November 2012. Jim & Sebastiao.

 

 

 

 

La fotografia come documento,
come testimonianza,
come linguaggio per raccontare i drammi,
le tragedie umane.
Per mostrare anche a chi non vuole vedere.
Per raccontare anche a chi non vuole sentire.
Di fronte ad una fotografia,
non si può non ascoltare,
non si può far finta di non vedere,
non si può non sentire la voce che la fotografia rivela
attraverso l'immagine che la compone.
 
 
Andrea Tognoli

 

 

 

 

 

Salgado, Ciad 1995

 

 

 

 

 

Nachtwey, Repubblica Democratica del Congo

 

 

 

 

 

Salgado, Brasile 1985

 

 

 

 

 

Nachtwey, Filippine

 

 

 

 

 

Salgado, Etiopia 1984

 

 

 

 

 

Nachtwey, Palestina 2000

 

 

 


Dedico "el mestée del mes" a due fotografi -James Nachtwey e Sebastiao Salgado- che considero oltre che straordinari artisti nel loro mestiere, semplicemente "uomini" nel senso nobile e compiuto della accezione. Uomini perché sono stati, e lo sono tuttora, capaci di eccellere ai massimi livelli professionali senza dimenticare l'impegno civile, senza mai rinchiudersi nella propria torre d'avorio ma continuando a essere in prima linea a testimoniare al mondo, a denunciare iniquità e violenza, con una netta scelta di campo, affinché l'umanità possa, se ne avesse volontà, scegliere un futuro migliore. E questo impegno assiduo, coerente e assoluto, trasuda a fiotti dalle loro immagini, veicolato da una sublime tecnica creativa, operativa, compositiva, maniacale nella ricerca della perfezione.
Le loro foto rappresentano certamente momenti di realtà, che, soprattutto per la maggior parte dei temi affrontati, implicano necessari approfondimenti storico-culturali, alfine di intenderne contestualizzazione, corretta lettura e comprensione. Non è pensabile darne una lettura limitata al rapporto occhio-immagine, come potrebbe essere per altre opere di artisti della fotografia, che rappresentano tematiche diverse. Quale è, almeno secondo il mio sentire, la differenza tra le foto di Nachtwey e Salgado?
Non sono un critico fotografico, per cui da semplice fruitore esteta-emozionale di immagini, vedo Nachtwey molto più crudo, spietatamente realista, fautore di una comunicazione visiva inevitabilmente violenta, senza concessioni estetiche o di bellezza, testimone oculare tout court della sofferenza umana. Nachtwey è il vero fotografo di guerra, anche se talvolta concede alla sua Canon soggetti diversi. Salgado, invece, premesso che solo in minor parte è testimone di eventi di guerra, spazia professionalmente su molteplici temi, lo vedo più poetico, suggestivo, liricamente realista, creatore e propositore di immagini esteticamente inimitabili, più "visivamente accessibile". Direi, sempre premettendo l'arte, il talento naturale di fondo, che mentre Nachtwey è più strumento dell'occhio, Salgado lo è dell'anima, anche se forse non riesco a fare intendere appieno tale personale considerazione.
Una doverosa premessa: per comprensibili motivi di limitata disponibilità sul web di loro foto, di impossibilità di riproduzione per alcune delle stesse, per altre di limitata riproduzione nelle dimensioni e di modesta qualità di definizione, le immagini riportate ne "el mestée del mes" non rendono appieno tecnica, intensità, creatività, espressività, del loro mestiere.
Se vuoi veramente meravigliarti, appassionarti, emozionarti, straziarti(in taluni casi) di fronte alle loro immagini, seguine le mostre o sfogliane i libri.

