinamenti diversi ecc. Quanto al concetto mitico di sviluppo, è nascosto in un dilemma: da una parte, esso designa tutto e il suo contrario, in particolare l'insieme delle esperienze storiche e culturali dell'umanità, dalla Cina degli Han all'impero degli Inca. In questo caso non designa nulla in particolare, non ha alcun significato utile per promuovere una politica, ed è meglio sbarazzarsene. Dall'altra parte, esso ha un contenuto proprio, il quale designa allora necessariamente ciò che possiede in comune con l'avventura occidentale del decollo dell'economia così come si è organizzata dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800. In questo caso, quale che sia l'aggettivo che gli si affianca, il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione del capitale con tutti gli effetti positivi e negativi che si conoscono. Ora, questo nucleo centrale che tutti gli sviluppi hanno in comune con tale esperienza, è legato a rapporti sociali ben particolari che sono quelli del modo di produzione capitalistico.
Gli antagonisti di "classe" sono ampiamente occultati dalla pregnanza di "valori" comuni ampiamente condivisi: il progresso, l'universalismo, il dominio della natura, la razionalità quantificante. Questi valori sui quali si basa lo sviluppo, e in particolare il progresso, non corrispondono affatto ad aspirazioni universali profonde. Sono legati alla storia dell'Occidente e trovano scarsa eco nelle altre società. Al di fuori dei miti che la fondano, l'idea di sviluppo è totalmente sprovvista di senso e le pratiche che le sono legate sono rigorosamente impossibili perché impensabili e proibite. Oggi questi valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in discussione per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo ed evitare le catastrofi verso le quali l'economia mondiale ci trascina. Il "dopo sviluppo" è al contempo postcapitalismo e postmodernità.
I nuovi aspetti dello sviluppo. Per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dello sviluppo, siamo entrati nell'era dello sviluppo aggettivato. Si è assistito alla nascita di nuovi sviluppi autocentranti, endogeni, partecipativi, comunitari, integrati, autentici, autonomi e popolari, equi... senza parlare dello sviluppo locale, del microsviluppo, dell'endosviluppo, dell'etnosviluppo! Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si tratta veramente di rimettere in discussione l'accumulazione capitalistica; tutt'al più si pensa di aggiungere un risvolto sociale o una componente ecologica alla crescita economica come un tempo si è potuto aggiungerle una dimensione culturale. Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo riguarda, in effetti, sempre più o meno la cultura, la natura e la giustizia sociale. In tutto ciò si tratta di guarire un male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. Per l'occasione è stato addirittura creato uno spauracchio, il malsviluppo. Questo mostro è solo una chimera, poiché il male non può colpire lo sviluppo per la buona ragione che lo sviluppo immaginario è per definizione l'incarnazione stessa del bene. Il buon sviluppo è un pleonasmo perché lo sviluppo significa buona crescita, perché anche la crescita è un bene contro il quale nessuna forza del male può prevalere. È l'eccesso stesso delle prove del suo carattere benefico che meglio rivela la frode dello sviluppo.
Lo sviluppo sociale, lo sviluppo umano, lo sviluppo locale e lo sviluppo durevole non sono altro che gli ultimi nati di una lunga serie di innovazioni concettuali tendenti a far entrare una parte di sogno nella dura realtà della crescita economica. Se lo sviluppo sopravvive ancora lo deve soprattutto ai suoi critici! Inaugurando l'era dello sviluppo aggettivato (umano, sociale ecc.), gli umanisti canalizzano le aspirazioni delle vittime dello sviluppo del Nord e del Sud strumentalizzandoli. Lo sviluppo durevole è il più bel successo di quest'arte di ringiovanimento di vecchie cose. Esso illustra perfettamente il procedimento di eufemizzazione mediante aggettivo. Lo sviluppo durevole, sostenibile o sopportabile (sustainable), portato alla ribalta alla Conferenza di Rio del giugno 1992, è un tale "fai da te" concettuale, che cambia le parole invece di cambiare le cose, una mostruosità verbale con la sua antinomia mistificatrice. Ma nello stesso tempo, con il suo successo universale, attesta la dominazione della ideologia dello sviluppo. Ormai la questione dello sviluppo non riguarda soltanto i paesi del Sud, ma anche quelli del Nord.
