Febrar 2015. El Pepe.
L'ultima cosa che posso dire è che furono gli anni più belli della nostra vita.
Non abbiamo mai fatto i nostri interessi.
Abbiamo dato tutto.
E adesso viviamo in un esercizio di interrogazione periodica
con quel ragazzino che siamo stati a vent'anni.
Io non voglio fare a sessant'anni cose che mi sarei vergognato di fare a venti.
Voglio andarmene dalla vita senza amputare delle parti di me stesso.
Forse agli altri compagni succede la stessa cosa.
Lopez "El Negro"Mercao,
Tupamaro compagno di El Pepe
Se in una democrazia sono le maggioranze a dover decidere,
io credo che i governanti debbano vivere
come la maggioranza della popolazione, non come la minoranza.
Se la presidenza diventa una corte reale,
io sto offendendo l'anima della repubblica.
Mi sto dando al contrabbando feudale o monarchico.
Lasciatelo fare ai re.
Josè "El Pepe" Mujica
Non so come presentarvi "El Pepe", uomo straordinario a cui dedico "el mestée del mes". Non vorrei infatti dilungarmi in un prologo a rischio di retorica, indi lascio alla narrazione il compito, ma un profilo estremamente conciso è doveroso. El Pepe ha avuto una vita esemplare pienamente vissuta in coerenza e onestà, in una simbiosi perfetta tra essere, avere e dedizione a un ideale, agli altri. Un militante, un guerrigliero, un prigioniero politico, un dirigente politico, un parlamentare, un ministro, un presidente... il presidente impossibile. L'Uruguay è il suo paese. Nella mia gioventù un paese che è stato molto seguito perché animato da un movimento di lotta armata estremamente interessante contro una feroce dittatura: i Tupamaros. El Pepe era un Tupamaros.
Ora al termine del suo mandato presidenziale ne racconto, tramite reportage, opinioni, interviste, chi è stato, e chi è, come ha vissuto e come vive, chi sono i compagni sopravvissuti alla lotta armata che ancora lo circondano. Per chi volesse approfondire il tema, consiglio due libri: "Il presidente impossibile", di Angelucci-Tarquini, ed. Nova Delphi Libri, e "La felicità al potere", di Guraneri-Sgroi, ed. EIR. Inoltre a breve dovrebbe uscire un docufilm di Emir Kusturica su El Pepe.
Intervista di Al Jazeera
Mujica ha ricevuto giornalisti appena sceso dal trattore, senza la dentiera, con il pantalone arrotolato fino alle ginocchia e con una goccia di sudore che gli scende dal naso.
Mujica ha ricevuto giornalisti con una manata affettuosa e con questa frase: "Piantala di blaterare e vattene a lavorare, che di questo ha bisogno il paese".
Mujica ha ricevuto giornalisti, in giorni di campagna elettorale, con le scarpe di corda ma senza denti (beh, ha fatto intere conferenze stampa senza denti), giocando con la sua cagna storpia e facendosi tagliare i capelli da uno sconosciuto che era andato a chiedergli lavoro.
Mujica ha ricevuto giornalisti la stessa mattina delle elezioni presidenziali e li ha ricevuti in pigiama, con la barba lunga e con le gengive che rimuginavano quest'unica frase: "Nonostante il rumore, il mondo oggi non cambierà". (Josefina Licitra, 2014)
La causa è il modello di civilizzazione che abbiamo montato. E quello che dobbiamo cambiare è la nostra forma di vivere. Appartengo a un piccolo paese molto dotato di risorse naturali per vivere. Nel mio paese ci sono poco più di 3 milioni di abitanti. Ma ci sono anche 13 milioni di vacche, delle migliori al mondo. E circa 8 o 10 milioni di meravigliose pecore. Il mio paese è un esportatore di cibo, di latticini, di carne. E' una semipianura e quasi il 90% del suo territorio è sfruttabile. I miei compagni lavoratori, lottarono tanto per le 8 ore di lavoro. E ora stanno ottenendo le 6 ore. Ma quello che lavora 6 ore, poi si cerca due lavori; pertanto, lavora piú di prima. Perché? Perché deve pagare una quantità di rate: la moto, l'auto, e paga una quota e un'altra e un'altra e quando si vuole ricordare ... è un vecchio reumatico come me e la vita se n'è andata.
E allora uno si fa questa domanda: è questo il destino dell'uomo?
Queste cose che dico sono molto elementari: lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Deve essere a favore della felicità umana, dell'amore, della terra, delle relazioni umane, dell'attenzione ai figli, dell'avere amici, dell'avere il giusto, l'elementare. Precisamente. Perché è questo il tesoro più importante che abbiamo: la felicità. Quando lottiamo per l'ambiente, dobbiamo ricordare che il primo elemento dell'ambiente si chiama felicità umana.
El Pepe Mujica
dal discorso tenuto alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile Rio G20, Rio de Janeiro, 21 giugno 2012
Qual'è stato effettivamente il messaggio di Mujica? Cos'è stato il gesto-Mujica al di là delle strumentalizzazioni e delle facili apologie che si possono fare di quest'ometto? Mujica (e il suo Uruguay) hanno insegnato al mondo, forse per la prima volta, quale potrebbe essere la nuova strategia democratica attraverso cui combattere in maniera vincente, e dal di dentro, il capitalismo. Mujica ha infatti affascinato l'elettorato attraverso la sua genuina soddisfazione alternativa, attraverso l'esibizione della gioia infantile e fiera che ricava quotidianamente da una vita allegramente vissuta secondo valori totalmente rovesciati rispetto a quelli presupposti dal turbo-capitalismo. Mujica sembra felice di vivere con mille euro al mese... .
Il Presidente dell'Uruguay ha fatto venire voglia a tutti i suoi elettori di essere come lui, ha fatto sentire al proprio popolo che ci si può sentire dei re in una vita umile, che si può vivere con immensa soddisfazione una vita qualunque, banale, potremmo dire anche grigia, quasi di sussistenza.
È di questo che oggi abbiamo disperatamente bisogno: non tanto di nuovi eroi, quanto piuttosto di qualcuno che ci aiuti e ci provochi ad eroicizzare il tempo in cui viviamo, e noi stessi dentro di esso. Le cose non miglioreranno, la crisi è irreversibile, ma questo non può essere un buon motivo per odiare (silenziosamente) ogni giorno di più il nostro prossimo. La guerra tra poveri è iniziata, per fermarla dobbiamo capire che col nostro prossimo, anche con quel prossimo invisibile che siamo noi stessi, dobbiamo imparare a giocare il gioco di ricordarci a vicenda quanto le nostre vite "infami" siano più intense, eroiche e belle di quelle di coloro che si ingrassano mettendoci gli uni contro gli altri.
Abbiamo bisogno di raccontarci, e mostrarci a vicenda, che siamo più felici di quelli che si soddisfano con telefoni sempre più costosi, case sempre più grandi, rimborsi sempre più gonfiati, posizioni lavorative entusiasmanti, saune sempre più calde, mentre noi non abbiamo nulla. Dobbiamo imparare a non invidiare tutto questo, ma davvero. Abbiamo bisogno di reimparare a credere davvero che essere semplici e grigi è più bello che essere vincenti (e di successo) nel mondo del capitale.
Questa rivoluzione, questa sovversione della soddisfazione individuale è qualcosa che Mujica ha effettivamente innescato in Uruguay, qualcosa che possiamo iniziare a costruire anche qui. Ma tutto questo è qualcosa che può partire dal basso, soltanto dal basso, dal misto di fiera disperazione e complicità che tutti proviamo. (Andea Muni, 2014)
Abbiamo sacrificato i vecchi dei immateriali, e ora stiamo occupando il tempio del dio-mercato. Lui organizza la nostra economia, la nostra politica, le nostre abitudini e ci fornisce mutui e carte di credito che ci danno un'apparente felicità. Sembra che siamo nati solo per consumare e consumare, e che quando non possiamo più consumare abbiamo un senso di frustrazione, soffriamo la povertà e ci auto-marginalizziamo.
Non sono povero, poveri sono coloro che credono che io sia povero. Ho poche cose, sì, il minimo, ma solo per essere ricco. Voglio avere il tempo da dedicare alle cose che mi motivano. E se avessi un sacco di cose avrei dovuto dedicarmi a loro e non fare quello che davvero mi piace.
Questa è la vera libertà, l'austerità, il consumare poco. La casa piccola, per poter dedicare il tempo a quello che veramente piace. Altrimenti, dovrei avere un dipendente e dentro casa già ho una che mi aiuta. Se ho molte cose devo passare tempo a controllarle perché non me le portino via. No, tre piccoli pezzi mi bastano. Passiamo la scopa la vecchia e io, e subito, abbiamo finito. Dopo abbiamo il tempo per quello che realmente ci appassiona. Non siamo poveri.
José "El Pepe" Mujica
Da "The Guardian"
Mentre guido lungo il porto di Montevideo su un pick-up del governo per andare a intervistare il presidente uscente dell'Uruguay José Mujica, qualcosa mi colpisce fuori dal finestrino. È l'immagine che riflette i cambiamenti apportati da questo atipico leader dell'America Latina, capace di trasformare il piccolo Uruguay in una delle nazioni più progressiste sulla Terra, a pochi mesi di distanza dalla fine del suo mandato, che scade il prossimo marzo, e dopo cinque anni al potere.
Arrivando dall'Europa, quello che mi circonda sembra una distesa apparentemente infinita di giganteschi tubi metallici grigi, lunghi più di 30 metri, che rivestono le pale delle turbine eoliche. A breve, ciò permetterà all'Uruguay di soddisfare circa il 30 per cento del suo fabbisogno energetico attraverso fonti rinnovabili. "Mi raccomando, si ricordi di fare domande a Pepe su questo tema. È uno dei successi di cui va più fiero", afferma dal sedile anteriore l'addetto stampa del presidente, Joaquín Costanzo. Vista l'esigua popolazione dell'Uruguay (appena 3,4 milioni di abitanti), sembra quasi normale che tutti chiamino il presidente Pepe, il vezzeggiativo di José in spagnolo. Si abbina bene con la sua nota umiltà e con la sua avversione alla ricchezza e all'ostentazione.
Durante la dittatura uruguayana degli anni Settanta e Ottanta, Mujica trascorse in carcere 13 anni, durante i quali fu sottoposto a torture e a lunghi periodi di isolamento, spesso in un buco scavato sottoterra. Questa esperienza ha permesso al presidente uscente dell'Uruguay di riflettere a lungo sulla futilità della ricchezza e sull'inutilità della violenza. La sua agonia, amplificata dalle ferite da arma da fuoco inflittegli durante la cattura, lo portò a un certo punto a diventare pazzo e a sentire voci nella sua testa. Tuttavia, non c'è traccia di amarezza nell'aria mentre Manuela, il famoso cane diciottenne a tre zampe di Mujica, si precipita fuori per dare il benvenuto ai visitatori nella piccola fattoria dove il presidente vive a Rincón del Cerro, a 20 minuti da Montevideo. La casa ha solo tre stanze. Mujica si rifiuta di trasferirsi nella lussuosa dimora presidenziale.
"Io qui sono ricco", afferma mentre porta fuori due cuscini che hanno visto giorni migliori, per poi buttarli su due sedie da giardino arrugginite messe lì per l'intervista. I suoi vecchi stivali neri, con i lacci sciolti, sono pieni di fango e lui non indossa calzini in questa mite mattina primaverile del Sud. Mujica non rimugina sugli anni di prigionia. "Non credo nel cosiddetto 'torturometro'. In altre parole, la tortura non definisce ciò che sei, l'averla subita non dovrebbe darti un'aura di prestigio". Con un'alzata di spalle, minimizza l'odio per i suoi carnefici. "Se non fossero stati loro, sarebbero stati altri. È inevitabile. Se pesti i piedi ad alcune classi sociali, si scatena l'inferno, ma l'odio non ha senso, è un veleno. Non puoi passare la vita a cercare di riscuotere debiti che nessuno pagherà. Quella non è vita. Si deve voltare pagina".
Questo mese, però, potremmo concedere a Mujica un insolito attacco di nostalgia. Eletto nel 2009, è il secondo presidente consecutivo del Frente Amplio(Fronte Ampio), una coalizione di partiti di sinistra. Con la successione di Mujica a Tabaré Vázquez, eletto nel 2004, il Frente Amplio ha spezzato la tradizionale alternanza al potere tra i partiti Blanco e Colorado(i Bianchi e i Rossi). Visto che la Costituzione vieta a Mujica di candidarsi per un secondo mandato consecutivo, Pepe ha intenzione di rimanere senatore dopo le elezioni presidenziali del 30 novembre, nelle quali Vázquez si è aggiudicato un secondo mandato presidenziale. Il percorso di Pepe Mujica è stato un percorso strabiliante: da guerrigliero a venerato presidente.
Quando Mujica fu arrestato nel 1972, era un giovane membro del gruppo guerrigliero Tupamaro che dormiva con una mitragliatrice sotto al letto. Adesso, considera quella violenza insensata. "Eravamo figli del nostro tempo in un mondo diverso. Ma non si può sacrificare la vita, che è quasi un miracolo, per l'idea che tra trent'anni forse ci sarà un mondo migliore. Adesso ci stiamo battendo per gli stessi obiettivi, ma con mezzi diversi. È meglio essere cauti, perseverare e cercare il cambiamento per aumentare la redistribuzione della ricchezza e la giustizia sociale, senza imboccare la via che conduce alla violenza".