 

 

 

 

 

Nachtwey, New York 2001

 

 

 

 

 

Salgado, Brasile 1986

 

 

 

 

 

Nachtwey, Darfur

 

 

 

 

 

Salgado, Rwanda 1991

 

 

 

 

 

Nachtwey, Pakistan 2001

 

 

 

 

 

Salgado, Ecuador 1982

 

 

 


Jim è fotografo di guerra e della violenza dell'uomo sull'uomo, diretta, in campo aperto, o nelle istituzioni "totali" (manicomi, carceri, orfanotrofi, ospedali del terzo mondo)create ad hoc. E' l'occhio che vede, che ritrae per chi non vuole chiudere gli occhi, girarsi dall'altra parte, dimenticare. E' l'occhio di chi vuole sapere, senza mediazioni, senza omertose o interessate censure, accettando duri colpi allo stomaco, talvolta commuovendosi sino al pianto. E' l'occhio di chi dopo alcune immagini a una sua mostra si siede piangendo su una panca nel mezzo del percorso, o sfogliando un suo libro, lo richiude perché non ce la fa più sfatto dal dolore e dalla rabbia.
La sua testimonianza è dedicata a chi non vuole solo la narrazione letteraria, il reportage immediato, ma ha la forza e il coraggio di "vedere", perché un'immagine può avere maggiore valenza di un intero libro e può farti capire molto di più, e molto più rapidamente, di centinaia di pagine o migliaia di parole. Tra le poche foto disponibili e riproducibili, ho scelto le meno crude, spietate, tragiche, sia per me che confesso, non riesco, sarà l'età, più a reggere, sia per te, riducendo purtroppo alquanto il valore dell'opera di Nachtwey.
Integro la documentazione fotografica con la proposizione di "War Photographer"(2001), documentario pluripremiato e candidato all'Oscar del regista svizzero Christian Frei, che ha seguito per un paio d'anni Nachtwey nel suo lavoro di reportage. Il regista è giunto al punto di fissare una mini-camera sull'apparecchio fotografico di Nachtwey per far combaciare il più possibile l'asse della propria cinepresa con lo sguardo del suo protagonista. Il documentario ci dice poco dell'uomo, tanto della sua opera, immensamente dei problemi che solleva.
Comunque, se vuoi un consiglio per conoscerlo più profondamente, puoi acquistare i suoi libri, tra i quali eccelle "Inferno", andare alle sue mostre o ricercare qualche testimonianza video sul web.

 

 

 

 

per vedere il docufilm clicca sull'immagine

 

 

 

 

 

 

Nachtwey, Rwanda 1994

 

 

 

 

 

Nachtwey, Afghanistan 1996

 

 

 

 

 

Nachtwey, Cecoslovaccia 1990

 

 

 

 

 

Nachtwey, Nicaragua 1984

 

 

 

 

 

Nachtwey, Sudan 1993

 

 

 

 

È il corpo umano, il protagonista delle fotografie di James Nachtwey: il corpo nella sua terribile e impensabile deformabilità fisica, nelle mutilazioni e nelle cicatrici mai soverchianti però il messaggio interiore degli occhi, se non quando la vita l'abbia già abbandonato. Poi verranno l'informazione, la denuncia. Ma per primo a noi tocca l'impatto con l'immagine plastica di corpi violati nella loro sacralità, ridotti troppo facilmente a materiale, carne, ossa. Accade così che certe sue istantanee a colori paiano quadri della pittura classica, chiaroscuri in movimento con dentro la tragedia di un Caravaggio, piuttosto che documenti di cronaca. Nella cronaca del Male, nel mistero con cui si misura chiunque voglia rappresentarlo, troviamo infatti la specifica grandezza del fotoreporter di guerra più famoso del mondo. (Contrasto, presentazione de "L'occhio testimone", 1999)

 

 

 

 

 

Nachtwey, Afghanistan

 

 

 

 

 

Nachtwey, Haiti 2010

 

 

 

 

 

Nachtwey, Bosnia 1993

 

 

 

 

 

Nachtwey, El Salvador 1984

 

 

 