Se la retorica pura dello sviluppo con la pratica legata dell'espertocrazia volontarista non ha più successo, il complesso delle credenze escatologiche in una prosperità materiale possibile per tutti e rispettosa dell'ambiente resta intatto. L'ideologia dello sviluppo manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. Non c'è posto in questo paradigma per il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto dell'uomo reclamato dagli umanisti. Lo sviluppo realmente esistente appare allora nella sua verità. E lo sviluppo alternativo come un miraggio.
Oltre lo sviluppo. Parlare di "dopo sviluppo" non è soltanto lasciar correre l'immaginazione su ciò che potrebbe accadere in caso di implosione del sistema, fare della fantapolitica o esaminare un problema accademico. È parlare della situazione di coloro che attualmente al Nord come al Sud sono esclusi o sono in procinto di diventarlo, di tutti coloro, dunque, per i quali il progresso è un'ingiuria e una ingiustizia, e che sono indubbiamente i più numerosi sulla faccia della Terra. Il "dopo sviluppo" si delinea già tra noi e si annuncia nella diversità. Il "dopo sviluppo", in effetti, è necessariamente plurale. Si tratta della ricerca di modalità di espansione collettiva nelle quali non sarebbe privilegiato un benessere materiale distruttore dell'ambiente e del legame sociale. L'obiettivo della buona vita si declina in molti modi a seconda dei contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire nuove culture. Questo obiettivo può essere chiamato l'humran (crescita/rigoglio) come in Ibn Khald'n, swadeshi-sarvo-daya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, o bamtaare (stare bene assieme) come dicono i toucouleurs, o in altro modo. L'importante è esprimere la rottura con l'impresa di distruzione che si perpetua sotto il nome di sviluppo oppure, oggi, di mondializzazione. Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, può trattarsi soltanto di una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Queste creazioni originali di cui si possono trovare qua e là degli inizi di realizzazione aprono la speranza di un "dopo sviluppo". Bisogna al tempo stesso pensare e agire globalmente e localmente. È solo nella mutua fecondazione dei due approcci che si può tentare di sormontare l'ostacolo della mancanza di prospettive immediate. Il "dopo sviluppo" e la costruzione di una società alternativa non si declinano necessariamente nello stesso modo al Nord e al Sud. Proporre la decrescita conviviale come uno degli obiettivi globali urgenti e identificabili attualmente e mettere in opera alternative concrete localmente sono prospettive complementari.
Decrescere e abbellire. La "decrescita" dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l'ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente viventi dell'umanità.
La "decrescita" non significa un immobilismo conservatore. La saggezza tradizionale considerava che la felicità si realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L'evoluzione e la crescita lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre adattata ai vincoli naturali. Organizzare la "decrescita" significa, in altre parole, rinunciare all'immaginario economico, vale a dire alla credenza che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura con una certa austerità nel consumo materiale.
La parola d'ordine della "decrescita" ha soprattutto come fine il segnare con fermezza l'abbandono dell'obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui movente non è altro che la ricerca sfrenata del profitto per i detentori del capitale. Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel raccomandare la "decrescita" per la decrescita. In particolare, la "decrescita" non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nel disordine con riferimento alla disoccupazione e all'abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può immaginare quale catastrofe sarebbe un tasso di crescita negativa! Allo stesso modo non c'è cosa peggiore di una società lavoristica senza lavoro e, peggio ancora, di una società della crescita senza crescita. La "decrescita" è dunque auspicabile soltanto in una "società di decrescita". Ciò presuppone tutt'altra organizzazione in cui il tempo libero è valorizzato al posto del lavoro, dove le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti inutili o nocivi. La riduzione drastica del tempo dedicato al lavoro, imposta per assicurare a tutti un impiego soddisfacente, è una condizione preliminare.