Rincón del Cerro non potrebbe essere più modesta. Vecchie lattine di vernice sono state adibite a vasi dove cresce un qualcosa che non si può realmente definire fiori, solo germogli verdi che sembrano erbaccia. Manuela, il meticcio nero senza una zampa("ha avuto un incidente quando aveva dieci anni", spiega Mujica) è senza dubbio il cane meno presidenziale del pianeta. Addossata a un filare di cespugli, l'unica panchina da giardino, fatta di tappi di bottiglia di plastica cuciti in una rete. "L'hanno costruita i detenuti di un reparto psichiatrico di una prigione", ricorda il presidente. E a guardarla, non si avrebbero dubbi. L'ambiente umile passa però in secondo piano quando Mujica inizia a parlare dell'incredibile trasformazione economica dell'Uruguay sotto la sua guida.
"Abbiamo vissuto anni positivi dal punto di vista dell'uguaglianza. Dieci anni fa, circa il 39 per cento degli uruguaiani viveva sotto la soglia di povertà. Adesso sono meno dell'11 per cento. Abbiamo anche ridotto la povertà estrema dal 5 a un esiguo 0,5 per cento", dice orgoglioso mentre Manuela si accovaccia ai suoi piedi sull'erba rada. Mujica ha anche aumentato gli investimenti da circa il 13 per cento del Pil di un decennio fa al 25 per cento odierno. E poi ci sono i parchi eolici. "Entro il 2016, soddisferemo più del 30 per cento del nostro fabbisogno energetico con fonti rinnovabili. Abbiamo sfruttato il fatto che l'Europa fosse in crisi e che alcuni progetti non potevano più essere attuati. Ci sono arrivate offerte per parchi eolici a prezzi davvero interessanti". L'Uruguay è diventato un Paese esportatore di energia. Vende elettricità al suo vicino settentrionale, il Brasile, che ha quasi 200 milioni di abitanti in più.
Sempre negli ultimi cinque anni, Mujica ha legalizzato l'aborto(oltre all'Uruguay, in America latina è legale solo a Cuba e a Città del Messico) e la vendita della marijuana. Come spiega, "Nessuno è a favore dell'aborto, ma le donne ne hanno bisogno: è un dato di fatto". È altrettanto schietto quando spiega perché ha fatto approvare la legalizzazione della cannabis: "Abbiamo contrastato le droghe per 80 anni e non ha funzionato. Il narcotraffico è di gran lunga più grave del consumo di marijuana. E a chi non lo vuole ammettere dico: guardate il Messico, l'America centrale, l'Honduras, il Guatemala... Vedrete Stati falliti, divorati dall'interno dal traffico di droga". Quasi si arrabbia quando pensa a chi combatte ancora il traffico di stupefacenti attraverso il proibizionismo. È sul punto di esplodere quando afferma: "Il problema è che accanto al narcotraffico, sono state costruite delle strutture gigantesche per contrastarlo. Lo Stato ha diverse patologie e una di queste è che chiunque svolge un compito inizia a pensare che il suo lavoro sia al centro dell'universo. Tutti vogliono potersi guardare allo specchio e pensare che ciò che fanno sia essenziale per la società. Non ho bisogno di repressione, ma di medici che possano occuparsi di questa schifezza!".
In che rapporti è Mujica con i suoi omologhi internazionali, che non condividono i suoi gusti semplici? Queste differenze creano frizioni? "Se in una democrazia sono le maggioranze a dover decidere, io credo che i governanti debbano vivere come la maggioranza della popolazione, non come la minoranza. Se la presidenza diventa una corte reale, io sto offendendo l'anima della repubblica. Mi sto dando al contrabbando feudale o monarchico. Lasciatelo fare ai re!".
L'unico mezzo che possiede Mujica è una vecchia Volkswagen Beetle blu malridotta. La fattoria è della moglie e lui dà in beneficenza una parte consistente(il 90%, ndr) del suo stipendio da presidente. "Per molti anni ho dormito sul pavimento di un carcere e le notti in cui avevo un materasso, ero felice. Sono sopravvissuto con praticamente nulla. Per questo ho iniziato ad apprezzare le piccole gioie della vita e a credere che ci debbano essere dei limiti. Se mi dedicassi ad accumulare oggetti, dovrei trascorrere una parte considerevole della mia vita a prendermene cura e non avrei tempo per le mie passioni, la politica nel mio caso. Quindi, vivere con poco per me non è un sacrificio. È un'affermazione di libertà, mi permette di avere più tempo per ciò che mi motiva. È il prezzo della mia libertà individuale. Sono più ricco così". (Uki Goni, 2014)
Abbiamo aiutato Obama a chiudere la vergogna di Guantanamo non perché l'imperialismo yankee sia diventato improvvisamente nostro amico, né in cambio di denaro o vantaggi. Tuttavia non lo abbiamo fatto per niente. In contropartita, chiediamo la fine dell'ingiusto e ingiustificabile blocco contro la nostra repubblica sorella di Cuba, la liberazione dei tre patrioti cubani prigionieri negli Usa da 16 anni e quella di Oscar Lopez Rivera, il settantenne combattente indipendentista portoricano, prigioniero negli Stati uniti da oltre un trentennio.
Josè "El Pepe" Mujica
The Economist ha incoronato l'Uruaguay di Pepe Mujica come il Paese del 2013. Una coppia inaspettata, visto l'orientamento liberale del settimanale inglese, e le convinzioni socialiste del presidente dell'Uruguay e del suo partito, Fronte Ampio. The Economist rimarca di aver preso come criterio non le performance delle persone o l'impatto delle azioni dei governi sull'immediato, ma le riforme che aprono la strada per migliorare non solo la vita di una nazione, ma, in caso di emulazione, di tutto il resto del mondo. Una di queste svolte legislative e sociali è il matrimonio gay, una riforma che per The Economist ha aumentato il grado di felicità impatto senza alcun costo finanziario.
"L'Uruguay, come altri paesi, ha introdotto le nozze omosessuali, ma il governo di Montevideo è stato l'unico ad approvare una legge per legalizzare e regolamentare la produzione, vendita ed il consumo della cannabis. Questo è un cambiamento molto rilevante, che danneggia i criminali e permette alle autorità di concentrarsi su reati più gravi, che nessun'altra nazione ha realizzato".
The Economist rimarca che l'esempio dell'Uruguay fosse imitato, il danno provocato da simili droghe sarebbe drasticamente ridotto. Il settimanale inglese trova inoltre meritevole di grande apprezzamento l'uomo che guida l'Uruguay, Pepe Mujjca. "Con inusuale franchezza per un politico ha definito la nuova legge come un esperimento. Vive in una modesta casa di campagna, va al lavoro guidando un Maggiolino e vola in classe economica. Umile ma coraggioso, progressista e amante del divertimento, l'Uruguay è il nostro paese dell'anno".
Conclude così The Economist, che premia un paese governato da un ex Tupamaro, i guerriglieri marxisti che negli anni sessanta combattevano contro la dittatura in Uruguay. (Gad Lerner, 2013)
Intervista a Mauricio Rosencof.
Montevideo, Uruguay. Domenica 30 novembre(2014) in Uruguay ci sarà il ballottaggio tra il centrosinistra e la destra, tra Tabaré Vázquez (Frente Amplio) e Luis Lacalle Pou (Partido Nacional). Comunque vada, El Pepe Mujica non sarà più Presidente della Repubblica. Un uomo che si è fatto conoscere in tutto il mondo, per aver rinunciato al 90% del suo stipendio e alla casa presidenziale. La sua frase che mi è rimasta scolpita nel cervello è: "Povero è chi desidera avere sempre di più".
Quando sono partita per l'Uruguay a fine luglio, mi sarebbe piaciuto intervistarlo. Chi crede veramente che il giornalismo sia un servizio e un bel mestiere, non è mai del tutto in vacanza. Invece, il regista teatrale Mario Jorio mi ha dirottato sul commediografo, scrittore e giornalista Mauricio Rosencof, compagno di prigionia del Pepe Mujica durante la dittatura degli anni Settanta, che ha scritto un libro su quella terribile esperienza: "La Memorias del Calabozo". Ottima idea, ho pensato, il Pepe lo hanno intervistato tutte le testate giornalistiche del mondo, Rosencof invece molte meno.
Ed eccomi ora che sto suonando al citofono della sua casa di Montevideo -è il 19 agosto- a un centinaio di metri dalla lunghissima Rambla che cinge la città e dà sul Rio della Plata. Un appartamento normale: in un altro Paese non si direbbe che ci abiti un amico intimo del Presidente. Ma in Uruguay succede. Zeppa di libri e di targhe, foto appese al muro che raccontano la vita di un ebreo esule, che è stato dirigente del Movimento di Liberazione Nazionale uruguayano, meglio conosciuto come movimento Tupamaros. Arrestato nel 1972, con il Pepe Mujica e il Ñeto (Fernandez Huidobro, ministro della Difesa del governo Mujica), è stato ripetutamente torturato e dichiarato ostaggio(rehén, ndr) dalle autorità golpiste. Sono stati liberati tutti nel 1985. La mattina che passo in sua compagnia è piena di racconti e di parole. Un'occasione succosa per vedere trascorrere davanti ai miei occhi avidi la storia del continente Sudamericano. In America Latina mi sento a casa fin da adolescente. Sarà tutta colpa degli Intillimani. Mi dà del tu subito, come se fossimo cari amici da sempre. Ha la battuta pronta e ama scherzare, e ridere. Un uomo sereno, nonostante tutto quello che ha passato, forse perché sa bene da che parte stare.
"Non ti è mai saltato per la testa che i tuoi più cari compagni di prigionia, il Pepe Mujica e Fernandez Herman Huidobro, avrebbero potuto diventare un giorno uno il presidente dell'Uruguay e l'altro il ministro della Difesa, cioè il capo dell'esercito?"
"Chissà, forse non è vero niente. Sto semplicemente vivendo dentro a una di quelle allucinazioni che mi afferravano in carcere chiuso in quel pozzo, chiamato calabozo! La nostra è una storia che non sarebbe mai passata per la testa neanche a Ray Bradbury o a Jules Verne. La finzione, anche quella più bruciante, a volte non riesce a restituire il delirio che la stessa vita produce. Quando, nel 1985, siamo usciti dalla prigione, tutto è stato molto rapido. Non abbiamo neanche avuto il tempo di pensare a quello che stava succedendo. Siamo entrati in carcere che eravamo soli, quando siamo usciti c'era una folla impressionante ad accoglierci. E poi tantissimi giornalisti. Sulle prime non volevamo fare neanche una conferenza stampa, avevamo solo il desiderio di incontrare i nostri parenti, però poi l'abbiamo fatta e siamo stati travolti da un torrente in piena. Volevamo stare uniti per riorganizzarci. La dittatura in Uruguay non era ancora stata sconfitta, c'erano gli stessi generali, gli stessi ufficiali, e le stesse carceri. In quel frangente eravamo ospiti dei francescani nel loro convento, al centro di Montevideo, e mi ricordo una scena straordinaria. Prima che me ne andassi via, mi corre incontro un frate e mi grida, Ruso, Ruso (questo è il soprannome di Rosencof, la cui famiglia era originaria dell'Europa dell'est, ndr) non ti dimenticare che il primo asado che hai mangiato, appena uscito dalla prigione, te l'ho cucinato io. La storia è come un fiume, a volte rimane senza acqua e si secca, in altri periodi è pieno di cascate. E all'improvviso tracima, e non ci resta che guardare dove ci porta. Jorge Manrique paragona la vita al lento scorrere dei fiumi verso il mare, che è la morte. Io, invece, credo che la morte non esista".
"El Pepe Mujica è una figura straordinaria, un personaggio, il mondo parla di lui, giornalisti di tutte le testate hanno fatto la coda per intervistarlo. Come era da giovane?"
"Come adesso, solo più giovane. Assolutamente uguale. Ora ha ripreso ad andare in bicicletta, era un buon ciclista. Un uomo intelligente e solidale. Un simpatico birbante. Ne abbiamo combinate tante insieme, ci siamo anche divertiti. È uscita da poco una sua biografia in italiano: "Il presidente impossibile. Pepe Mujica, da guerrigliero a capo di stato" (Nova Delphi Libri). Ora ti racconto un aneddoto perché tu capisca bene i suoi percorsi mentali. Una volta eravamo nelle catacombe di Plaza de Toros, e l'atmosfera era tanto irrespirabile, che il secondino se ne andava via e ci lasciava soli, con tanto di autorizzazione del sergente. Così abbiamo cominciato a parlare, con il Ñeto (Huidobro, ndr), attraverso lo spioncino della cella, a voce molto bassa. Eravamo così affamati, che sognavamo il cibo, proprio come Sancho Panza. Stavamo parlando di un negozietto, con prosciutti appesi al soffitto, arrosti e ogni ben di dio. Tra l'altro, non potevamo parlare di cose serie perché potevamo essere spiati. All'improvviso il Pepe se ne esce indignato, dicendo: -Smettetela, sono morto di fame, non parlate più di mangiare. Mi fate star male.- Lasciamo parlare lui: -Secondo voi, quale tipologia di riso può aumentare la produzione delle risaie dell'Uruguay?-. Ci spiegò che aveva un'allucinazione frequente: un maiale modificato geneticamente che aveva due vertebre in più e che produceva più carne. Mentre il Ñeto ed io avevamo una visione letteraria, lui ne aveva una programmatica. Stava calcolando quale fosse il riso migliore da coltivare in Uruguay e come fare in modo che si potesse produrre più carne. Quindi alla fine si era messo a parlare di cibo anche lui".
