Genar 2021. Migranti dell’Era Glaciale.
Per "el mestée del mes" ho stralciato un capitolo da un libro interessantissimo che sto leggendo: "Culture dimenticate" di Harald Haarmann (2020), che ipotizza con argomentazioni interdisciplinari la migrazione dell'uomo nel periodo da 23.000 a 19.000 anni fa dall'Europa al nord America. Harald Haarmann è fra i più accreditati linguisti a livello internazionale. Autore di oltre quaranta libri e numerosi saggi, tradotti in dieci lingue, ha insegnato Storia culturale, Evoluzione linguistica e Archeomitologia in Europa, in Asia e in America. Ha ricevuto il Prix Logos dell'Association européenne des linguistes di Parigi, il Premio Jean Monnet e il Plato Award.
Possibili rotte percorse dai cacciatori dell'era glaciale nell'Oceano Atlantico.
L'uomo anatomicamente moderno aveva già occupato tutti gli altri continenti prima di arrivare in America, ultima tappa della sua grande migrazione su scala globale. Stando alla cronologia convenzionale, l'uomo raggiunse il continente nordamericano 15.000 anni fa. Ciò vuol dire che i primi coloni erano cacciatori dell'era glaciale che seguirono i mammut lungo lo stretto di Bering, arrivando in Alaska. All'epoca il livello degli oceani era molto più basso di quello attuale e lo stretto di Bering, il passaggio tra il Pacifico settentrionale e il Mar Glaciale che oggi divide la Siberia dall'America, era terraferma. Il bassopiano della Beringia univa Asia e Nord America in un unico continente.
Gli studiosi concordano nell'affermare che l'America è stata raggiunta dall'Asia orientale. Il periodo relativamente "tardo" (circa 13.000 a.C.) si riferisce alla presenza all'interno del continente nordamericano, mentre per l'arrivo dell'uomo nella regione nord-occidentale, l'Alaska, occorre tornare indietro di alcune migliaia di anni. Grazie alla datazione di reperti e resti di animali cacciati, si può supporre che sul lato occidentale (siberiano) della Beringia l'uomo praticasse la caccia già 27.000 anni fa, e che circa 24.000 anni fa si spinse fino al lato orientale, in Alaska (Gruhn e Bryan, 2011, p.18). Come si spiegano allora le discrepanze tra la datazione relativa all'Alaska e quella relativa alle zone interne del continente nordamericano?
Durante l'era glaciale, i primi "americani" rimasero pressoché bloccati in Alaska per diverse migliaia di anni, senza riuscire a penetrare all'interno del continente. Nel periodo di massima glaciazione, infatti, le due grandi calotte di ghiaccio, quella occidentale (Cordilleran Ice Sheet) e quella orientale (Laurentide Ice Sheet), si erano unite impedendo il passaggio a sud. Fu solo 12.000 anni fa, quando le masse di ghiaccio cominciarono a sciogliersi, che si aprì un passaggio da cui gli uomini poterono arrivare a sud dei ghiacciai. La conquista dei territori del continente nordamericano, secondo l'approccio tradizionale, inizia dunque soltanto dopo l'era glaciale.
Quando però si ha a che fare con gli albori della storia dei paleoamericani, con la loro eredità materiale e con le loro culture e lingue, presto o tardi si comincia a provare un certo disagio nel muoversi all'interno dello schema concettuale convenzionale.
In primo luogo, ci sono i caratteristici utensili in pietra (soprattutto lame) associati alla cultura Clovis (dal nome di un sito archeologico nel New Mexico). Le lame venivano montate come punte sulle estremità delle lance o degli arpioni e i ritrovamenti più antichi risalgono a circa 13.000 anni fa (Waters e Stafford, 2007; Kilby, 2011). La curiosità di queste lame, con un taglio simmetrico su entrambi i lati, è che in assenza di stadi di lavorazione precedenti la loro particolare tecnica sembra comparire dal nulla nell'area sud-occidentale del continente nordamericano. Il che non solo è strano, ma anche irrealistico.
Punte di Clovis dal sito di Rummells-Maske Cache(Iowa).
Per la tecnologia della cultura Clovis non è rintracciabile alcun prototipo lungo la rotta che i paleoamericani percorsero da nord-ovest (dall'Alaska) verso sud. Né gli utensili in pietra ritrovati in Siberia o nell'Asia orientale presentano caratteristiche che permettano di identificarli come antesignani della cultura Clovis, secondo la sequenza cronologica "Siberia - Alaska - territori interni del Nord America". Esistono invece utensili in pietra più antichi (proto-Clovis), che però non sono stati rinvenuti nella zona sud-occidentale ma in quella orientale o sud-orientale del continente nordamericano.