Ispirandosi alla carta su "consumi e stili di vita" proposta al Forum delle ONG di Rio, è possibile sintetizzare il tutto in un programma di sei "R": rivalutare, ristrutturare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare(5). Questi sono i sei obiettivi interdipendenti un circolo virtuoso di decrescita conviviale e sostenibile. Rivalutare significa rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, nonché cambiare i valori che devono essere cambiati. Ristrutturare significa adattare la produzione e i rapporti sociali in funzione del cambiamento dei valori. Per ridistribuire s'intende la ridistribuzione delle ricchezze e dell'accesso al patrimonio naturale. Ridurre vuol dire diminuire l'impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare. Per fare ciò bisogna riutilizzare gli oggetti e i beni d'uso invece di gettarli e sicuramente riciclare i rifiuti non compressibili che produciamo. Tutto ciò non è necessariamente antiprogressista e antiscientifico. Si potrebbe, nello stesso tempo, parlare di un'altra crescita in vista del bene comune, se il termine non fosse troppo alternativo.
Noi non rinneghiamo la nostra appartenenza all'Occidente, di cui condividiamo il sogno progressista, sogno che ci ossessiona. Tuttavia, aspiriamo a un miglioramento della qualità della vita e non a una crescita illimitata del PIL. Reclamiamo la bellezza delle città e dei paesaggi, la purezza delle falde freatiche e l'accesso all'acqua potabile, la trasparenza dei fiumi e la salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell'aria che respiriamo, del sapore degli alimenti che mangiamo. C'è ancora molta strada da fare per lottare contro l'invasione del rumore, per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvatiche, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell'umanità, senza parlare dei progressi da fare nella democrazia. La realizzazione di questo programma è parte integrante dell'ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate alcune delle quali sono ancora da inventare. Sarebbe ingiusto tacciarci come tecnofobi e antiprogressisti con il solo pretesto che reclamiamo un "diritto di inventario" sul progresso e sulla tecnica. Questa rivendicazione è un minimo per l'esercizio della cittadinanza.
Semplicemente, per i paesi del Sud, colpiti in pieno dalle conseguenze negative della crescita del Nord, non si tratta tanto di decrescere (o di crescere, d'altra parte), quanto di riannodare il filo della loro storia rotto dalla colonizzazione, dall'imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico, economico e culturale. La riappropriazione delle loro identità è preliminare per dare ai loro problemi le soluzioni appropriate. Può essere sensato ridurre la produzione di certe colture destinate all'esportazione (caffè, cacao, arachidi, cotone ecc., ma anche fiori recisi, gamberi di allevamento, frutta e verdure come primizie ecc.), come può risultare necessario aumentare la produzione delle colture per uso alimentare. Si può pensare inoltre a rinunciare all'agricoltura produttivista come al Nord per ricostituire i suoli e le qualità nutrizionali, ma anche, senza dubbio, fare delle riforme agrarie, riabilitare l'artigianato che si è rifugiato nell'informale ecc.
Spetta ai nostri amici del Sud precisare quale senso può assumere per loro la costruzione del "dopo sviluppo".In nessun caso, la rimessa in discussione dello sviluppo può ne deve apparire come una impresa paternalista e universalista che la assimilerebbe a una nuova forma di colonizzazione (ecologista, umanitaria...) Il rischio è tanto più forte in quanto gli ex colonizzati hanno interiorizzato i valori del colonizzatore. L'immaginario economico, e in particolare l'immaginario dello sviluppo, è senza dubbio ancora più pregnante al Sud che al Nord. Le vittime dello sviluppo hanno la tendenza a non vedere altro rimedio alle loro disgrazie che un aggravarsi del male. Penano che l'economia sia il solo mezzo per risolvere la povertà quando è proprio lei che la genera. Lo sviluppo e l'economia sono il problema e non la soluzione; continuare a pretendere e volere il contrario fa parte del problema. Una "decrescita" accettata e ben meditata non impone alcuna limitazione nel dispendio di sentimenti e nella produzione di una vita festosa o addirittura dionisiaca.