"Leggendo Le Memorie del Calabozo o anche vedendo come il Pepe ha sempre la battuta pronta, mi sembra che l'ironia vi abbia salvato, in carcere."
"Scherzare ci aiutava tantissimo. Con il Ñeto siamo riusciti, battendo le nocche sul muro che ci divideva, a giocare addirittura agli scacchi".
"Come racconti nelle Memorie del Calabozo, in prigione era difficile mangiare, dormire, fare la pipì, ma deve essere stato terribile per te non poter scrivere mai. Cosa ha significato stare tanto tempo senza scrivere?"
"Non ci permettevano neanche di leggere, non potevamo comunicare con nessuno, non avevamo né spazio, né aria, non vedevamo il sole, non ci davano acqua, riciclavamo le nostre orine per bere, ci davano misere razioni di cibo, mangiavamo insetti. Ma la cosa più tremenda era far passare il tempo. Dei tredici anni vissuti in carcere, per undici anni e mezzo siamo stati rinchiusi in un calabozo, sottoterra, lungo un metro e largo sessanta centimetri. Non si riusciva a respirare. Il cervello usava le sue risorse per la mera sopravvivenza. Mi perdevo a elaborare strutture narrative, a costruire storie, e ciò mi ha permesso di non scivolare nella follia. Vivevamo con la paura che ci fucilassero da un giorno all'altro. In seguito abbiamo saputo che non volevano farci fuori, che ci tenevano come ostaggi perché i nostri compagni fuori stessero tranquilli. Però avevano deciso di annientarci psicologicamente, di farci diventare pazzi. È proprio incredibile pensare che il Pepe Mujica sia diventato presidente della Repubblica e Huidobro, ministro della Difesa. Fa tutto parte della stessa follia della vita. Siamo riusciti a tenere una luce accesa dentro di noi, ed è servito. Con Huidobro abbiamo inventato un nostro alfabeto morse, comunicavamo battendo le nocche delle dita sul muro: in quelle lunghe giornate di reclusione abbiamo organizzato rivoluzioni e scritto libri a furia di colpi di nocche, ci siamo raccontati l'infanzia, le malattie, abbiamo fatto patti che ci avrebbero unito per sempre. Un giorno irrompono nel mio calabozo due guardie. Il capo mi chiede se fossi io lo scrittore. Gli rispondo: -sì, señor-. Allora mi dice: -il sergente ti ordina di scrivere una lettera per la sua fidanzata-. Mi portano una tavoletta, un foglio e una penna. Succede il miracolo, dopo la seconda lettera la seduco e lei si innamora. Per riconoscenza, mi arrivano due sigarette col filtro. Mi sento come Churchill, dopo che ha vinto una battaglia. A partire da quel giorno, tutto il carcere inizia a sfilare dentro il mio calabozo e comincio a scrivere lettere per le loro donne. --Ascolta Rosencof, io non sono sergente, però ho una fidanzata, puoi scrivere una lettera anche per me?-. Mi davano la biro e scrivevo lettere o poesie. Non potevo tenere una penna né un foglio dentro la cella, me li davano ogni volta. Domandavo il nome della destinataria del poema, lo scrivevo in maiuscolo e in verticale e buttavo giù un acrostico. Mi dicevano: -Rosencof fai un acrilico anche per me?- Ora avevo in mano una formidabile merce di scambio, mi davano tabacco, fiammiferi, a volte un pezzo di pane, un uovo sodo, una cosa formidabile. Non sono mai stato meglio".
"Mai ti hanno pagato così tanto per la tua scrittura!"
"Sì, è stata una cosa incredibile. Non vedevo l'ora che fosse di guardia un soldato sensibile, spesso mi chiedeva dei versi per i suoi figli. Mi diceva: -sei come un nonno per loro-. Gli domandavo se, durante le sue 72 ore di guardia, mi lasciasse una penna di nascosto. Così sono riuscito a scrivere, su foglie di tabacco "La Margarita", una storia d'amore in 28 sonetti, "El saco de Antonio", "El hijo que espera" e "La lotta nella stalla", dopo averle tenute tanto chiuse nella testa. Nascondevo i testi dentro in un tubicino di nylon e poi nella camicia, che consegnavo tutti i mesi ai miei familiari, durante la visita, perché la lavassero. Così è nata "la letteratura della camicia". "La lotta nella stalla"(opera che è stata messa in scena per la regia di Mario Jorio all'Elfo di Milano e allo Stabile di Genova, ndr) è sopravvissuta grazie alla mia camicetta bianca. Invece, altri testi si sono persi. La nostra battaglia di tutti i giorni era non morire e tanto meno suicidarsi. Durante gli incontri con i parenti dovevamo avere tanta energia per trasmettere loro confidenza e serenità. Non lasciare intendere il supplizio che stavamo subendo, e nemmeno che eravamo dei poveri disgraziati in attesa di un raggio di luce, che illuminasse il nostro cammino. Poi abbiamo cominciato ad accorgerci che alcuni nostri compagni agonizzavano e morivano, altri impazzivano. Anche Sendic (il dirigente Tupamaros più famoso a quei tempi, ndr) stava male: quando era stato catturato, nella colluttazione, era stato ferito e non riusciva più a parlare bene. Tra noi c'era un patto: chi ne fosse uscito vivo, avrebbe testimoniato le peripezie che avevamo passato".
"Da quanto è che non vi vedete con il Pepe?"
"Ci siamo visti un paio di giorni fa, nel suo ufficio di presidente, in piazza Indipendenza. C'era anche Huidobro, ci siamo fatti una chiacchierata e abbiamo anche incontrato dei produttori cinematografici che volevano conoscerci. Vogliono fare un film sulle "Memorie del calabozo". La produzione è spagnola: Tornasol Films. Hanno già prodotto "Il segreto dei suoi occhi", che ha vinto il premio Oscar. Kusturica, invece, sta lavorando ad un documentario, che comincerà a raccontare la vita di Mujica, partendo dagli ultimi giorni di presidenza. È un regista straordinario, tutto matto!"
"Sono molto contenta di fare questa conversazione con te, un testimone importante del Novecento, di un periodo molto travagliato della storia dell'America Latina."
"E sono ancora vivo e vegeto!"
"Allora ci riprovo: un testimone importante del secolo scorso, però ancora sulla breccia! Ora siete al potere, le vostre idee sembrano aver vinto. Chissà cosa succederà dopo le elezioni del 30 novembre. Perché chiunque vinca, Pepe Mujica non sarà più presidente."
"Se perdiamo le elezioni, abbiamo una grande esperienza come opposizione!"
"Certo molto molto grande! Quanto l'Uruguay di oggi è diverso da quello che sognavi quando eri rinchiuso in carcere?"
"I sogni volano sempre verso il futuro. Mi è molto cara una frase di Eduardo Galeano: -L'utopia sta all'orizzonte. Se mi avvicino di due passi, si allontana di due passi. Se faccio dieci passi, l'orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non lo raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve a camminare-. I primi cristiani mettevano tutti i loro averi in comune, e ognuno prendeva quello di cui aveva bisogno. La storia si ripete e, a volte, torna indietro. Un mio personaggio della "Lotta nella stalla" dice una cosa che sento profondamente. La meta è mettersi in cammino. Quando si prende un sentiero, quando si ha una vocazione come la lotta per l'uguaglianza sociale, è un percorso che si segue per tutta la vita. Ti puoi confrontare con la noia, la prigione, l'opposizione, la polizia, la morte. E magari, come il Pepe Mujica, diventi anche presidente della Repubblica. Una scelta di vita, che puoi percorrere in tanti modi, però se è una vera vocazione, lo è per sempre".
"Non è un paese un po' strano l'Uruguay? Un paese letterario, dove una prigione, Punta Carretas -dove tra gli altri è stato imprigionato anche il Pepe- è diventata un lussuoso shopping center. Dove uno dei peggiori nemici dell'esercito, il Tupamaros Huidobro, è diventato ministro della Difesa, cioè il capo dell'esercito? Dove un altro Tupamaros -el Pepe Mujica- è diventato presidente della Repubblica?"
"Per noi è naturale! La storia è divisa in tante tappe. Noi Tupamaros siamo il prodotto della rivoluzione cubana, della rivoluzione nazionale boliviana del 1952, del governo guatemalteco di Jacobo Arbenz Guzmán, che aveva espropriato le terre incolte dei latifondisti. Anche il Che è stato in Guatemala in quel periodo e per sopravvivere faceva il fotografo. Il Pepe Mujica, da giovane, era un nazionalista, è stato anche segretario di un ministro, Sendic (dirigente Tupamaros) era membro del comitato centrale del partito socialista. Io ho militato nelle file dei giovani comunisti e ho partecipato alla fondazione del quotidiano del partito. Quando abbiamo fondato i Tupamaros, avevamo anni di militanza politica alle spalle. La mia generazione è stata influenzata dalle vicende della guerra civile spagnola. Molti uruguayani sono partiti per combattere nelle brigate internazionali, dove c'erano anche Palmiro Togliatti, Pietro Nenni e i fratelli Rosselli. Mentre i fascisti italiani hanno inviato l'esercito e gli aerei, per sostenere Franco. Sono queste le persone che mi hanno formato. É sempre la stessa lotta senza fine, quella che ha portato il Pepe a essere Presidente, per un certo periodo. Niente è mai definitivo. Raul Sendic, il più lucido di noi Tupamaros, grande organizzatore, diceva: -Il socialismo in Uruguay sarà uruguayano o non sarà-. La lotta per il socialismo è un processo culturale e nasce nel cuore e nella testa della gente. E ci vuole molto più tempo di quello che pensavamo all'inizio. Da giovani credevamo che, avanzando un poco, avremmo avuto l'orizzonte in mano. Invece, ci siamo avvicinati sì all'orizzonte, ma lui ha fatto qualche passo indietro. Niente è per sempre".
"Alcuni uruguayani dicono che il Pepe è un gran parlatore, un utopista, un visionario, però che il suo governo si è comportato diversamente da quello che lui predica. Qual è la tua opinione sul modo in cui il Pepe ha governato il paese?"
"Il Pepe è stato a capo di un governo voluto da una forza politica, il Frente Amplio, che è unica nel mondo. Mi ricordo ancora molto bene una riunione con Salvator Allende, a Santiago del Cile, negli anni Settanta. Ci domandò stupito come aveva fatto il general Seregni a creare il Frente Amplio in Uruguay, una coalizione che comprendeva comunisti, socialisti e Tupamaros, insieme alla democrazia cristiana. Che per loro era una spina nel fianco. In Uruguay si è giunti ad una tale armonia e tolleranza tra le diverse forze politiche, che ha portato alla coalizione, che ha governato fino a oggi. Ora, grazie a tutti questi anni di governo del Frente, c'è una legge per cui gli operai e i contadini, i peones -in passato sempre dipendenti dalle decisioni dei latifondisti- non devono lavorare più di 8 ore al giorno. Prima erano costretti a lavorarne anche 14. Ora semmai prendono gli straordinari. La stessa legislazione vale per le colf. Hanno tutti il diritto alla pensione e alle vacanze pagate. Sono miglioramenti non da poco. E la povertà sì è ridotta. L'Uruguay prima era dipendente dal punto di vista energetico. Oggi esporta energia. Il territorio è pieno di pale eoliche. Stiamo costruendo un porto oceanico, che verrà utilizzato anche dalla Bolivia, dal Paraguay, e dal Brasile. Tutti i cittadini adesso possono usufruire della sanità pubblica. Già 50mila anziani poveri si sono fatti togliere la cataratta gratuitamente. Prima era solo una prerogativa dei ricchi tornare a vedere di nuovo. Un altro esempio: credo siamo l'unico Paese che ha regalato un computer portatile a tutti i bambini. Li tengono con cura, non li rompono. Anche a quelli che vivono in campagna isolati. Li abbiamo messi in contatto con il mondo. Imparano l'inglese, attraverso le video conferenze. Lo portano a casa e insegnano come usarlo anche ai genitori. La tecnologia non è più patrimonio -come poter tornare a vedere- solo di una classe sociale. Se non vinciamo le elezioni, vuol dire che non siamo riusciti a comunicare bene quello che abbiamo fatto, perché tutte queste cose prima non c'erano. Abbiamo un indice di disoccupazione da far invidia a qualche paese europeo: solo il 6%, vuol dire che la disoccupazione quasi non esiste più. La Spagna ha il 25% di disoccupati. Dieci anni fa tutti volevano andarsene via, c'erano code alle ambasciate spagnola e statunitense, per ottenere il visto. Ora quelle stesse persone stanno tornando. Non è proprio il socialismo, però c'è il lavoro quasi per tutti. Non è il socialismo, però i peones lavorano otto ore, e così anche le colf. Gli anziani tornano a vedere, quando sono invasi dalla cataratta. I bambini poveri -grazie all'uguaglianza sociale che si è creata- guardano il mondo dentro a un bel laptop di color verde, che usano a casa e a scuola. Non è il socialismo, però è bueno".