C'è sempre stata la guerra: La guerra infuria in tutto il ora. E non c'è motivo di credere che la guerra cesserà di esistere nel futuro. Dato che l'uomo è diventato sempre più civilizzato, i suoi mezzi di distruzione del suo simile sono diventati ancora più efficienti, crudeli, devastanti. E' possibile porre fine, con la fotografia, a una forma di comportamento umano che è esistita in tutta la storia? Le proporzioni di questa affermazione sembrano ridicolmente squilibrate. Tuttavia, proprio quell'idea mi ha motivato.
Per me, la forza della fotografia sta nella sua capacità di evocare un senso di umanità. Se la guerra è un tentativo di negare l'umanità, allora la fotografia può essere concepita come l'opposto della guerra e se usata bene può essere un ingrediente potente nell'antidoto alla guerra. In un certo senso se una persona assume il rischio di mettersi nel bel mezzo di una guerra per comunicare al resto del mondo ciò che accade, egli sta cercando di negoziare in favore della pace. Forse è la ragione per la quale quelli che sono responsabili di perpetuare la guerra non amano avere fotografi attorno. Mi è capitato di pensare che se tutti potessero essere proprio là una volta per vedere coi loro occhi che cosa il fosforo bianco fa alla faccia di un bambino o che indicibile sofferenza è causata dall'impatto con una sola pallottola o come un frammento seghettato di granata può recidere la gamba di qualcuno, se tutti potessero essere là per vedere coi propri occhi la paura e il dolore solo una volta, allora capirebbero che non vale affatto la pena di lasciare che le cose arrivino al punto in cui ciò accada a una sola persona, per non parlare di migliaia.
Ma non tutti possono essere là, ed ecco perché i fotografi sono là per fare loro vedere, per raggiungerli, afferrarli e far loro interrompere quello che stanno facendo, e dedicare attenzione a ciò che succede, per dare vita a fotografie abbastanza potenti da sconfiggere gli effetti annacquanti dei mezzi di comunicazione di massa, e scuotere le persone al di là della loro indifferenza per protestare, e con la forza di quella protesta, fare si che altri protestino. La peggiore cosa è sentire che come fotografo posso trarre beneficio dalla tragedia di qualcun altro. Questa idea mi tormenta.
E' qualcosa con cui debbo fare i conti ogni giorno, perché so che se mai permettessi alla mia sincera compassione di essere sopraffatta dall'ambizione personale avrei venduto la mia anima. La posta è semplicemente troppo alta per me per pensare in un altro modo. Cerco di diventare il più possibile responsabile di fronte al soggetto. L'atto di essere uno che viene da fuori e che punta una macchina fotografica può essere una violazione dell'umanità. Il solo modo in cui io posso giustificare il mio ruolo è di avere rispetto per la situazione difficile dell'altra persona. La misura in cui io faccio ciò è la misura in cui divento accettato dall'altro, e la misura in cui io posso accettare me stesso. (James Nachtwey, 1985)

 

 

 

 

 

Nachtwey, Giappone 2011

 

 

 

 

 

Nachtwey, Cecenia

 

 

 

 

 

Nachtwey, New York 2001

 

 

 

 

 

Nachtwey, Afghanistan 1996

 

 

 

 

 

Nachtwey, Indonesia

 

 

 

 

Quale poteva essere la "sua" arma per combattere contro la guerra, per dichiarare la sua totale ripulsa a quelle infinite sofferenze inflitte a molti per i retaggi di odio, gli interessi economici o i sogni di gloria di pochi? Lui scelse, consapevolmente, la fotografia, e cominciò ad immergersi nel cuore delle tenebre del mondo. Lo fece sia per documentare quegli orrori, per darne testimonianza e conservarne la memoria, che per fare toccare con mano -o, se più correttamente si vuole, con gli occhi-, che quando si varca il limite dell'oltraggio e della negazione dell'umano, la dignità e l'umanità proprie di ciascuna persona non soccombono, mai possono essere cancellate -anche nelle condizione estreme di degrado, di umiliazione e di sottomissione, o nella imminenza della perdita della vita-, ma ci gridano in faccia tutto il valore di ciò che è e resta umano, e che solo delittuosamente viene dimenticato e calpestato. Le immagini di Nachtwey non sono, tuttavia, solo intrise di una umanità e di una compassione severa, non di quella falsa, dolciastra pietà che evita di fare vedere gli orrori per paura che qualcuno si turbi, ma sono vere e proprie opere d'arte. Basta guardare i suoi tagli, spesso inconsueti, quando inquadra l'immagine senza la testa di una persona in primo piano, giacché quel volto non conta, ma contano invece un volto e un corpo che giacciono dietro, già giunti o prossimi all'esito finale. Basta vedere il modo in cui compone l'immagine, con un'ansia di essere vicino, quasi fisicamente toccare, la persona che soffre, le sue ferite fisiche e morali, di scrutare dentro quegli occhi che ci guardano e chiedono solidarietà, o solo esprimono un orrore e uno smarrimento di cui spesso quella persona non riesce a comprenderne le ragioni. Basta, infine, seguire la maestria dei suoi accordi tonali: le foto in bianco e nero, e quelle a colori, che virano dall'intensità satura alla levità dell'aria, quasi a rendere il senso di un'atmosfera in cui tra terra e cielo si dà una assoluta continuità. (Sandro Parmiggiani, 2004)