Sopravvivere localmente. Si tratta di essere attenti al reperimento delle innovazioni alternative: imprese cooperative in autogestione, comunità neorurali, LETS e SEL (3), autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze che noi intendiamo sostenere o promuovere ci interessano non tanto per se stesse, quanto come forme di resistenza e di dissidenza al processo di aumento della mercificazione totale del mondo. Senza cercare di proporre un modello unico, noi ci sforziamo di realizzare in teoria e in pratica una coerenza globale dell'insieme di queste iniziative. Il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative è, in effetti, di chiudersi nella nicchia che hanno trovato all'inizio invece di lavorare alla costruzione e al rafforzamento di un insieme più vasto. L'impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è e dev'essere diverso dal mercato mondializzato.
È questo ambiente dissidente che bisogna definire, proteggere, conservare, rinforzare sviluppare attraverso la resistenza. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la propria nicchia nell'ambito del mercato mondiale, bisogna militare per allargare e approfondire una vera società autonoma ai margini dell'economia dominante. Il mercato mondializzato con la sua concorrenza accanita e spesso sleale non è l'universo dove di muove e deve muoversi l'organizzazione alternativa. Essa deve cercare una vera democrazia associativa per sfociare in una società autonoma. Una catena di complicità deve legare tutte le parti. Come nell'informale africano, nutrire la rete dei "collegati" è la base del successo. L'allargamento e l'approfondimento del tessuto di base è il segreto del successo e deve essere il primo pensiero delle sue iniziative. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema. Al Nord, si pensa prima ai progetti volontari e volontaristici di costruzione di mondi differenti. Alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo in cui vivono, tentano di mettere in atto qualcos'altro, di vivere altrimenti: di lavorare o di produrre altrimenti in seno a imprese diverse, di riappropriarsi della moneta anche per servirsene per un uso diverso, secondo una logica altra rispetto a quella dell'accumulazione illimitata e dell'esclusione massiccia dei perdenti. Al Sud, dove l'economia mondiale, con l'aiuto delle istituzioni di Bretton Woods, ha cacciato dalle campagne milioni e milioni di persone, ha distrutto il loro modo di vita ancestrale, soppresso i loro mezzi di sussistenza, per gettarli e stiparli nelle bidonvilles e nelle periferie Terzo mondo, l'alternativa è spesso una condizione di sopravvivenza.
I "naufraghi dello sviluppo", abbandonati a loro stessi, condannati nella logica dominante a scomparire, non hanno scelta per restare a galla che organizzarsi secondo un'altra logica. Devono inventare, e almeno alcuni inventano effettivamente, un altro sistema, un'altra vita. Questa seconda forma dell'altra società non è totalmente separata dalla prima, e ciò per due ragioni. Innanzitutto, perché l'autorganizzazione spontanea degli esclusi del Sud non è mai totalmente spontanea. Ci sono aspirazioni, progetti, modelli, o anche utopie che informano più o meno questi "fai da te" della sopravvivenza informale. Poi, perché, simmetricamente, gli "alternativi" del Nord non sempre hanno possibilità di scegliere. Anch'essi sono spesso degli esclusi, degli abbandonati, dei disoccupati o candidati potenziali alla disoccupazione, o semplicemente degli esclusi per disgusto... Ci sono dunque possibilità di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente. Questa coerenza d'insieme realizza un certo modo, certi aspetti che François Partant attribuiva alla sua proposta centrale:dare a dei disoccupati, a dei contadini rovinati e a tutti coloro che lo desiderano la possibilità di vivere del loro lavoro, producendo, al di fuori dell'economia di mercato e nelle condizioni da loro stessi determinate, ciò di cui ritengono di aver bisogno (4).
Rafforzare la costruzione di tali altri mondi possibili passa per la presa di coscienza del significato storico di queste iniziative. Numerose sono già state le riconquiste da parte delle forze dello sviluppo delle imprese alternative isolate, e sarebbe pericoloso sottovalutare le capacità di recupero del sistema. Per contrastare la manipolazione e il lavaggio del cervello permanente a cui siamo sottoposti, la costruzione di una vasta rete sembra essenziale per condurre la battaglia del buon senso. (Serge Latouche, 2006)
 