"E ora i gay in Uruguay si possono sposare."
"Certo! Siamo per la pari dignità per le differenze sessuali, sociali e etniche. È intrinseca al nostro modo di sentire e di pensare. Però la società fa resistenza, non è ancora preparata culturalmente. Per le donne, ora ci sono le quote. Per legge, nei concorsi pubblici si deve tener conto dei settori meno favoriti della società, e soprattutto degli invalidi".
"Sono cambiati i compagni! Che Guevara a Cuba faceva mettere in prigione i gay per rieducarli, ora in Uruguay -con un presidente Tupamaros- è stata fatta una legge che permette loro di sposarsi."
"Questo è successo in una Cuba molto machista, e negli anni Cinquanta. Mi sento in sintonia con la rivoluzione cubana per alcune cose, con altre sono in disaccordo. E ti ricordo questa frase meravigliosa che ci ha lasciato Sendic: -il socialismo in Uruguay sarà uruguayano o non sarà!-".
"La legge sui matrimoni omosessuali in Uruguay è comunque anche frutto dei tempi. L'atteggiamento nei loro confronti sta cambiando in tutto il mondo. Anche se in Italia non c'è ancora."
"È vero. Però non c'è nemmeno in Russia o in Indonesia. Il mondo è grande".
"Il governo del Pepe ha anche fatto passi avanti per la legalizzazione della marijuana."
"Questa legge è stata usata contro di noi dalla destra in campagna elettorale. Ne conosco bene l'origine: è nata nel cervello del Ñato (Hiudobro), quando eravamo rinchiusi nel calabozo. Serve a bloccare il narcotraffico. Cosa c'è di male se le piantagioni di marijuana sono controllate, e la vendita non passa attraverso il mercato nero? Così sai chi la consuma e chi la coltiva. È un tentativo per cambiare le cose, diverso da quello della Colombia e del Messico, dove i trafficanti sono tanto ricchi che possiedono sottomarini. E ora questo tentativo è sfruttato a fini elettorali. I media sono in mano ai conservatori".
"Come descriveresti gli schieramenti politici, che si sono presentati alle elezioni?"
"Mai il panorama politico è stato tanto chiaro come ora. Il centro sinistra è tutto all'interno del Frente Amplio. E i due candidati del Partido Colorado e del Partido Nacional vengono fuori dalla quintessenza del fascismo. Il padre di Pedro Bordaberry (che è stato escluso dal ballottaggio, quindi ora non più candidato, ndr) ha sciolto il parlamento nel 1973, dando vita alla dittattura. Ammiratore di Franco e di Mussolini, cantava Cara al sol (l'inno dei franchisti in Spagna ndr), facendo il saluto falangista. Bisogna dirle e scriverle queste cose, perché la gente le ricordi. E Luis Lacalle Pou (leader del Partito Nazionalista, che al ballottaggio del 30 novembre sfiderà il Frente Amplio) è figlio dell'ex presidente Luis Alberto Lacalle, anche lui ammiratore in gioventù del generalissimo Franco. Le cose quando vengono nominate, diventano più chiare. L'Uruguay è di fronte a un bivio: o torniamo a essere governati dalla destra conservatrice, o proseguiamo con il processo di sviluppo, portato avanti in questi anni dal Frente Amplio, il cui candidato alla presidenza è Tabaré, che viene dal partito socialista, ha già un'esperienza di governo oltre che di sindaco di Montevideo. Mentre candidato vicepresidente è Raul Sendic, figlio di Raul Sendic, che prima di uscire dal carcere fu l'unico di noi a dire: -Integriamoci all'interno della lotta istituzionale e democratica, senza esitazioni-. E qui siamo arrivati. Sendic padre era simile ad Artigas (1764-1850: eroe nazionale uruguayano, ndr), che lottò per la prima riforma agraria, l'unico libertador che è riuscito a ottenerla in America Latina. Diceva:- distribuiremo la terra in modo che i più poveri saranno i privilegiati. Partiremo dagli indios, i primi ad averne diritto, e dai gauchos delle praterie-. Raul Sendic padre, negli anni Settanta, era a capo della stessa battaglia che ha visto protagonisti i coltivatori di canna da zucchero (le loro condizioni di vita erano così dure che nacque un forte malcontento che si concretizzò in una marcia di protesta di migliaia di persone: attraversarono l'Uruguay arrivando fino al palazzo legislativo di Montevideo. Questi lavoratori erano capeggiati da Raul Sendic, ndr)".
"Come è il figlio di Sendic?"
"È stato il più votato nelle elezioni interne del Frente Amplio. È un perno della politica uruguayana, ha una lunga storia familiare, ha fatto esperienza politiche di diverso tipo. È un uomo lucido e colto".
"Mi pare di aver visto molte pubblicità elettorali del Frente Amplio in giro per Montevideo e poche della destra."
"A me sembra proprio il contrario. Lacalle è figlio della pubblicità, stanno cercando di vendere la sua immagine di bell'uomo dai capelli rossi, giovane e muscoloso".
"Raul Sendic non è certo brutto!"
"Però non è il paradigma dell'ideale mascolino. Non fa campagna pubblicitaria sulla sua immagine. Poi insistono sull'età di Lacalle, che ha 42 anni (Tabaré ne ha 74, ndr). L'età non ha importanza, contano i programmi, gli ideali, i sentimenti. La loro origine, da dove vengono, che storia hanno alle spalle, queste sono le cose che contano. I discorsi di Lacalle e Bordaberry sono frivoli e superficiali. In politica è importante l'abilità, il talento, l'intelligenza". (Laura Guglielmi, 2014)
I detenuti di Guantanamo.
Non possiamo ignorare la terribile tragedia di gente che ha passato 12, 13 anni senza comunicare col mondo e incarcerata senza prove, priva di tutela giuridica. È una vergogna per l'umanità. Quattro siriani, un tunisino e un palestinese. Sei prigionieri di Guantanamo sono in Uruguay da domenica scorsa come rifugiati. Hanno vissuto nel campo di concentramento statunitense da dodici anni, dal 2002. Una prigione di "Massima sicurezza" -a solo un anno dall'attentato alle Torri gemelle per il quale scattò la guerra di vendetta all'Afghanistan- aperta l'11 gennaio di quell'anno dall'amministrazione Bush all'interno della base navale che si trova sull'isola di Cuba, finalizzata a rinchiudere i "combattenti nemici" catturati in Afghanistan e sospettati di attività eversive. I sei sono stati arrestati come appartenenti alla galassia di Al-Qaeda, ma non hanno subìto condanne: "Liberabili perché non ad alto rischio", questo ora il responso sui sei prigionieri secondo le agenzie di intelligence Usa.
Per i primi tempi, il governo uruguayano darà loro sostegno economico e li aiuterà a trovare una casa e un lavoro. Ora sono ricoverati in ospedale a causa delle cattive condizioni di salute, dovute ai maltrattamenti e anche al lungo sciopero della fame intrapreso nel campo di prigionia. Ora, l'Uruguay è il primo paese sudamericano, e il secondo in tutta l'America latina, ad aver accolto prigionieri di Guantanamo, dopo la promessa di Obama di chiudere la prigione di Massima sicurezza (ma non la base militare), una promessa mai realizzata. Nel 2012, il Salvador ha ospitato per quasi due anni due musulmani cinesi di etnia uigura, provenienti da Guantanamo. In Uruguay vi sono attualmente tra i 250 e i 300 rifugiati, in maggioranza provenienti dalla Colombia. Secondo un'inchiesta dell'istituto Cifra, il 58% dei cittadini si dichiara contrario a ospitare i detenuti di Guantanamo, mentre il 40% ritiene che la decisione spetti al Parlamento e non al presidente. "Non siamo una succursale di Guantanamo", ha dichiarato Alberto Heber, senatore del Partido Nacional.
L'ex tupamaro presidente Pepe Mujica, che a breve passerà il testimone al vincitore delle ultime presidenziali, Tabaré Vazquez, ha annunciato la decisione "umanitaria" nel marzo scorso. E venerdì ha indirizzato una lettera a Barack Obama e al popolo uruguayano. Ha ricordato che il paese è diventato quel che è oggi anche per aver dato asilo "agli anarchici perseguitati ed espulsi da altri paesi che li consideravano terribili terroristi" e ha ribadito la vocazione umanitaria del suo paese, sancita dalla Costituzione:"Abbiamo offerto ospitalità ad alcuni esseri umani che subivano un atroce sequestro a Guantanamo", ha affermato, precisando nuovamente che, avendo conosciuto cosa significa stare dietro le sbarre per 14 anni, non avrebbe imposto la galera ai rifugiati: "Per me -ha detto- se vogliono, possono andarsene anche da domani". Col linguaggio diretto che lo caratterizza, Mujica ha poi precisato: "Abbiamo aiutato Obama a chiudere la vergogna di Guantanamo non perché l'imperialismo yankee sia diventato improvvisamente nostro amico, né in cambio di denaro o vantaggi. Tuttavia -ha aggiunto- non lo abbiamo fatto per niente. In contropartita, chiediamo la fine dell'ingiusto e ingiustificabile blocco contro la nostra repubblica sorella di Cuba, la liberazione dei tre patrioti cubani prigionieri negli Usa da 16 anni e quella di Oscar Lopez Rivera, il settantenne combattente indipendentista portoricano, prigioniero negli Stati uniti da oltre un trentennio".
Anche uno dei rifugiati, il trentanovenne siriano Abdelhadi Omar Faraj, fino a ieri il prigioniero 329 di Guantanamo, ha indirizzato una lettera di ringraziamento a Mujica e "al popolo uruguayano" anche a nome degli altri ex detenuti: per spiegare la sua storia e le traversie che lo hanno condotto nel campo di concentramento, l'ultima delle quali quella di essere venduto dai soldati pachistani agli Stati uniti, dietro ricompensa. Tra i prigionieri, c'è anche Mustafa Diyab, che ha denunciato le autorità Usa per aver alimentato a forza i prigionieri di Guantanamo durante il loro lungo sciopero della fame. (Geraldina Colotti, 2014)
Intervista de L'Espresso
Testimonianze 1.
È impossibile che viva dove vive, che si vesta come si veste e che abbia avuto la storia che ha avuto. Pepe Mujica, il presidente uruguaiano, è l'uomo più senza cravatta di tutto l'universo. Qui. José Mujica, presidente della Repubblica Orientale dell'Uruguay, vive qui. All'entrata del rancho c'è una corda con appesi i vestiti di un bambino, povero; una casupola di mattoni grigi finita a metà, povera; un'accozzaglia di piante: juncos, yuyos, alti pascoli; un ettaro di terra appena arata; e cani, molti cani. Asinelli che vanno in giro con il passo lento degli animali vecchi e che ogni tanto cercano angoli d'ombra lì in fondo, dopo quegli arbusti, nella casa di José Mujica. Lì. José Mujica, presidente della Repubblica Orientale dell'Uruguay, si riposa lì: nelle quattro stanze di pareti scorticate, con una cucina, una poltrona rossa, una cagna con tre zampe (la mascotte di Mujica è zoppa) e una stufa a legna. Da quel bassofondo austero, quasi marziale, quest'uomo è emerso infinite volte, prima come legislatore della nazione, poi come candidato presidenziale, a ricevere la stampa. E ricevere, nel pianeta Mujica, è un verbo imperfetto.
Mujica ha ricevuto giornalisti appena sceso dal trattore, senza la dentiera, con il pantalone arrotolato fino alle ginocchia e con una goccia di sudore che gli scende dal naso. Mujica ha ricevuto giornalisti con una manata affettuosa e con questa frase: "Piantala di blaterare e vattene a lavorare, che di questo ha bisogno il paese". Mujica ha ricevuto giornalisti, in giorni di campagna elettorale, con le scarpe di corda ma senza denti (beh, ha fatto intere conferenze stampa senza denti), giocando con la sua cagna storpia e facendosi tagliare i capelli da uno sconosciuto che era andato a chiedergli lavoro. Mujica ha ricevuto giornalisti la stessa mattina delle elezioni presidenziali e li ha ricevuti in pigiama, con la barba lunga e con le gengive che rimuginavano quest'unica frase: "Nonostante il rumore, il mondo oggi non cambierà". Quella, era la mattina del ventinove novembre 2009. E anche se il mondo non cambiò, quel giorno l'Uruguay cambiò rotta: con il cinquantadue per cento dei voti -vinti su Luis Alberto Lacalle in un ballottaggio- Mujica divenne il presidente più impensato dell'Uruguay e probabilmente della terra. Non solo per la sua austerità, portata all'esasperazione, ma per il suo passato, che non è altro che l'origine di tutto il resto.