 

 

 

 

 

Nachtwey, Iraq 2003

 

 

 

 

 

Nachtwey, Afghanistan 1996

 

 

 

 

 

Nachtwey, Haiti 2010

 

 

 

 

 

Nachtwey, Palestina 2000

 

 

 

 

Sebastiao è multiformità espressiva, poliedricità creativa: la sua ricerca e il suo impegno spaziano dalle guerre, ai diritti dei lavoratori, dalla povertà agli effetti dell'economia nei Paesi in via di sviluppo, dai profughi, emarginati, alle carestie, sino a giungere in questi ultimi anni al progetto Genesi, che affronta il tema della difesa e conservazione dell'ambiente.
La sua opera ha come attore l''uomo", ritratto, come detto, in diverse condizioni, periodi della vita, in diversi contesti ambientali, storici, sociali, tanto da essere stato definito il più grande fotografo "umanista", interprete assoluto di un "neorealismo globalizzato".
La vera forza di Salgado è la straordinaria unione tra il contenuto dei suoi reportage e la perfezione formale e compositiva del suo lavoro. Il linguaggio fotografico è legato all'estetica, un linguaggio scritto con la luce; il valore plastico che lo contraddistingue, non è mai fine a se stesso e diventa mezzo per informare, per provocare emozioni, discussioni, dibattiti. La forza delle immagini restituisce un'idea forte, un racconto che arriva "dentro" alle cose e viene narrato a tutti coloro che vogliono intenderlo. Le sue foto, i suoi libri, le sue mostre sono universalmente conosciute e pluripremiate. Con le sue Leica M, R, Pentax 645, e, ultimamente Canon per il digitale, ci ha donato immagini così emozionanti da lasciare stupiti. Come per Nachtwey, nella proposta di immagini ho escluso le foto più crude e drammatiche.

 

 

 

 

 

Salgado, Etiopia 1985

 

 

 

 

 

Salgado, Italia

 

 

 

 

 

Salgado, Brasile

 

 

 

 

 

Salgado, Kuwait

 

 

 


Le foto in mostra ci descrivono un mondo in cui il lavoro sfruttato non ha mai avuto differenze e confini ed è stato un antesignano della globalizzazione. Il lavoro dell'uomo che costruisce e modifica il mondo ha sempre avuto, lui solo purtroppo, il via libera da un confine all'altro come avviene tuttora nonostante le attuali ipocrisie politiche che da un lato condannano l'immigrazione e dall'altro la sfruttano. Tutto questo traspare (urlante) dalle foto di Salgado che parlano la contemporaneità in modo diretto, estetico, nel senso delle "cose stesse" che esse descrivono, fanno conoscere e denunciano, come l'arte deve fare. E infatti non si riesce a riscontrare, come sempre nell'arte degna di questo nome, alcun indugio estetizzante nell'autore che utilizza il mezzo fotografico come un pennello o uno scalpello per costruire dei simboli; simboli che attengono alla presenza dell'uomo nel mondo, unico essere che per viverci deve dannarsi con il lavoro, per sfamarsi, per ripararsi, per riscaldarsi, per difendersi dal "dialogo" con la natura e soprattutto con i suoi simili; il tutto con le sue mani come sottolinea il titolo dato alla mostra, "La mano dell'uomo". "Il mondo, oggi, scrive Christian Caujolle nella presentazione del catalogo edito da Contrasto, è del tutto interdipendente. E se si trasforma è al prezzo di sacrifici e dell'eterna tensione tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri. Il mondo che Sebastiao Salgado ci restituisce, si collega a quello degli autori di murales messicani, affonda le radici in un Ottocento di industrializzazione e sfruttamento, che ha visto anche la comparsa delle teorie marxiste". (Roberto Pacchioli, presentazione della mostra "La mano dell'uomo", Colonnella, 2010)