 
Note
1 Il numero speciale della rivista "L'Écologiste", Défaire le développement, refaire le monde (II, n.4, inverno 2001-02), fa il punto sulla questione.
2 La ligne d'horizon. Les amis de François Partant, 7 villa Bourgeois, 92240 Malakoff.
3 Rispettivamente Local Exchange Trading System (Gran Bretagna) e Systèmes d'échanges locaux (Francia): sistemi di scambi locali di beni e servizi che non ricorrono al denaro, come le banche del tempo.
4 F. Partant, La ligne d'horizon, La Découverte, Paris 1988, p. 206
5. Divenute successivamente le "8 R", vedi intervista.

 

 

 

 

 

 

 

 


 
 

 

 
Intervista 2

 
Considerando quanto sta avvenendo negli ultimi anni, quale rapporto esiste tra l'attuale struttura del potere e i processi della decrescita?

Su questi temi, cioè sulla relazione tra decrescita e Stato, e più in generale tra decrescita e politica, sono stati scritti molti articoli negli ultimi mesi, perché dentro il movimento della decrescita in Francia da tempo ci sono dibattiti su questi argomenti. Anch'io ho scritto un saggio che mi ha richiesto molto lavoro, perché confesso che su questo problema le mie idee non erano chiare. Certo ho scritto spesso sul ruolo dello Stato e sulla politica. Ma alcuni mi hanno accusato, soprattutto persone vicine alle culture e ai movimenti anarchici, di aspettare dallo Stato la realizzazione della decrescita. Allora ho capito che la cosa sbagliata che scrivevo era "la decrescita è un progetto politico". Penso che la formula non sia felice. La decrescita è un progetto sociale, non un progetto politico, Lenin aveva un progetto politico. Tutti quelli che hanno un progetto politico vogliono realizzarlo, per questo la tradizione rivoluzionaria, soprattutto in America latina, resta legata alla presa del potere. Pensiamo a quando il subcomandante Marcos e le comunità zapastiste hanno preso San Cristóbal de las Casas, in Chiapas, il 1° gennaio 1994: la prima cosa che hanno detto è stato: "Non vogliamo prendere il potere perché sappiamo che se prendiamo il potere saremo presi dal potere". Per questo penso che avere un progetto politico sia diverso dall'avere un progetto sociale. Un progetto di una società alternativa deve essere pensato concretamente in funzione del luogo, della cultura dove il movimento agisce, ma il problema è che ha a che fare anche con il potere. Naturalmente è una buona cosa, se alcuni nostri amici diventano deputati, ministri, consiglieri ma sappiamo bene che qualsiasi politico è sempre sottomesso alla pressione dei grandi poteri, non esiste un governo buono...
Per queste ragioni penso che non dobbiamo fare un partito politico per la decrescita e partecipare alle elezioni. In alcuni casi possiamo sostenere dall'esterno un certo programma, oppure un partito, ma il movimento deve essere sempre un contropotere, un gruppo di pressione anche con il più cattivo dei poteri. Perfino quando la pressione è forte possiamo ottenere qualcosa, come dimostra la vicenda degli accordi di Cochabamba sull'acqua, ottenuti nonostante in Bolivia allora, nel 2000, ci fosse un potere quasi fascista. Quel potere fu costretto ad ascoltare la protesta che chiedeva la cancellazione del contratto con la multinazionale Bechtel. Una grande vittoria. Perciò la strategia deve essere quella dei piccoli passi avanti, anche quando il potere cambia, come nella stessa Bolivia in cui oggi è presidente Evo Morales: la pressione deve essere mantenuta anche contro Morales. Insomma, credo che i movimenti della decrescita oggi debbano mantenere questo spirito di contropotere di ispirazione gandhiana.