Mujica aveva militato nel Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros, una guerriglia nata e rafforzatasi sulla scia della rivoluzione cubana; è stato incarcerato due volte in un carcere che oggi, miracoli della globalizzazione, è un centro commerciale; scappò da quel bagno penale con una delle fughe più spettacolari che annoveri la storia carceraria universale; vide troppi amici morire e fu sul punto di morire troppe volte; rimase dieci anni isolato in un pozzo durante la dittatura militare del 1973, dove sopravvisse alla possibilità della pazzia; e arrivata la democrazia festeggiò quella vita regalata nell'unico modo possibile: arando e militando. Questa volta, nella legalità. Nel 1995, Mujica diventò il primo Tupamaro ad occupare un posto di deputato nazionale. Poi fu senatore. Poi diventò ministro. E alla fine del 2009 è diventato il primo "ex-guerrigliero" ad arrivare alla presidenza dell'Uruguay e a dare senso compiuto a una lotta ideologica per la quale si è immolata buona parte dell'America Latina. "Pepe è riuscito ad arrivare fin qui, prima di tutto, perché è sopravvissuto, -dirà qualche giorno dopo José López Mercao, compagno di Mujica nel carcere di Punta Carretas- in secondo luogo, perché il movimento armato si guadagnò una buona reputazione presso la popolazione: rimase sempre l'idea che i Tupamaros erano brave persone. E infine, perché Pepe è sempre stato un tipo molto umano, molto innamorato, molto sveglio e molto austero."
Oggi Mujica si sposta in una Chevrolet Corsa abbastanza vecchia. Non usa la cravatta. Non ha un cellulare. Non ha una carta di credito. Proibisce ai funzionari del governo di usare Facebook o Twitter o qualsiasi altra cosa simile. Ha una moglie, la senatrice Lucia Topolansky, asceta come lui. E non vive nella residenza presidenziale, ma in questa fattoria dalla struttura precaria nel Rincón del Cerro: una zona rurale a venti minuti da Montevideo, dove la campagna è più una fatica che un luogo verde. Mujica passa qui i suoi giorni dalla metà degli anni '80, quando uscì dal bagno penale con la certezza che sarebbe tornato alla politica e si sarebbe comprato una piccola fattoria, l'una e l'altra cosa insieme. Con lui, Lucia Topolansky, anche lei Tupamara, e terza carica della repubblica dell'Uruguay; Micaela, la sua cagna a tre zampe e due famiglie che, non avendo un posto migliore dove andare a sbattere, andarono a parlare con Mujica e ricevettero in cambio un pezzo di terra nella stessa fattoria (da qui la costruzione grigia ancora a metà; da qui i vestitini da bambino stesi); e due uomini in divisa ora si presentano all'entrata e dicono, cortesemente, quello che sono venuti a dirci: "Chieda un'intervista agli uffici del presidente".
Da quando ha assunto la carica, Mujica, sino ad allora famoso per la sua disponibilità verso i giornalisti, ha concesso solo tre interviste e tutte allo stesso organo di stampa. La ragione è che i suoi addetti stampa sanno che Mujica parla come vive: senza cortesie e con la casa in costruzione, e ora che è un presidente, se ne vogliono prendere cura. Per questo interpongono filtri infiniti, e per questo, fra le altre cose, ci sono queste guardie, due tipi con il petto robusto, accompagnati da un cane labrador che si getta a pancia all'aria e riceve le mie carezze.
"Questa è la casa del presidente", dice uno.
"E inoltre, il presidente non c'è", dice l'altro.
"Ah", dico io. Ci guardiamo in silenzio.
Dietro questi due uomini si vede il bucato, vestiti consumati che pendono da una corda, la casa mezza in costruzione, i giochi dei bambini sparsi per i pascoli. Ma quello che non si vede è il resto: l'immenso cumulo di dubbio che si staglia in questo scenario di insolita semplicità. Perché José Mujica vive qui, questo è chiaro. La domanda è, com'è possibile? La domanda è, perché? (Josefina Licitra, 2014)
Testimonianze 2.
"Io non volevo che Pepe fosse presidente." Julio Marenales è uno dei leader storici del Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros e Mujica lo considera 'un fratello'. Hanno militato insieme, insieme sono caduti nel bagno penale di Punta Carretas, insieme sono scappati, e insieme, anche se separati, in diversi istituti, hanno sofferto dieci anni rinchiusi nei pozzi delle caserme. La distanza fra Marenales e Mujica è comparsa in questi ultimi tempi: Mujica è andato avanti nella politica, mentre Marenales, anche se appoggia Mujica, è rimasto nell'organizzazione. Oggi rappresenta l'ala radicale ed è diventato una specie di controllore della purezza ideologica del Movimento.
"Pepe non può fare una presidenza con le idee che aveva come Tupamaro. Ha dovuto adattarsi. Si è conformato con il pensiero generale del Fronte Ampio, che è una forza in cui militano lavoratori ma anche imprenditori, e agli imprenditori piace il sistema capitalista. Quindi le idee che portò avanti anni fa il compagno Mujica adesso le tiene conservate, immagino, nel congelatore. Voglio dire: Pepe non ha intenzione di fare la rivoluzione. Il che non esclude che questo sia, e di molto, il miglior governo che abbia mai avuto questo paese."
Marenales sorride: non ha nemmeno lui tanti denti. C'è qualcosa che unisce i Tupamaros e i loro denti. Forse è il passare del tempo, ma forse nemmeno quello, il tempo è diventato un modo gentile di spiegare le cose. Marenales, in ogni caso, è sempre stato chiamato Il Vecchio. Ora ha ottantun anni, ma si trascina quel soprannome da quando ne aveva qualcuno in più di trenta. Allora insieme a Raul Sendic (leader massimo dell'organizzazione, già morto e oggi figura mitica) aveva fondato il Movimento che poi accolse Mujica e buona parte della cupola che oggi governa l'Uruguay. Una storia molto breve, infantilmente breve, dell'MLN-T potrebbe essere più o meno così: i Tupamaros scesero allo scoperto pubblicamente nel 1966 in appoggio a una rivolta dei contadini della canna da zucchero (i lavoratori dipendenti più poveri dell'Uruguay) e in un contesto di pressione sociale forte: la fine del periodo post-bellico in Europa aveva portato con sé un aumento della produzione industriale nel Primo Mondo, e questo significava che l'America Latina aveva cominciato a riempirsi di prodotti importati e ad assistere alla débacle della propria industria nazionale. Verso il 1968 l'Uruguay smise di essere la "Svizzera dell'America" e si impantanò completamente nella melma latinoamericana: cominciarono i licenziamenti, i problemi dei gruppi corporativi, la militarizzazione degli spazi di lavoro e un indurimento delle maglie dello Stato che faceva intravedere il fantasma di un golpe militare.
In quel contesto sorse l'MLN-T: un'organizzazione armata che, incoraggiata dal trionfo di Fidel Castro a Cuba, credeva che la rivoluzione fosse un obiettivo possibile e vicino, e in pochi di mesi riuscì a creare una sua mistica ideologica. I simpatizzanti dell'MLN-T aumentavano. Questo era dovuto al fatto che i Tupamaros non avevano il grilletto facile e che cominciarono a intraprendere iniziative illegali che molte volte erano a favore delle classi povere. Oltre alle procedure standard (furti di armi, alle banche, svuotamento di finanziarie, sequestri di qualche ambasciatore, etc.) ogni tanto fermavano un camion di merci e le distribuivano fra la gente dei quartieri vicini. Questa propaganda fece sì che l'organizzazione crescesse in modo esponenziale. Verso il 1971 il Movimento, che aveva cominciato con duecento membri, arrivò a cinquemila membri attivi, con un raggio di influenza di trentamila persone, e questo lo fece diventare il fenomeno di crescita più veloce nella storia di qualsiasi associazione politica. Fu quella crescita - e lo dicono loro stessi - che li rovinò. Con più membri cominciarono a esserci anche più errori. Nel momento in cui arrivò la dittatura militare -che in Uruguay si ebbe fra il 1973 e il 1985, con il colpo di stato di Juan Maria Bordaberry-, il Movimento era debole, con troppi morti sulle spalle, all'interno e fuori, e con molti attivisti in carcere.
Il vertice militare approfittò di quella debolezza e scagliò il colpo più forte contro l'organizzazione: individuò i nove capetti dell'MLN-T e li isolò per dieci anni in prigioni sotterranee che non erano nemmeno nelle carceri, ma nelle caserme. Quegli uomini furono chiamati 'i nove ostaggi': perché attraverso di loro gli strateghi della dittatura facevano in modo che l'MLN-T non continuasse ad agire: qualsiasi movimento sbagliato e avrebbero eliminato uno dei leader. I nove ostaggi furono Mauricio Rosencof (scrittore, ora direttore della sezione Cultura della provincia di Montevideo), Eleuterio Fernández Huidobro (oggi senatore), Raúl Sendic (morto a Parigi nel 1989), Henry Engler (esperto in neuroscienze), Adolfo Wassen (morto di cancro alla colonna vertebrale mesi prima di essere liberato), Jorge Zabalza (oggi allontanatosi dal Movimento), Jorge Manera (anche lui allontanatosi), Julio Marenales e José Mujica. Fra tutti, si dice che Henry Engler e José Mujica furono quelli che risentirono di più della prigionia. Engler, oggi residente in Svezia, fu candidato al Nobel per la Medicina e fu protagonista di un documentario, "El Círculo", che racconta l'evoluzione della sua pazzia durante la reclusione. E Mujica invece, dice che lui arrivò a parlare con rane e formiche.
Marenales lo spiega così:
"Se passi dodici anni in un quadrato di un metro per un metro, le esperienze sono così limitate che bisogna fare un grande sforzo per capire se le cose le hai pensate, le hai vissute o le hai sognate. Tutto il movimento si compie con la mente, e questo è pericoloso. Tutto, a un certo punto, può trasformarsi in finzione". Marenales ha il respiro corto quando parla: è solo una piccola aspirazione, l'inizio di una mancanza d'aria che poi si spegne. Le sue mani sono grandi, ha fatto il falegname, ma il resto del suo corpo è piccolo, magro, perfino giovane. Gli anni di confino devono influire, in qualche modo, nell'aspetto esteriore di quest'uomo: c'è un tempo morto nel viso di Marenales; un velo insormontabile. L'ultima volta che lo presero, nel 1972, Marenales lanciò, su chi lo stava catturando, una granata che non scoppiò. Ricevette in cambio quattordici colpi di mitra.
"Sono sopravvissuto per miracolo, -dice- tutti sono sopravvissuti per miracolo." Ad alcuni metri di distanza, un ventilatore soffia aria su una bandiera dei Tupamaros. La casa sa di carte vecchie. Tutto qui sembra più vecchio della sua età. Questo posto esiste dal 1986, quando finì la dittatura. E già nel 1989 fu deciso che l'MLN-T avrebbe continuato a funzionare, e avrebbe mantenuto questo locale, ma sarebbe entrato a far parte del sistema politico con un altro nome, il 'Movimiento de Participación Popular' (MPP), al quale appartiene Mujica. L'MPP, a sua volta, entrò a far parte del Frente Amplio: la coalizione di partiti di sinistra che da due legislature, prima con Tabaré Vázquez e ora con Mujica, governa l'Uruguay. In un angolo della sala principale c'è un cestino per l'immondizia con attaccato sopra il volantino di Mujica. Appare tutto pettinato, pulito: presidenziabile. "Per fare quella foto gli fecero il bagno - scherza- dopo Eleuterio Fernández Huidobro. Pepe lo abbiamo messo lì noi. Abbiamo sempre lavorato come un collettivo. Al di là delle caratteristiche personali di ciascun compagno, noi non crediamo che la storia vada avanti sulla base di uomini brillanti."
"Ma perché è stato scelto Mujica e non un altro?" Marenales si sistema la montatura dorata degli occhiali, sulle ossa sottili, si abbassa in avanti, e parla: "Perché Pepe aveva un vantaggio. Nel Frente Amplio a noi non ci volevano granché. Dicevano che eravamo dei bifolchi. Ma Pepe aveva tre appoggi: quello delle nostre spalle, perché nel Movimiento lo abbiamo sostenuto come abbiamo potuto. Quello della sua storia personale, perché Pepe viene dalla terra e l'ha sempre coltivata, senza sentire mai sopra di lui la mano del padrone, sempre più o meno in modo autonomo. E quello di coloro che stanno in basso. Sono stati loro che lo hanno portato alla presidenza. Ed è per questo che Pepe ha preso un impegno grande con la gente umile. E dobbiamo aiutarlo a mantenere fede a quell'impegno. Perché è quello che sta facendo." Marenales non ha voluto incarichi nel governo. Ci sono anche quelli che dicono che questo rifiuto è dovuto al fatto che è clinicamente pazzo -un sinonimo adatto alla definizione di 'disadattato'-, ma forse esiste anche un altro motivo: perché ci sia un Mujica che governa il paese, ci deve essere anche un Marenales che gli dice all'orecchio: "Non dimenticare. Non dimenticare quello che siamo stati una volta. Non dimenticare l'obiettivo. Questo gli dico. Però in realtà lo vedo sempre meno."