Per quel che riguarda le lame simmetriche col taglio su due lati degli utensili proto-Clovis, un confronto con la produzione di utensili in Europa ci indica che questo tipo di oggetto era diffuso- nel periodo del solutreano (circa 25.000-16.500 anni fa). Come confermano gli scavi di Cactus Hill in Virginia, di Meadowcroft Rockshelter in Pennsylvania e di Miles Point nel Maryland, le lame della cultura Clovis portano avanti una tecnica di lavorazione conosciuta nell'Europa dell'era glaciale.
Ancora da chiarire rimangono, in secondo luogo, alcune caratteristiche genetiche dei paleoamericani (popolazione amerindia). Dall'Alaska alla Terra dei Fuochi sono diffusi in tutto cinque aplogruppi, chiamati A, B, C, D e X. Che gli uomini della Siberia siano emigrati anche in Alaska e nelle terre interne del Nord America è comprovato da precise caratteristiche (D9S1120 e 9RA) del pool genico che si ritrovano sia tra i paleoamericani, sia tra le popolazioni paleoasiatiche dei ciukci e dei coriachi (Schroeder et al., 2009).
L'aplogruppo X (più precisamente mtDNA X2) si presenta invece solo nella zona nord-orientale del continente nordamericano, mentre è assente nel pool genico di altre popolazioni paleoamericane (Gruhn e Bryan, 2011, p. 18). Questo gruppo X2 si trova invece nel pool genico degli europei e di gruppi etnici nel Nord Africa, nel Medio Oriente e nell'Asia centrale. Non si rintraccia però né nelle popolazioni storiche né in quelle più recenti dell'Asia orientale o della Siberia. Eppure, dovrebbe essere possibile rintracciare resti di X2 almeno in qualche gruppo etnico della Siberia, se la rotta che passava dallo stretto di Bering è stata l'unica porta di accesso verso l'America. Se l'aplogruppo X2 non arriva dall'Asia, da dove proviene e chi lo ha trasferito in America?
Un dato rilevante per questa questione è che l'aplogruppo X2 è documentato tra i gruppi etnici preistorici nella zona sud-occidentale della Francia o nella Spagna settentrionale (Balter, 2013), nonché nella più recente etnia dei baschi. I baschi sono lontani discendenti di quei proto-europei che vissero nell'Europa occidentale durante l'era glaciale. La loro eredità più "vistosa" sono le pitture rupestri nelle grotte paleolitiche (Lascaux, Pech-Merle, Chauvet, Altamira e altre).
Un terzo aspetto in cui riconosciamo uno sviluppo singolare e non ancora chiarito è quello del panorama linguistico dell'America settentrionale. Nella zona nord-orientale sono diffuse lingue le cui caratteristiche strutturali divergono in maniera sostanziale dalle altre lingue amerinde. Le lingue del nord-est rientrano, sul piano della genealogia, nella famiglia delle lingue algonchine. Le lingue di questa famiglia ancora superstiti (meno di trenta) contano poche migliaia o centinaia di parlanti. Sono il residuo di un panorama linguistico più ampio risalente al periodo precolombiano, che si estendeva fino alla regione dei Grandi Laghi (Goddard, 1992).
Tipica delle lingue algonchine è la marcatura del plurale degli oggetti numerabili con un formativo grammaticale (ad esempio napens "ragazzo": napens-ak "ragazzi"). Nella maggior parte delle altre lingue amerinde (le lingue dei paleoamericani) non è nota una differenziazione del numero, né una differenziazione del genere dei sostantivi. Le lingue algonchine però distinguono tra oggetti animati e inanimati, per cui alberi, tabacco, neve, abiti confezionati da pellicce animali, corpi celesti come sole e luna e altre cose rientrano nella categoria degli oggetti animati e ricevono una specifica marcatura grammaticale.
Caratteristica delle lingue algonchine è infine la loro struttura grammaticale polisintetica. In breve, numerose parole di queste lingue possiedono più di una radice. Si tratta di formazioni complesse, in cui le parole si presentano come composti e i formativi grammaticali (suffissi, prefissi), ma anche le congiunzioni, vengono a essi collegati. Ne derivano catene di parole anche molto lunghe, come questo esempio dalla lingua Fox: ka:hkihkinameske:nawote "se una freccia gli ferisce la pelle", che inizia con l'elemento ka:hkihk- "ferito" e termina con l'elemento -e ("se", come espressione di eventualità).
Per quanto riguarda le altre lingue indiane del Nord America, il polisintetismo è noto solo nelle lingue Inuit, diffusesi in America con una migrazione più tarda dalla Siberia, circa 9500 anni fa. A quell'epoca i parlanti delle lingue algonchine vivevano già da millenni nella zona nord-orientale e dunque il loro polisintetismo è molto più antico. Nel caso di un'occupazione continuativa del Nord America da Occidente, ci si aspetterebbe un'unitarietà maggiore nei rapporti di parentela tra le varie lingue (ovvero nella diramazione delle famiglie linguistiche) e nella struttura delle lingue amerinde.