Non dico che tutti i partigiani della decrescita condividono questa visione, per esempio alcuni miei amici propongono di non votare più alle elezioni, io invece sono favorevole. Naturalmente sappiamo bene che dalle elezioni non uscirà mai un governo buono; se per caso ci fosse un governo di nostalgici diventerebbe subito un cattivo governo. Su questo punto ho cambiato idea nel tempo: prima condividevo l'idea del mio amico Cornelius Castoriadis, che aveva un progetto politico, la democrazia radicale, che lui credeva possibile costruire... Oggi, invece, credo che quello possa essere soltanto un orizzonte di senso, che non si realizzerà mai. Tuttavia, dobbiamo cercare di realizzarlo ogni giorno. Non possiamo aspettare il cambiamento o la democrazia radicale per agire: dobbiamo utilizzare tutti i mezzi e agire al livello più basso, più concreto, dove si possono fare le cose.
Hai conosciuto esperienze in giro per il mondo che consideri particolarmente valide come strategie per la decrescita?
Non esiste un'esperienza che si può etichettare come la vera esperienza della decrescita, della società frugale o della prosperità senza crescita. Quando ad esempio tre anni fa abbiamo incontrato quelli della Conai, la Confederazione delle comunità indigene dell'Ecuador, a Bilbao, abbiamo capito come la loro concezione del buen vivir è esattamente il progetto della decrescita, se pur in un contesto diverso e nonostante il coinvolgimento dei governi locali. In ogni caso penso che il progetto delle Transition Town dell'amico Robert Hopkins, che ha partecipato con me alla Conferenza internazionale sulla decrescita di Venezia, sia l'esperienza che a livello locale realizza meglio ciò che per me corrisponde al progetto della decrescita: sviluppare la resilienza, ridurre l'impronta ecologica, ritrovare l'autonomia alimentare ed energetica. A un livello più limitato credo che il movimento dei Gruppi di acquisto solidale e il loro corrispondente giapponese, quello dei Teikei, che letteralmente significa "il cibo che ha la faccia del contadino", piuttosto che alcune esperienze della Rete francese delle imprese alternative e solidali, siano esperienze che vanno nella direzione del progetto della decrescita.
Se avessimo il potere e la capacità di suggerire delle strategie per la decrescita, cosa bisognerebbe fare tra le cose più urgenti?
Questo è un esercizio di politica virtuale, me lo hanno chiesto anche i verdi greci cosa fare adesso... Credo che la cosa più importante oggi sia cercare di realizzare il programma concettuale delle otto "R", rivalutare, ridefinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare, la cui priorità è sintetizzabile con la riduzione dell'impronta ecologica. Ma tra le prime cose da fare c'è la necessità di dare lavoro: per questo ho proposto un programma che poggia su tre piedi rilocalizzare, riconvertire e ridurre. Rilocalizzare l'attività produttiva significa demondializzare e questo implica avere i mezzi per farlo, tra cui l'autonomia finanziaria monetaria. Occorre pensare anche a una politica protezionista: il libero scambio è il protezionismo più forte dei predatori e allora dobbiamo fare un protezionismo dei deboli e progetti di conversione ecologica. La riconversione più importante è quella dell'agricoltura: dobbiamo uscire dall'agricoltura produttivista e sostenere un'agricoltura senza pesticidi e concimi chimici. Su questi temi vengono pubblicati sempre più libri e documentari interessanti. Il film-documentario Maison du future, ad esempio, è stato pensato in Francia dopo un dibattito alla televisione, nel quale Josè Bovè contestava due esperti di agricoltura secondo i quali è impossibile nutrire il mondo senza Ogm, pesticidi e concimi chimici: gli autori hanno girato il mondo per raccontare esperienze alternative che dimostrano come l'agricoltura più produttiva, e non più produttivista, è quella contadina. Quel film sarà presentato in diversi paesi nei prossimi mesi, dall'India ai paesi latinoamericani. Un altro documentario molto interessante è Solutions locales pour un désordre global, di Coline Serreau, un regista francese molto bravo, che ha messo insieme esempi di coltivazioni alternative dal Brasile all'India, dalla Francia all'Ucraina.