Fra le rarissime foto di quei tempi, esiste un'immagine che ritrae Marenales di profilo. È il 1968, lo stanno portando in carcere a Punta Carretas, e quello che si osserva è un uomo col naso dritto, i capelli anneriti, la fronte corrucciata e il viso ermetico. L'uomo forte che Marenales è stato e continua a essere. Un uomo che stava programmando, in quello stesso momento, la sua fuga. "Shopping Punta Carretas": così dice il cartello all'entrata. Il nome è scolpito all'ingresso del centro commerciale, su un'insegna degli inizi del 1900, nello stesso posto dove prima si leggeva "Cárcel de Punta Carretas". Prima tutto questo era grigio, ma ora ha il colore che l'immaginazione neoliberale riserva per questi casi: il beige. Tutte queste merde sono sempre beige. A sinistra dell'entrata c'è un Mc Café, a destra un ristorante che dice Johnny Walker, e in fondo c'è il centro commerciale, che è uguale a tutti i centri commerciali della terra, pavimenti lucidi, borse con le cordicelle, e il vapore di una musica che non è nemmeno brutta: è fredda.
Non è facile immaginare in che angolo di questo edificio possa essere stato Mujica; dove avranno ideato la loro fuga, questi tipi? Nel negozio Lacoste? In quello delle calze Sylvana? Adesso c'è un soffitto trasparente e si può vedere il cielo, ma prima? Che dimensioni aveva il cielo prima? Nella sede dell'MLN-T, senza che Julio Marenales lo sapesse, c'era un modellino del carcere: si vedeva, in sezione longitudinale, un carcere di quasi quattrocento celle divise in due bracci di quattro piani ciascuno, separati da un cortile centrale. Lì, cioè, qui, nel 1970 arrivò Mujica con il corpo cucito di pallottole, dopo aver passato tre mesi all'Ospedale Militare. Quel percorso era cominciato tempo prima, nel bar La Vía, il luogo nel quale si era recato Mujica con altri Tupamaros, per organizzare il furto a una famiglia milionaria che si chiamava Mailhos. Quella notte un poliziotto riconobbe Mujica mentre stava appoggiato al bancone, e chiamò chiedendo rinforzi. Quando arrivarono, Mujica aiutò i compagni a fuggire, ma non poté farlo lui. Un poliziotto gli sparò, era nervoso. "Occhio, che ti può scappare un colpo", gli disse Mujica. E il colpo gli scappò. Mujica arrivò all'Ospedale Militare con sei pallottole in corpo. Ma vivo. E tre mesi dopo fu mandato a Punta Carretas: un luogo che, a confronto di ciò che avrebbe visto dopo, somigliava abbastanza a una scuola di studenti adolescenti.
Lì (o qui?, potremmo continuare a dire 'qui'?) i militanti addestravano nuovi compagni (delinquenti comuni che finivano per unirsi al Movimento) e li formavano al lato stoico della rivoluzione: le loro celle erano pulite, i loro corpi atletici, e le loro teste..., insomma, a questo punto è chiaro come lavoravano le teste di questi tipi. "Io davo lezioni di tattica e insegnavo a fare esplosivi -raccontò Marenales- nella sede dell'MLN-T-. Il livello di precisione dei disegni era molto alto. Se da una parte bisognava fare una vite e il compagno disegnava un piccolo cerchio, io allora gli dicevo: questo non è una vite, è un chiodo. La vite ha una fessura per il cacciavite. A questo livello di precisione. Era necessario essere dettagliati. Con gli esplosivi fai un errore, ed è l'unica volta che lo fai."
Sempre più detenuti comuni cominciarono a considerare i Tupamaros come un gruppo ammirevole, e alcuni ladri misero a disposizione della causa le loro conoscenze: insegnarono, per esempio, a fare un buco nel muro in nemmeno un minuto, lavorando non sui mattoni, ma sulla malta che li unisce. Grazie a questo, tutte le pareti del carcere, e anche alcuni soffitti, avevano il loro buco e tutte le celle erano segretamente collegate fra di loro. Quest'opera di ingegneria permise la storica fuga del 6 settembre 1971. "Volevamo organizzare un piano di fuga che non solo volesse dire tornare in libertà, ma che rappresentasse anche un duro colpo per il governo. -disse Marenales- Volevamo umiliarli."
Il 13 agosto 1971, alle sette di mattina, dopo il primo controllo dei prigionieri nelle celle, i detenuti cominciarono a scavare sotto un letto. Mettevano la terra in sacche che erano state preventivamente confezionate con le lenzuola del carcere, e quelle sacche le mettevano sotto le cuccette. Quando quella superficie si riempiva, si apriva il buco che collegava le celle e si passavano le altre sacche sotto il letto della cella accanto. Così, in assoluto silenzio, due piani del carcere si riempirono di macerie. La perquisizione dei piani avveniva ogni ventitré giorni, e quindi i Tupamaros avevano poco più di tre settimane per fare quaranta metri di tunnel. José López Mercao, che stava nella cella accanto a quella di Mujica, poi avrebbe ricordato questo aneddoto: "Una volta Pepe prende e fa: "Svelti! Chiudete tutto, che il prigioniero di sopra, che è un rompiscatole, sta battendo e dice che qui sotto c'è rumore, chiudete tutto che ci viene tutto addosso!". Fu il delirio: riempimmo con le macerie, mettemmo il gesso, una mano di pittura, uno strato per asciugare, e poi rimanemmo quieti ad aspettare; in vita mia non ho mai fatto una cosa così velocemente. E quando abbiamo finito, quel vecchio figlio di puttana ci disse: "No, era per vedere quanto tempo ci sarebbe voluto per chiudere tutto, solo quello...".
Dopo aver lavorato più di cinquecento ore senza fermarsi, e senza rimanere indietro di un giorno, la notte del 6 settembre 1971 centoundici uomini (centosei guerriglieri e cinque detenuti comuni) scapparono in un'azione che loro stessi definirono "l'abuso". "L'abuso -avrebbe detto López Mercao- perché quello che facemmo fu un abuso". Gli uruguaiani hanno questo senso dell'umorismo. L'abuso venne in mente a Mujica. C'erano diversi piani per la fuga, ma quello che fu scelto venne fuori da un'idea di Pepe. Lui ebbe l'idea di fare i buchi attraverso tutte le pareti. E poi quell'idea fu come l'invenzione della ruota: c'erano diversi piani di fuga, e quindi serviva per molte più cose. (Josefina Licitra, 2014)
Testimonianze 3.
Eleuterio Fernández Huidobro oltre a essere senatore, è un altro dei Tupamaros che Mujica definisce come un 'fratello'. "Pepe è sempre stato un pragmatico. C'erano i teorici, quelli che per fare una cosa la complicano, e c'era Pepe, che veniva dall'esperienza di lavorare la terra. Come dice l'aforisma, Pepe pensa come Aristotele, ma parla come Giovanni Popolo."
Huidobro è appoggiato al bancone di un bar. Il suo sguardo schivo, unito alla grassezza e alla stanchezza stampata sul viso morbido, fanno pensare che quest'uomo una volta abbia avuto la sua integrità. Ci sono anni che durano per sempre: forse è questo. Ci sono anni che non finiscono mai. Come Mujica, Huidobro è stato a Punta Carretas, è uscito con 'l'abuso', è passato dal carcere di Libertad (che stranamente si trova in un paese che si chiama Libertad), e andò a finire nelle caserme: sotterranei con celle di 1,80 x 0,60 dove i nuovi ostaggi furono costretti poi a passare dieci anni di vita. Questa ultima tappa fu brutalmente diversa dalle precedenti: gli ostaggi erano separati, in gruppi di tre, e ogni terzetto andava in una caserma diversa; i prigionieri erano completamente isolati fra loro; praticamente non ricevevano né cibo né bevande; non gli si permetteva di andare in bagno; men che meno ricevevano lettere, o visite.
Huidobro era nella stessa caserma con Mauricio Rosencof e Mujica. Era quasi impossibile avere contatti fra loro, ma durante gli anni riuscirono a mettersi d'accordo su un punto: non dovevano impazzire. Rosencof cominciò a scrivere mentalmente: erano poemi di versi brevi, a volte di un'unica parola, perché fossero più facili da memorizzare: Io/non/sono/pazzo,/dico./Perché/mi guardi?/Io/non/sono/pazzo,/dico./Gira/il corvo,/dice./Guardo/il suo nido. Rosencof scriveva cose così, e fu lui che riuscì a intrattenere lunghi dialoghi con le sue scarpe e uscendo dal carcere pubblicò un libro bello, indimenticabile, di sue poesie: "Conversaciones con la alpargata" (Conversazioni con le scarpe di corda).
Huidobro, da parte sua, passò anni interi a immaginare che correva lungo la spiaggia e faceva la pipì dove capitava. E Mujica diventò amico di nove rane e verificò che le formiche, se si ascoltano da vicino, comunicano con grida. In "Mujica", la biografia completa scritta da Miguel Ángel Campodónico, Mujica riassume in questo modo il suo passaggio dalle caserme: "Io di solito non parlo della tortura e di quanto ho sofferto. Mi dà perfino un po' fastidio, perché ho visto che a volte c'è stata una specie di corsa misurata con un 'torturometro'. Persone che si compiacciono nel ripetere 'ah, come sono stato male'. Io dico che io sono stato tanto male per mancanza di velocità, fu per quello che mi presero. Alla fin fine, la vita biologica è piena di trappole così enormi, così tragiche, così dolorose, che quello che successe a me fu una sciocchezza". E lo dice: una sciocchezza. Dal terzo anno di reclusione i nove ostaggi cominciarono a ricevere materiale di lettura. Non erano permesse opere di scienze sociali o romanzi, ma era lo stesso: tutte le parole a quel punto erano finzione. Mujica si dedicò alla matematica e alla rivista Chacra.
"Poi Pepe mi aggiornava sulle sue letture e mi parlava della Pampa umida" -dice Huidobro-. Ma quando dice 'parlare' in realtà si riferisce a un'altra cosa: col passare del tempo, Rosencof, Huidobro e Mujica idearono un sistema di dialogo attraverso colpi sulle pareti. Seguendo questo modello, le lettere dell'alfabeto erano divise in gruppi di cinque. Il primo colpo definiva il gruppo, e il secondo colpo dava l'ordine della lettera all'interno del gruppo. "Quando ci prendevamo la mano, parlavamo come matti. È come una seconda lingua che poi ti resta per sempre." "Di cosa parlavate con Mujica?"
"Lui di solito mi parlava di agricoltura, di come migliorare la produttività dei campi. E poi, quando hai molta fame, fame che ti porti dietro da anni, non c'è comunicazione che non inizi o finisca con il cibo. Con Pepe parlavamo di patate, maiali, vacche, ma in realtà stavamo parlando di costolette. Per mancanza di liquidi e di cibo, Mujica si ammalò gravemente alla vescica e ai reni. Non si è capito cosa avesse, ma si sa che doveva andare spesso in bagno, che non lo lasciavano uscire dalla cella e che adesso ha un solo rene. Per guarire doveva bere due litri di acqua al giorno. Ma nei periodi buoni i militari gliene davano appena una tazza. Con quella tazza Mujica finì per fare l'unica cosa possibile: riutilizzare quello che produceva. Beveva la sua pipì. Tutti lì bevevano la propria pipì. Anni dopo, quando dalle caserme avvertirono che la situazione di Mujica era clinicamente grave, i carcerieri cominciarono a idratarlo con un cucchiaio di thè e permisero che sua madre, Lucy Cordano, gli portasse un vaso da notte. Era un vaso da notte rosa. Da quel momento, Mujica si portava quel vaso da notte sotto il braccio ogni volta che lo trasferivano di caserma -e succedeva ogni sei mesi- e lo fece anche nel 1983, quando le pressioni degli organismi internazionali riuscirono a far trasferire i nove ostaggi al carcere di Libertad."
"Quando dopo dieci anni ci fecero tornare a Libertad, una causa per la quale stavamo lottando, per noi fu un paradiso -continua Huidobro-. Noi eravamo felici, felici in un modo incredibile, non te lo puoi nemmeno immaginare, perché avevamo mezzo pacchetto di sigarette e un luogo dove andare a fare la pipì. A Libertad c'era mezz'ora d'aria al giorno, i detenuti discutevano di politica e si giocavano perfino partite di calcio. Ma Mujica non migliorava. Nessuno lo tirava fuori dal suo isolamento. Alla fine lo vide un medico e si prese la decisione: Mujica avrebbe lavorato nel vivaio del carcere. Qualcosa ritornò a Mujica, quando Mujica tornò alla terra."
"Ho detto che sono quasi panteista -disse Mujica nella biografia di Miguel Ángel Campodónico-. E quando dico che parlo con le piante, naturalmente non sto dicendo che veramente parlo con loro, ma che cerco di interpretarle. C'è un'infinità di linguaggi, di segnali, che naturalmente a partire dal momento in cui li ho capiti mi suscitano ammirazione. Sono tutte forme organizzate dalla natura per mantenere la lotta per la vita. Una zolla dev'essere come un intero laboratorio, così complicato che l'uomo non è nemmeno capace di riprodurlo. Si può essere religiosi perché si è analfabeti. Ma si può anche avere un atteggiamento religioso quando si inizia a sapere e si capisce che non si sa nulla." Il 14 marzo del 1985, quando cadde la dittatura e Julio María Sanguinetti assunse la presidenza dell'Uruguay, ai nove ostaggi fu concessa l'amnistia e furono rilasciati. Mujica uscì dal carcere con il vaso da notte in mano, pieno di calendule fiorite.
Un uomo arriva in Vespa al Parlamento. Ha i capelli arruffati dal vento, un paio di jeans, un giubbotto nero, i baffi. Lascia la moto parcheggiata all'entrata.