 

 

 

 

 

Salgado, Botswana

 

 

 

 

 

Salgado, Algeria

 

 

 

 

 

Salgado, India

 

 

 

 

 

Salgado, Brasile

 

 

 

 

 

Salgado, Etiopia 2008

 

 

 


"Sono prima di tutto un giornalista e un fotoreporter. Vorrei quindi che le persone guardassero alle mie foto non come oggetti d'arte, ma come una sorta di veicolo di realtà lontane che ho avuto modo di toccare con mano. Le mie fotografie hanno il compito di influenzare e provocare la discussione nella società in cui vivo, di stimolare il confronto delle idee. Le mie foto hanno un messaggio preciso, raccontano le storie della parte più nascosta della società". (Sebastiao Salgado)

 

 

 

 

 

Salgado, India

 

 

 

 

 

Salgado

 

 

 

 

 

 Salgado, Vietnam

 

 

 

 

 

Salgado, Kuwait

 

 

 

 

 

Salgado, Etiopia 1984

 

 

 


Il mondo è in pericolo. Questo grido d'allarme è tanto frequente da essere in gran parte ignorato. Il nostro rapporto con la natura è andato perduto. Viviamo sotto la minaccia di un disastro ambientale: inconcepibili arsenali di armi nucleari possono essere utilizzati in guerre o attentati terroristici, l'agricoltura industrializzata decima gli habitat naturali, i prodotti chimici avvelenano il suolo e le falde acquifere, le foreste tropicali scompaiono. Solo nelle zone incontaminate la biodiversità è ancora florida. In questo mondo primigenio possiamo ancora capire le origini della nostra specie. È lì che cerco i volti incontaminati della natura e dell'umanità: e come siano per lungo tempo riuscite a coesistere in un equilibrio ambientale. Il mio progetto nasce dalle ricerche fotografiche dei miei precedenti libri ma nasce anche da un'iniziativa intrapresa con mia moglie, Lélia Deluiz Wanick, per riforestare 600 ettari di terra in Brasile. Ho chiamato questo progetto Genesi perché il mio obiettivo è tornare alle origini del pianeta: all'aria, all'acqua e al fuoco da cui è scaturita la vita, alle specie animali che hanno resistito all'addomesticamento, alle remote tribù dagli stili di vita "primitivi" e ancora incontaminati, agli esempi esistenti di forme primigenie di insediamenti e organizzazione umani.
Le fotografie sono divise in quattro capitoli
1. La creazione.
Per la prima volta ho deciso di realizzare una serie di foto di paesaggio dall'alto con l'ausilio di un aereo o un elicottero. Visiterò le foreste tropicali dell'Amazzonia, del Congo, dell'Indonesia e della Nuova Guinea; andrò in Antartide e nel sud dell'Argentina e del Cile, nelle terre artiche, nella taiga dell'Alaska e nella tundra siberiana; nei deserti di Cile, Perù, Messico e Stati Uniti, in Namibia, nel Sahara, in Arabia, Cina e Australia; dalle montagne di Canada e Bolivia a quelle di Russia, Cina e Italia.
2. L'arca di Noè.
Non voglio ritrarre animali rari in isolamento ma imparare a "conoscerli" vivere con loro, capirli come potrei capire la mia famiglia. Ho vissuto nelle Galápagos tra tartarughe giganti, iguana e leoni marini, e li ho ritratti in pace, in naturale armonia con i vulcani, la nebbia e gli oceani. Il mio scopo è sollecitare consapevolezza sulla necessità di proteggere e salvaguardare tutte le cose viventi e il mondo che le ospita.
3. I primi uomini.
Nelle regioni incontaminate si possono ancora trovare popolazioni indigene che hanno conservato forme di vita tradizionali. Questi luoghi sono gli ultimi angoli della Terra in cui possiamo ritrovare gli echi delle nostre origini. Cercherò di capire come i nostri predecessori coesistevano con i vari elementi, con la flora e la fauna.
4. Le prime società.
Quando le tribù primitive divennero consapevoli del mondo esterno, l'umanità passò velocemente a quel genere di conflitti per la sopravvivenza che ho trattato in 30 anni di fotografia. Alcune forme primigenie di organizzazione però sopravvivono ancora oggi, come ad esempio tra i pascoli del Sudan meridionale, dove i nomadi Dinca riuniscono le mandrie nelle stagioni secche, o tra gli indios Huichol del Messico occidentale, nel loro pellegrinaggio annuale verso oriente. (Sebastiao Salgado. Nota:Genesi è un grande progetto fotografico che Sebastião Salgano sta portando avanti e che concluderà prossimamente).