Il progetto delle otto "R" è piuttosto chiaro, ma molti continuano a temere che la decrescita sia soprattutto sinonimo di rinuncia, di ritorno al passato...
È importante far capire alle persone che non si tratta di rinunciare alla lavatrice ma di avere una buona lavatrice, che non siamo obbligati a buttarla ogni due anni per comprarne una nuova, perché subito qualcosa non funziona più. La stessa cosa con il computer. Quelli nuovi sono più veloci? Allora si devono progettare e diffondere, come si faceva all'inizio, computer modificati ai quali aggiungere qualcosa per farli progredire. Un'esperienza importante di questo tipo è quella della Rank Xerox, con le sue fotocopiatrici pensate come dei moduli che si possono prendere e rinnovare. La Rank Xerox oggi vende più servizi di fotocopiatura e meno fotocopiatrici, di cui si prende cura nel tempo. Gettare oggetti pensati per durare poco è un'assurdità, io ho già buttato tre computer. È uno spreco di risorse incredibile. Si può concepire un computer che si può migliorare, che si può riparare e alla fine si può riciclare. Questo discorso vale per tutti i nostri strumenti, è la dimostrazione che si deve ancora sviluppare, si deve pensare la struttura produttiva del futuro meno come industria pesante è più come insieme di piccole imprese, ma anche singoli artigiani che lavorano per il riciclo e riuso, per le riparazioni.
Agricoltura, riuso e riciclo, sostenibilità... Alcuni dicono che sono pezzi di un processo, quella della green economy, con il quale il capitalismo si trasforma per sopravvivere. Quali pericoli vedi nella green economy?
Non uso mai l'espressione green economy perché resta nell'orizzonte del capitalismo e questo è un problema. Ho molti amici che non hanno capito oppure non condividono il mio punto di vista quando dico "si deve uscire dall'economia". Il problema è la parola "economia", vale a dire il capitalismo, verde va bene ma economia no, al massimo potremmo dire "vogliamo una società verde". Naturalmente questo significa che si deve ancora produrre e consumare ma non più nella logica economica, utilitarista e quantitativa. È un discorso complesso e difficile da far capire, per questo molto spesso lo lascio dire ai miei amici nel parlare di altra economia, lo accetto come un compromesso. Ma in fondo tutto il mio lavoro, la mia ricerca, il mio pensiero, comincia dal contestare l'invenzione dell'economia, un'invenzione teorica, storica e semantica, dalla quale dobbiamo uscire. Il progetto della decrescita implica l'uscita dall'economia. Allora il discorso dell'economia verde è effettivamente ambiguo: se produciamo pannelli solari a livello industriale, inquinando, come avviene in alcuni casi, siamo di fronte al green business, e questo non può far parte della nostra ricerca.
A proposito di nuova ricerca: c'è il tema del lavoro che sembra ancora poco esplorato. Abbiamo la sensazione che serva una critica più profonda del concetto di lavoro che è stato finora il volano dello sviluppo, cioè del capitalismo. Cosa ne pensi? Come si organizza il lavoro in una fase di transizione come quella attuale?