"Quanto tempo pensa di stare?", chiede la guardia.
"Se non mi buttano fuori prima, cinque anni", risponde l'uomo.
Questo, secondo una leggenda che nessuno nega con molta enfasi, è quello che sarebbe successo il primo giorno in cui José Mujica, primo Tupamaro deputato, arrivò al Parlamento. Era il 1995 e quello stesso giorno, trasmesso sulla televisione nazionale, prestava giuramento come presidente per la seconda volta Julio María Sanguinetti, e quindi la sala era piena di ambasciatori, mandatari, esponenti della gerarchia della chiesa e autorità varie. Ma Mujica entrò così: capelli arruffati, jeans, senza cravatta. "Io ho pensato: crederanno che è una manovra pubblicitaria -disse Huidobro al bar, giorni prima-. Loro non lo sanno, mentre io sì, che il giubbotto è nuovo. Che i pantaloni sono nuovi. Che si era pettinato. E che non si vestirà mai più così. Come diceva Sancho a don Chisciotte: -Ciascuno è come Dio lo ha fatto, e a volte anche peggio-. Anche peggio."
L'arrivo di Mujica al Congresso significò un cambiamento per la politica uruguaiana. In primo luogo, perché furono cambiati gli usi e i costumi della Camera; per esempio, arrivò il mate nelle sedute legislative. In secondo luogo perché quella cosa formale in realtà portava con sè un cambiamento di fondo: Mujica ha usato il suo seggio in Parlamento per girare il paese e inserire nei suoi discorsi ciò che già, da piccolo, caratterizzava la sua vita: l'agricoltura. Mujica, figlio di una floricultrice e di un padre allevatore che finì rovinato e morì giovane, fece il suo primo discorso nel Palazzo Parlamentare sul tema del pascolo. E dal pascolo passò alla vacca che mangiava il pascolo. E dalla vacca passò al paese allevatore. "Coloro che credevano che Pepe fosse un problema di comunicazione passeggero, un prodotto effimero, si sbagliarono -disse Huidobro-. Pepe fu uno dei migliori deputati di quella legislatura, un oratore brillante. È stato lui a dare voce a tutto l'interno dell'Uruguay e ha avuto una specie di fidanzamento appassionato con il pubblico."
L'arrivo al Parlamento è stato solo l'inizio. Cinque anni dopo Mujica è stato eletto senatore. E nel 2004 la sua figura si è rivelata chiave perché la sinistra, comandata dal moderato Tabaré Vázquez, arrivasse per la prima volta al potere. Mujica partecipò al governo di Vázquez come ministro dell'Allevamento, Agricoltura e Pesca, e ne uscì benissimo. Tanto, che nel 2009 stravinse le primarie all'interno del Frente Amplio per presentarsi alla candidatura presidenziale, e affrontò le elezioni nazionali con proposte impensabili per qualsiasi candidato del ventunesimo secolo. Mujica propose di discutere della proprietà privata delle grandi proprietà terriere, togliere il segreto bancario, "importare" contadini dal Perù, dalla Bolivia, dal Paraguay e dall'Ecuador perché lavorassero nelle zone rurali "perché i montevideani poveri di qui non lo fanno" e risolvere il problema della droga "prendendo i drogati per le chiappe e sbattendoli in una fattoria". Insomma, propose di prendere il toro per le corna. Il che comportava dei dubbi dal punto di vista operativo -come si poteva fare?- e dilemmi di tipo congiunturale.
Mano a mano che Mujica iniziò a parlare, si capì che il maggior oppositore non si trovava nell'altro partito, e nemmeno in un altro corpo: il maggior pericolo di Mujica era, in parte, il suo più grande capitale politico: la sua inusitata franchezza. L'onestà di Mujica arrivò al suo culmine in ottobre, a pochi giorni dal ballottaggio che avrebbe assegnato la presidenza a lui o al liberale Luis Alberto Lacalle, proprio quando uscì il libro Pepe Coloquios: una lunga intervista nella quale Mujica, solo per dare qualche esempio, dice che l'Argentina "non è un paese di quarta categoria, non è una repubblica delle banane", ma ha delle "reazioni da isterico, da pazzo, da paranoico"; che "in Argentina bisogna andare a parlare con i delinquenti peronisti, che sono i re"; che quelli di Buenos Aires hanno la mania di venire a fare il bagno qui, e a loro piace, perché è un piccolo paese simile al loro, ma più dolce, più decente" e che "i radicali sono dei tipi molto bravi, ma sono degli stupidi".
Cioè: Mujica non ha detto niente che nessuno non pensi già. Ma il mondo della politica impone le sue regole di cortesia ed è stato così che Mujica ha ridimensionato la maggior parte delle sue dichiarazioni, immediatamente ha chiesto scusa, ha diminuito drasticamente i suoi incontri con la stampa, un provvedimento ancora in vigore, ed è riuscito a vincere il ballottaggio con il 52,53% dei voti. "Questo mondo è pura facciata; e questo non si può dire, e quello nemmeno... La libertà è ipotecata! Uno dei vantaggi che suppone il fatto di essere vecchi è poter dire quello che si pensa. Ma sembra che questo significhi creare un casino della madonna." Questo ha detto Mujica qualche giorno prima della prima tornata elettorale, in un'intervista alla rivista messicana Gatopardo, quando si stava già parlando del disastro di Pepe Coloquios. Quindi saranno questi i vantaggi di essere vecchi. Il prossimo 20 maggio, Mujica compirà settantasei anni. (Josefina Licitra, 2014)
Testimonianze 3.
Zoppica. Camminando per il corridoio del Palazzo del Parlamento, Lucia Topolansky, sessantasei anni, la senatrice più votata del Parlamento, terza nella linea di successione alla Presidenza, Tupamara, compagna (lei non dice 'consorte', non dice 'moglie', dice 'compagna') di José Mujica, viene avanti con una lieve zoppia ai fianchi. Il Parlamento è deserto; è febbraio. I passi risuonano in un modo diverso. "Vieni", dice Topolansky. La seguo. Il suo ufficio è piccolo: nove metri quadrati dove ci sono alcune cartelline, una finestra, uno scrittoio. Sul tavolo di lavoro ci sono carte, una scatola con del thè e lingue di gatto, e una piccola tartarughina di legno verde che muove la testa come a dire 'sì'. Topolansky, con i capelli corti, bianchi, taglio discreto, accarezza dolcemente la tartaruga.
"Dimmi", dice. E io le racconto. Le parlo della rivista. Delle nostre buone intenzioni. Topolansky ascolta con un sorriso unito a qualcos'altro: a una cortese messa in scena della distanza. Tutti dicono che questa donna è dura. In tempi di militanza clandestina la soprannominavano 'il tronco' per quel corpo così massiccio, e probabilmente non solo il corpo era così duro. Fra il 1970 e il 1985 Topolansky rimase in carcere quasi tutto il tempo. Crede che quella reclusione fu necessaria. "Il popolo apprezzò molto che i dirigenti dell'MLN non scappassero in esilio, che rimanessero in Uruguay e condividessero la sorte del loro popolo. Tutti i nostri dirigenti furono incarcerati e questo la gente lo prese con favore. Questi fatti ci diedero un certo prestigio. Può sembrare molto soggettivo, ma queste sono le ragioni dell'anima che restano incise nella memoria della gente."
Topolansky è figlia di una famiglia di classe medio-alta del quartiere Pocitos e ha studiato al Sacre Coeur, una scuola di monache che era diventata famosa, tra le altre cose, per la sua altera calligrafia conosciuta come 'la grafia del Sacre Coeur'. Questo però non spiega perché dica 'sogetivo'. Nè perché più avanti dirà 'prodoto' o 'adatarsi'. C'è chi dice che potrebbe trattarsi di una posa, ma questa ipotesi cancella -o mette in secondo piano- la possibilità della colpa. Quello che è certo è che Topolansky, pantaloni color crema, camicia bianca molto leggera, dice 'sogetivo' e poi, al contrario di qualsiasi sindacalista argentino, si adatta a vivere come parla. E questo da molto tempo. E questo, forse, dovrebbe essere abbastanza. Topolansky si arruolò nell'MLN-T a vent'anni, e fin dall'inizio diede prova di avere carattere. Era il 1969 e a quell'epoca lavorava da Monty: una finanziaria che, aveva scoperto la Topolansky, teneva la contabilità in nero praticamente di tutto il gabinetto dei ministri e dei capoccia della oligarchia uruguaiana. Quando seppe la verità, Topolansky si chiese fino a che punto era complice di quella situazione e che cosa doveva fare: se andarsene o denunciarli. Scelse entrambe le cose. Si arruolò nell'MLN-T con la sua informazione privilegiata e insieme al Movimento riuscì a fare in modo che le fotocopie dei libri contabili finissero davanti alla porta di casa di un giudice e scatenassero uno scandalo politico che si trascinò dietro il ministro del Tesoro. Inoltre, ovviamente, si licenziò. "Quando sei una ragazzina pensi le cose con un'altra testa. Adesso, con l'età che ho ora, rifletterei di più su tutta la questione. Ma appartengo a quella generazione sulla quale la rivoluzione cubana ha avuto un forte impatto, e le cose bisogna vederle in questo contesto. Eravamo convinti che potevamo fare la rivoluzione. Convinti. E quanto tu sei motivato, ovviamente il rischio si vede in un altro modo."
A quei tempi, in alcune delle tante riunioni clandestine, Topolansky conobbe José Mujica. Stettero insieme alcuni mesi, ma poi entrambi finirono in carcere: lei a Punta Rieles (da cui scappò, anche se poi la ripresero) e lui a Libertad e poi nelle caserme. Al di là di alcune lettere nei primi tempi, il resto del fidanzamento fu segnato da un lungo, interminabile silenzio. Sopravvissero anche a quello. Quando parla della sua compagna, nel libro di Campodónico, Mujica lo fa così: "Visto che entrambi eravamo soli, alla fine ci siamo messi insieme. Nella formazione della coppia c'è stato un elemento di bisogno, fu una specie di rifugio reciproco. Ci ritrovammo in un'epoca abbastanza particolare, del tutto diversa da quella che ci eravamo lasciati indietro. Credo che qualche volta glielo dissi in una lettera: quando uno si avvicina ai cinquant'anni pensa che una buona compagna deve essere una buona cuoca. L'amore quindi comincia ad avere molto di amicizia, di cose che rendono la convivenza più facile. E credo che tutto questo è quello che ci ha fatto restare insieme, andiamo d'accordo che è una meraviglia". Un bisogno, un rifugio: l'amore per loro era questo.
"In quegli anni, in cui si correva da una parte e dall'altra, tutto era subito. -dice Lucia Topolansky- Era molto difficile il dopo. Tutto era oggi, subito, perché domani non so se ci sarò, e tutti i rapporti umani venivano permeati da quell'urgenza." "Ma non c'era il colpo di fulmine?" Qualcosa si ammorbidisce, si schiarisce, nel volto della Topolansky.
"Certo che esiste l'affinità, l'amore, il colpo di fulmine, la chimica o dagli il nome che vuoi."
"Quindi, poteva esistere, fra militanti, un pensiero tipo "che begli occhi che ha"."
"Certo. Quella è l'unica cosa che ti tiene su. Ti attacchi a quelle cose. Il rapporto con Pepe ebbe tre fasi: quella degli occhi belli, poi una lunga fase di separazione in cui il ricordo della prima ti serve come l'ossigeno, e poi una tappa che è questa, in cui siamo riusciti a reincontrarci e a ricostruire tutto."
Nel 2005 Topolansky e Mujica si sono sposati nella cucina della sua fattoria. I testimoni sono stati i vicini: alcuni che vivono nello stesso terreno, e altri che hanno un bar sgangherato all'angolo, e l'evento è durato poco più di un'ora. Quella stessa sera, l'8 ottobre, Pepe fu a un evento dell'MPP e fece vedere i documenti del matrimonio.
"Sì. Un giorno a Pepe gli è venuto in mente che ci potevamo sposare e ci siamo sposati."
"Ma l'idea ti era piaciuta?"
"Eh... mah... in realtà di fatto non mi ha cambiato niente, no? Io sono sempre stata mezza anarchica da piccola, vedevo come le mie zie e le mie cugine si complicavano la vita per sposarsi, e così ho sempre seguito le scelte che mi permettevano di mantenermi mezza libera. Senza alcun legame. E sì, non ho avuto legami di alcun tipo." Silenzio. "Non so cosa sarebbe successo se avessi avuto un figlio a quell'epoca. Ma non lo abbiamo avuto."
Né in quel periodo né in nessun altro. Mujica e Topolansky non hanno avuto figli; e a loro dispiace. Questo è il baretto all'angolo. È qui che ha festeggiato José Mujica quando ha vinto le elezioni. Qui ha riunito il suo gabinetto dei ministri. È qui che ha portato il venezuelano Hugo Chávez quando lo ha voluto omaggiare, nel 2007. E qui, in fase preelettorale, ha organizzato il suo ufficio. Il luogo si chiama "El quincho de Varela", è a cento metri dalla fattoria di Mujica e consiste in una costruzione rettangolare, con un tetto di paglia e pareti di mattoni, e si trova di fronte a un campo appena arato. Il luogo appartiene a Sergio 'El Gordo' Varela, soprannominato anche "lo zozzone": un commerciante all'ingrosso di alimentari che non rilascia dichiarazioni alla stampa e che durante la campagna si occupò di mettersi in contatto con le diverse imprese del Centro de Almaceneros per chiedere loro fondi che sostenessero il nuovo cambiamento al vertice.