 

 

 

 

 

Salgado, Algeria

 

 

 

 

 

Salgado, Antartide

 

 

 

 

 

Salgado, Etiopia

 

 

 

 

 

Salgado, Argentina

 

 

 

 

 

Salgado, Mongolia

 

 

 

 

 

"The photographer as activist", conversazione tra Salgado, Ken Light, docente alla UC Berkeley Graduate School of Journalism, Fred Ritchin, critico fotografico, 2005.

 

 

 

 

Queste fotografie non hanno la pretesa di rivelare il cosiddetto continente "reale", bensì di indicare gli elementi di complessità e la profonda ambivalenza che caratterizzano le diverse Afriche. Il mio continente vive in una situazione praticamente unica: le generazioni viventi sono coeve alla costruzione delle fondamenta delle nazioni. Vale a dire le fondamenta della propria identità. Ciascuna nazione è un argomento che interessa tutti, un'urgenza non più rinviabile dalla quale a nessuno è consentito alienarsi. Tutti sono complici di questa infanzia, tutti lasciano un segno in un ritratto ancora in gestazione.
In questa dinamica la fotografia scopre infiniti modi per rendere testimonianza non solo dell'Africa, ma anche dell'Uomo e del suo sogno errante. Il fotografo è pioniere in un continente nel quale ogni cosa rischia di essere nuova, talmente recente che, per nominarla, occorre prendere in prestito vocaboli da altre lingue. In questi luoghi ci sono persone che inaugurano la propria immagine nell'esatto momento in cui debuttano anche come cittadini, come forieri della propria modernità. La fotografia, che in altre circostanze potrebbe risultare banale, conquista qui una dimensione di arte magica. Il fotografo non è il manipolatore di una tecnica ormai familiare. E' uno stregone, un creatore di realtà che, prima che lui arrivasse a renderle visibili, non erano passibili di osservazione.
Ecco il risultato di questa magia: qui sono riuniti i ritratti dell'Uomo che sperimenta i limiti della propria condizione, qui sono esposte le gravissime mutilazioni e infermità causate dalla guerra, dalla fame, dalla malattia. Ma queste flagranze di miseria non sono un appello alla commiserazione. Aleggia su tutte queste immagini un'altra dimensione, l'epopea dei popoli che si scoprono adolescenti. Salgado conferma il potere magico dell'immagine: svelare i multipli sensi di ciò che accade, liberare il tutto che avrebbe potuto esserci in ciò che, semplicemente, è stato. (Mia Couto, postfazione a "Africa", 2007)

 

 

 

 

 

Salgado, Sudan

 

 

 

 

 

Salgado, Namibia

 

 

 

 

 

Salgado, Botswana

 

 

 

 

 

Salgado, Zambia

 

 

 

 

 

Salgado, Mali

 

 

 

 

Queste fotografie continueranno a vivere ben oltre i loro soggetti e l'autore,
poiché attestano la nuda verità e l'occulto splendore del mondo.
La macchina fotografica di Salgado si sposta nell'oscurità violenta,
cerca la luce, la insegue furtivamente.
La luce scende dal cielo o scaturisce dentro di noi?
L'istante della luce intrappolata, quello splendore,
nelle fotografie ci rivela ciò che non è visto,
ciò che è stato visto ma è passato inosservato:
una presenza non percepita, una poderosa assenza.
Ci mostrano che, nascosti nel dolore della vita e nella tragedia della morte,
vi sono una possente magia e un luminoso mistero
in grado di redimere l'avventura umana nel mondo.
 
 

Eduardo Galeano