La riduzione degli orari di lavoro, che è nel progetto della decrescita, è anche un compromesso, una misura transitoria. È un compromesso che può aiutarci ad affrontare il problema della disoccupazione, cioè una prima soluzione è lavorare meno per lavorare tutti. Questo è un punto sul quale non dobbiamo transigere. Ma è importante ridurre gli orari di lavoro anche perché l'obiettivo, l'orizzonte di senso, resta la democrazia diretta. Che si nutre anche di trasformazione del lavoro, propone, come obiettivo di lungo periodo, di abolire il lavoro salariato. Insomma, non si può più riprendere il discorso della nobiltà del lavoro quando si fa un lavoro di merda alla cassa di un supermercato... Dobbiamo smettere di pensare a creare posti di lavoro qualsiasi. Dobbiamo prima di tutto mettere al centro il valore dell'autonomia e per questo la forma cooperativa è un orizzonte di senso, è qualcosa che aiuta. Ma anche in questo caso dobbiamo essere consapevoli dei limiti. Lo dimostra pure una mia piccola esperienza: abbiamo voluto fare una cooperativa, una casa editrice sotto forma di cooperativa, ma ho capito subito che sarebbe stato molto difficile, che non poteva funzionare, perché non tutte le persone vogliono essere cooperatori, ci sono alcuni che preferiscono avere il salario, avere un orario di lavoro e basta. Si può capire. Si deve rispettare questo. E allora il problema è che nell'ingranaggio di una società salariale non per tutti è importante la cooperativa. Di certo, resta importante oggi reinventare il lavoro in settori come l'agricoltura biologica e il riciclo e riuso, esistono già esperienze importanti ma restano una nicchia.
La crisi è sufficiente per favorire nuovi stili di vita? Un esempio: quando è scoppiata la crisi in Argentina, dieci anni fa, si sono diffusi i mercati del trueque, cioè il baratto, insieme ad alcune esperienze di moneta locale e alle fabbriche recuperate, ma quando è ripresa la crescita quei mercati e quelle monete sono stati spazzati via...
Non conosco bene quanto accaduto in Argentina, ma è evidente che in quel caso l'uso per un certo periodo di monete complementari o alternative, quasi su scala nazionale, è stato possibile perché la crisi aveva toccato la borghesia, la piccola borghesia. Quando la moneta nazionale è tornata come prima, quell'esperienza è terminata. Nel frattempo gli operai che si erano impossessati di alcune imprese hanno continuato a lavorare in quel modo. Non solo non potevano più tornare indietro, ma speravano in una trasformazione sociale profonda. Ora sembra che in Grecia sia diverso: c'è infatti un incontro tra coloro che subiscono l'austerità e coloro che hanno avviato progetti di decrescita. Qualcosa di simile accade anche in alcune città della Spagna. Allora dobbiamo essere coscienti che la crisi è al tempo stesso un disastro, perché può favorire forme di vero fascismo, ma anche un'opportunità. In Francia, ad esempio, la politica ha totalmente cancellato qualsiasi progetto di alternativa e qualsiasi dibattito sulla decrescita. "Siate seri, siamo in crisi", dicono, "non è il momento di parlare di queste cose". Un bel modo per rendere invisibile un desiderio diverso di cambiamento. (R.Troisi, A.Castagnola, A.Goni Mazzitelli, C.Budoni, 2012)

 

 

 

 


 
 


 

Non possiamo pretendere che le cose cambino,
se continuiamo a fare le stesse cose.
La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni,
perché la crisi porta progressi.
La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura.
E' nella crisi che sorge l'inventiva,
le scoperte e le grandi strategie.
Chi supera la crisi, supera sé stesso senza essere 'superato'.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà,
violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni.
La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza.
L'inconveniente delle persone e delle nazioni
è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita.
Senza crisi non ci sono sfide,
senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia.
Senza crisi non c'è merito.
E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno,
perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze.
Parlare di crisi significa incrementarla,
e tacere nella crisi è esaltare il conformismo.
Invece, lavoriamo duro.
Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa,
che è la tragedia di non voler lottare per superarla.
 
 
Albert Einstein