Gli interni del baretto di Varela brillano di un pavimento di pietra consumato, un tetto dal quale pendono due bandiere, una del Frente Amplio, un'altra dell'Uruguay, e varie immagini del Che, di Neruda, Allende e Chávez, tavoli fatti con tavole su cui qualcuno ha scritto 'Pepe presidente', una masnada di cani spelacchiati, e giocattoli di bambini gettati a terra. Una donna grossa e con vestiti scoloriti si avvicina, spaventa i cani, si toglie il sudore dalla fronte e dice: "Vabbé, poi quando vengono loro sistemiamo un po' meglio."
I funzionari del governo che appartengono al Movimiento de Participación Popular (MPP) hanno un tetto per i loro stipendi. Il massimo che possono guadagnare sono trentasettemila pesos (millenovecento dollari). Questo significa che la maggioranza, di loro: Huidobro, Mujica, Topolansky e il ministro Eduardo Bonomi, prendono al netto appena il trentacinque per cento del loro stipendio. Il resto va al Fondo Raúl Sendic(che concede microcrediti a progetti per lo più di cooperative, senza interessi, senza firmare carte e senza la richiesta di appartenere al Movimento) e a un fondo di solidarietà con cui si presta soccorso ai militanti dell'MPP che stanno attraversando un momento di emergenza economica. (Josefina Licitra, 2014)
Testimonianze 4.
Nel suo ufficio Eduardo Bonomi, ministro degli Interni, considerato il braccio destro di Mujica nel governo, spiega il limite di stipendio in questo modo: "È molto facile dare ciò che ci avanza. La questione è dare quello che non ti avanza." "Ma non ti viene mai la voglia di comprarti un televisore al plasma?"
Bonomi si massaggia il labbro inferiore.
"Eh... io vivo in una casa in cooperativa. A questo punto, ora che abbiamo finito di pagare le rate, paghiamo solo le spese comuni. Abbiamo un'auto del '94... Insomma, l'austerità di Pepe è unica, ma che Pepe sia arrivato dove è arrivato, non è un caso."
"Non è cambiato niente in Mujica?"
"Operativamente Pepe ha più responsabilità. Ma è la stessa persona. Continua ad alzarsi e a farsi il mate, e ad ascoltare gli uccelli. Ma quasi tutti siamo così. Io mi alzo alle sei, ascolto le notizie..."
"Ma non c'è nessuna posa da parte di Mujica?"
"No, è così. È così. Lui è così. Macché posa. La vita di Pepe è molto semplice e passa attraverso la terra. Quando uno se ne va in ferie e se ne va in montagna, o al mare, Pepe se ne va a lavorare la terra. E la domenica, quando tutti ci riposiamo, lui si alza presto per lavorare la terra. Se non fa così, non si riposa. La terra è il luogo dove Pepe organizza le sue idee. Ognuno è come è."
Si tocca di nuovo: il labbro inferiore è molle, e si nota.
"Il problema è che Pepe ha una cultura molto più alta e grande di quello che si deduce dal suo modo di parlare."
L'ufficio di Bonomi è ministeriale ma austero: ci sono legni lucidi, mobili robusti, poltrone e tende di panno spesso. Se attraversasse la porta del suo ufficio, Bonomi uscirebbe sul corridoio del ministero e vedrebbe un palazzo pure forte e robusto: solo quattro piani che si raccolgono intorno a un cortile centrale, e in mezzo un obelisco con l'iscrizione: "Omaggio ai caduti". Sistemate sul monumento, diverse targhe di bronzo ricordano il nome degli agenti di polizia morti in servizio. Qualcuno deve essersi fatte due risate di fronte a tutto questo. Bonomi vent'anni fa fu accusato di aver ucciso un poliziotto. Il ventisette gennaio 1972 l'Ispettore Rodolfo Leoncino, capo della sicurezza del carcere di Punta Carretas, aspettava l'autobus quando gli spararono una raffica. L'ordine, dicono le accuse, sarebbe stato eseguito da quattro Tupamaros, fra loro Bonomi. Ma sarebbe stato dato, dal carcere, da tre militanti fra i quali c'era anche José Mujica.
"Quando sono uscito, con l'amnistia, mi trovai di fronte ai giudici, e la prima cosa che mi chiesero fu se un tale giorno a una tale ora avevo fatto una tal cosa, e risposi: -Mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN-".
"Ma non le stiamo chiedendo questo, ma se il tal giorno alla tal ora..."
"Va bene, io le sto rispondendo che mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN."
Me lo chiesero cinque volte, e cinque volte ho detto la stessa cosa. Il labbro. Di nuovo si tocca il labbro.
"E ogni volta che mi fanno la domanda, rispondo: mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN."
Bonomi, giacca blu, pantalone grigio, cravatta, porta gli occhiali, ha una barba folta e una voce profonda: tutti questi tipi hanno la voce profonda, ancorata in qualcosa che deve essere il loro aspro passato.
"Quando durante la campagna di Mujica si vociferava che, se avessimo vinto, io sarei stato il ministro degli Interni, qui circolavano mail che mi accusavano di questo e anche di altre cose nuove. Cosicché, quando assunsi il mio incarico, nella Scuola di Polizia mi toccò fare un discorso, e allora dissi che io sapevo che erano circolate delle mail e che non volevo fare lo gnorri, e che capivo che i voti che aveva avuto il Frente Amplio non erano un appoggio a quelle accuse, ma piuttosto premiavano la visione di futuro, di un modello di Nazione con la partecipazione dei lavoratori, dei produttori e degli intellettuali. E ne furono entusiasti."
Bonomi di nuovo si tocca il labbro. Trenta anni fa un colpo gli prese in pieno la mandibola e ora non può aprirla troppo. Abitudini dell'epoca: quando José López Mercao resistette a un arresto, i militari gli spararono cinque colpi e lo finirono a terra con un sesto colpo che gli attraversò la bocca. Credettero che fosse morto, ma non lo era: i medici della marina lo trovarono e lo portarono all'Ospedale Militare. Lì gli misero in corpo quattro litri di sangue e seppe della presenza di Mujica: l'unico dirigente di cui conosceva il nome. Era il maggio del 1970.
"Mi ricordo che un giorno venne un medico con la divisa di militare e mi disse: -Che coglioni che ha Mujica, si afferrava alla barella e diceva: 'non mi lasciate morire, io sono un combattente'. Gli abbiamo dato tredici litri di sangue, che coglioni che ha-." (Josefina Licitra, 2014)
Testimonianze 5.
López Mercao ricorda e sorride: ha un viso possente, olivastro, e un sorriso attraverso il quale fanno capolino due denti leggermente limati nella punta interna: López Mercao sorride - quando sorride- come un bambino. Al suo fianco c'è Isabel Fernández, la sua compagna, e per casa girano le due figlie. Tutti vivono in un appartamento molto dignitoso nel quartiere El Cilindro, un quartiere della classe operaia di Montevideo. Alle pareti ci sono riproduzioni di Modigliani e di Van Gogh. Agli angoli dei grandi portacenere che accolgono le cicche delle sigarette fumate. Nel soggiorno ci sono mobili di bambù e un computer ingombrante. Nelle vetrine ci sono foto recenti fatte con una semplice macchina fotografica analogica: perfino le foto nuove sembrano vecchie. López Mercao, che a un certo punto è stato indicato anche come futuro capo ufficio stampa di Mujica(e alla fine non lo è stato) racconta tutta la storia che è stata raccontata in queste pagine: parla di Punta Carretas, dell'"abuso", del carcere di Libertad, dell'incertezza dei nove ostaggi, dell'arrivo al potere come di un bagno di significato. E lo racconta con un parlare grave e lento: il Nero(lo chiamano 'El Negro') ha la voce indurita dal fumo.
"E tu hai sognato tutto questo? Ti sono arrivati questi ricordi in sogno?"
"No. Io non sogno."
Fuori è buio e piove; i grilli cantano. Una delle figlie si avvicina e cerca della musica nel computer del soggiorno.
"In realtà -dice Isabel- ogni volta che ritorna su quei fatti, o si riunisce con i compagni a mangiare e a ricordare, io poi noto qualcosa di diverso. Con gli anni la cosa è andata diminuendo, pero io noto che ci resti male, Nero. Noto che resti come intristito. Noto che sogni."
La figlia Evelina mette un pezzo della banda uruguaiana "Cuarteto de nos". Il pezzo si chiama "El día che Artigas se emborrachó"(Il giorno che Artigas si ubriacò), fa riferimento al primo liberatore uruguaiano, mitico eroe nazionale che morì in esilio in Paraguay, e finisce con questa strofa: "Si ubriacò, perché la guerra male gli andò/e si ubriacò, perché qualcuno lo abbandonò/si ubriacò, e la patria lo ringraziò/Whisky per i vinti!". In generale le parole sono carine e per giunta qui c'è la birra, così tutti ci siamo messi a ridere. Ma il Nero, attraverso i suoi occhiali colla montatura fine, con il gomito appoggiato al ginocchio, riflette preoccupato.
"La storia uruguaiana è stranissima, gli eroi della nostra storia sono stati tutti sconfitti con onore -dice-. Per la storia essere un trionfatore non è redditizio. Guarda Artigas, Aparicio Saravia, Leandro Gómez, Batlle Ordóñez. In generale, se si vince qui, è un guaio. Ma diventi un idolo. Guarda Pepe, per esempio. Metti l'altro pezzo che piace a me."
Evelina obbedisce e mette l'altro. Fuori la pioggia continua a scendere e dopo qualche minuto il Nero si alza, tira una cicca dalla finestra e se ne va a prendere la macchina per portarmi in albergo.
"Ti voglio raccontare una cosa, perché lui non la racconta mai", sussurra Isabel quando suo marito se ne va. E poi mi dice: "Al Nero era arrivato un risarcimento di ventimila dollari. A quelli che hanno avuto grandi ferite, a quanto pare arriva, e il Nero e la sua mandibola raggiungevano il punteggio sufficiente per entrare in quel club. Pensando al futuro -alle figlie, alle operazioni di chirurgia maxillo-facciale- lui aveva mandato i suoi dati. E da quando li ha mandati ha cominciato a dormire male."
Una sera, Isabel trovò suo marito che diceva: "non posso". Non può accettare quei soldi. Mi ha detto:
"Se li accettassi, se volessi un risarcimento, sarebbe come pentirmi."
Io gli ho detto: " Nero, è il tuo corpo, sono le tue ossa, la mandibola rotta è la tua. Io non mi posso immischiare in questa cosa. Non accettare i soldi se non vuoi accettare i soldi."
E lì si sarà sentito liberato, perché si è messo a piangere. Isabel ha quarantasei anni, occhi celesti, capelli biondi: se ogni età fosse illuminata da una sua luce, si potrebbe dire che questa donna è illuminata dalla luce dei vent'anni. A questo penso, alla nobiltà del suo viso, quando il Nero suona il campanello per avvisare che è sul portone, che aspetta, in macchina. Il ritorno in albergo avviene in silenzio. La Avenida 18 de Julio, l'asfalto bagnato, il ritmo calante delle vie del centro: la città sembra un film muto; si sentono solo le gomme della macchina. Il Nero ferma la macchina.
"Beh, l'ultima cosa che posso dire è che furono gli anni più belli della nostra vita. Non abbiamo mai fatto i nostri interessi. Abbiamo dato tutto. E adesso viviamo in un esercizio di interrogazione periodica con quel ragazzino che siamo stati a vent'anni. Io non voglio fare a sessant'anni cose che mi sarei vergognato di fare a venti. Voglio andarmene dalla vita senza amputare delle parti di me stesso. Forse agli altri compagni succede la stessa cosa."
Questa è l'ultima cosa che dice il Nero prima di salutare con un gesto asciutto, appena una pacca sulla spalla, e di lasciare aperta una domanda: se questa storia doveva essere su José Mujica, o sulla meraviglia collettiva che ha permesso che esista, con assoluta semplicità, José Mujica. Questo testo, in qualche modo, ne è una lunga risposta. (Josefina Licitra, 2014)
Comunque, permetteteci di fare alcune domande a voce alta. Tutto il pomeriggio si è parlato dello sviluppo sostenibile. Di tirare fuori le immense masse dalle povertà.
Che cosa passa nella nostra testa? L'attuale modello di sviluppo e di consumo delle società ricche?
Mi faccio questa domanda: che cosa succederebbe al pianeta se gli indù in proporzione avessero la stessa quantità di auto per famiglia che hanno i tedeschi?
Quanto ossigeno resterebbe per poter respirare?
Più chiaramente: ha oggi il mondo gli elementi materiali per rendere possibile che 7 o 8 miliardi di persone possano sostenere lo stesso grado di consumo e sperpero che hanno le più opulente società occidentali?
Sarebbe possibile tutto ciò?
O dovremmo sostenere un giorno, un altro tipo di discussione?
Josè "El Pepe" Mujica
dal discorso tenuto alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile Rio G20, Rio de Janeiro, 21 giugno 2012
La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L'alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere.
José "El Pepe" Mujica