Gli elementi peculiari delle lingue algonchine (il polisintetismo, la distinzione tra genere animato e inanimato nei sostantivi e la marcatura del numero) si concentrano in maniera sorprendente in una lingua europea le cui origini risalgono all'era glaciale: il basco (Trask, 1997).
Se si prova dunque a sistemare in una stessa cornice il puzzle di tutte queste singolarità -la tecnica della cultura Clovis, le particolarità genetiche e linguistiche- si arriva necessariamente a una domanda: c'è forse stata una migrazione dei cacciatori dell'era glaciale da est (Europa) verso ovest (Nord America) che finora non è stata presa in considerazione? E' pensabile che l'uomo abbia attraversato l'Oceano Atlantico durante la glaciazione? Finora siamo stati in grado di dimostrare che le coste orientali dell'America erano state esplorate da navigatori europei solo in epoca più tarda, grazie alla presenza documentata dei vichinghi sull'isola di Terranova nel Medioevo (Fitzhugh e Ward, 2000). Che l'uomo abbia attraversato l'Oceano Atlantico in epoca preistorica sembra pura fantascienza, ma forse solo a un primo sguardo.
Dennis J. Stanford dello Smithsonian National Museum e Bruce A. Bradley dell'Università di Exeter hanno colpito l'interesse della comunità scientifica con la loro ipotesi di una colonizzazione del Nord America durante l'era glaciale, dall'Europa occidentale. I due studiosi definiscono la finestra temporale con più precisione tra i 23.000 e i 19.000 anni fa. L'inizio di una deriva verso ovest passando dall'Atlantico settentrionale sarebbe da motivare con il fatto che alcuni gruppi di cacciatori dell'Europa glaciale si erano specializzati nella caccia delle foche. L'ipotesi che i cacciatori dell'era glaciale conoscessero anche la fauna marina è convincente, considerando che tra i motivi delle pitture rupestri dell'Europa occidentale si trovano anche foche e altri animali marini (Stanford e Bradley, 2012, p.142). La caccia alle foche può essere praticata con imbarcazioni semplici nelle acque vicine alle coste. L'Atlantico settentrionale era ricoperto da una spessa calotta di ghiaccio. I cacciatori si muovevano lungo il bordo esterno della calotta, dove arrivavano anche i branchi di foche. Ricerche paleobiologiche hanno dimostrato che nelle acque dell'Atlantico, su entrambi i lati, erano diffuse quattro specie di foche: Phoca hispida (foca degli anelli), Phoca groenlandica (foca della Groenlandia), Erignathus barbatus (foca barbata), Halichoerus grypus (foca grigia) (Phillips, 2014).
I cacciatori non avevano bisogno della terraferma perché le risorse alimentari arrivavano dal mare, mentre potevano piantare le loro tende sul ghiaccio ai bordi dell'acqua. Portavano con sé nelle loro imbarcazioni le aste per le tende, mentre il materiale per coprirle, le pelli di foca, veniva prodotto ogni volta di nuovo. I cacciatori non avevano bisogno di spingersi in mare aperto e non erano esposti ai movimenti della risacca. Se il tempo era buono, percorrevano longitudinalmente le acque lungo la calotta, se il tempo era cattivo, rimanevano nei loro alloggi provvisori sulla calotta. I cacciatori seguivano il sole, che ogni giorno disegnava un arco verso ovest. "Questa gente adattò le proprie tecnologie e il proprio stile di vita per sfruttare l'ambiente marino, e nel corso delle esplorazioni, che proseguirono per generazioni, alcuni di loro trovarono la strada, attraverso l'Atlantico settentrionale, per arrivare finalmente a toccare terra nella regione nord-orientale del Nord America" (Stanford e Bradley, 2012, p.247). Lo spostamento a ovest non fu una traversata intenzionale dell'Oceano Atlantico, quanto piuttosto il frutto dell'esplorazione di sempre nuove riserve di caccia ai margini dei ghiacci.
Di fronte a una rielaborazione così audace della cronologia relativa alle conquiste precolombiane in Nord America era inevitabile che si scatenasse un acceso dibattito scientifico. Agli studi di Stanford e Bradley è seguita una vera e propria ondata di pubblicazioni che si confrontavano con l'"ipotesi solutreana" (Balter, 2013; Raff e Bolnick, 2015; Straus et al., 2017). A opporsi all'ipotesi dell'attraversamento dell'Atlantico sono soprattutto gli studiosi della genetica umana. Se si seguono gli argomenti favorevoli o contrari in tale dibattito, si rinsalda l'impressione che la questione delle migrazioni dell'era glaciale non può trovare una risposta convincente se non si prendono in considerazione le posizioni di tutti gli ambiti scientifici coinvolti, cioè la genetica umana, l'archeologia, l'antropologia e la tipologia linguistica.
Le differenze nel pool genico dei paleoamericani -in particolare partendo dalla suddivisione dell'aplogruppo X2- permettono di individuare un raggruppamento in due linee d'origine (dual ancestry) (Raghavan, 2013), la cui spiegazione convincente è la stratificazione cronologica: le popolazioni con aplogruppo X2 vengono dall'Europa, quelle con aplogruppo X dall'Asia.
Per quanto riguarda gli aspetti linguistici, ridurre a pura casualità le analogie tra la struttura delle lingue algonchine e quella della lingua basca non avrebbe molto senso, proprio perché questo pacchetto di tecniche linguistiche non è isolato, ma sostenuto da corrispondenze in altri ambiti (profilo genetico, produzione degli utensili). A sua volta, la produzione di utensili della cultura solutreana rende comprensibile come la cultura Clovis abbia sviluppato le proprie tecnologie di fabbricazione. Senza gli stadi precedenti di un know-how proveniente dall'Europa, essa non troverebbe un solido fondamento.
Secondo l'ipotesi atlantica, dunque, la storia dell'occupazione dell'America si suddivide in due fasi dell'era glaciale:
(1) la fase iniziale dell'immigrazione (dall'Europa): solutreana (tra 23.000 e 19.000 anni fa circa);
(2) la fase tarda dell'immigrazione (dall'Asia): la connessione con l'Alaska attraverso la Beringia (da circa 24.000 anni fa); da lì, a seguire, il passaggio nelle zone interne dell'America del Nord (circa 11.500 anni fa).
I contatti con l'Alaska attraverso lo stretto di Bering proseguirono anche dopo l'era glaciale, e le successive ondate migratorie ebbero come meta il Canada e le pianure dell'America settentrionale. Una seconda migrazione di gruppi etnici dall'Asia verso l'Alaska (attraverso la Siberia orientale) ebbe luogo circa 11.000 anni fa. Da questa discendono gli americani na-dene, le cui lingue appartengono alla famiglia athabaska. Alle lingue na-dene appartengono anche alcune lingue isolate (etyak, tingi, haida) nella zona nord-occidentale del Nord America. Una terza migrazione è databile tra 10.000 e 9.000 anni fa, quando nell'America settentrionale arrivarono gli antenati degli aleuti e degli eschimesi (Haarmann, 2017, pp.45 sgg.).
I cacciatori dell'era glaciale provenienti dall'Europa si sistemarono in accampamenti lungo l'allora costa orientale dell'America. All'epoca il livello dell'Oceano Atlantico era più basso di oltre cento metri rispetto a oggi. Ciò vuol dire che tutti gli accampamenti dei cacciatori lungo la costa dell'era glaciale si trovano oggi sott'acqua, al largo dei fondali marini. Gli archeologi subacquei hanno ritrovato resti di ossa di animali cacciati all'epoca, ma a oggi gli insediamenti non sono stati localizzati. Cercare utensili in pietra nelle sabbie dei fondali marini è come cercare un ago in un pagliaio. Un tale ritrovamento sarebbe però il missing link tra l'industria di utensili del solutreano europeo, la cultura proto-Clovis del sud-est e la cultura Clovis del sud-ovest.
Attualmente abbiamo un unico indizio che rimanda ai viaggiatori dell'Atlantico e ai loro discendenti in relazione alla nascita della cultura proto-Clovis e si tratta di nuovo di un'impronta genetica. I cacciatori dell'era glaciale si sono spostati in primo luogo verso sud, lungo la costa, per poi penetrare nella terraferma in direzione ovest, passando per il Texas e arrivando fino al Nuovo Messico. I primi ritrovamenti di utensili della cultura Clovis si localizzano in una regione in cui si può dimostrare la presenza dell'aplogruppo X2. Questo dato va a favore dell'ipotesi che i tardi discendenti dei viaggiatori dell'Atlantico, che avevano custodito per generazioni il know-how tecnico dei loro antenati, continuarono a produrre utensili secondo tradizione anche nelle regioni occidentali in cui giunsero.
I discendenti delle popolazioni del nord-est e i discendenti dei migranti dal nord-ovest devono essere entrati in contatto nelle vaste terre del Nord America. Queste popolazioni, che inizialmente vissero separate, andarono poi a mescolarsi e dai processi di fusione etnica sorsero in seguito le culture amerinde. (Harald Haarmann, 2020)
Le zone attorno alla Beringia con i primi luoghi in cui si attesta la presenza dell'uomo.
“per aprire il documento clicca sulla locandina”