Desember 2023. Antropocene.
Concludo il 2023 dedicando l’ultimo “mestée” all’epilogo di un testo interessantissimo di Thomas Halliday. Halliday è Associated Research Fellow presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’università di Birmingham. La sua tesi di dottorato ha vinto la Linnean Society Medal per il miglior lavoro di ricerca in scienze biologiche del Regno Unito e ha vinto la Hugh Miller Writing Competition nel 2018.
Il testo è “I mondi di ieri”, edito nel 2022 e pubblicato in Italia nel settembre 2023.
Nell'epilogo Halliday disamina, come mai nulla da me letto in precedenza, con argomentazioni desuete, con dati inediti e sconvolgenti, concatenazioni e correlazioni fisico-chimiche, lo stato della Terra in questa fase dell’antropocene, completante la panoramica biografica del pianeta dall‘Edicarano (550 milioni di anni fa) al Pleistocene (20 mila anni fa) indagata nel volume.
Nel 1978, per la prima volta nella storia del pianeta, un essere umano, Silvia Morella de Palma, ha dato alla luce un bambino in Antartide. Da allora, almeno dieci bambini sono nati sul continente, quasi tutti nello stesso luogo in cui era nato il primo, un piccolo villaggio di nome Esperanza -Speranza- uno dei due insediamenti civili permanenti ai confini del mondo. Al momento della nascita di Emilio Marcos Palma, la lenta migrazione dei popoli su tutte le terre emerse del pianeta si era ormai completata. Esperanza è una comunità argentina di un centinaio di persone, un gruppetto di tozze casette dai muri rossi sovrastate dalle nere montagne innevate della penisola dell'Antartide occidentale. È una stazione di ricerca popolata quasi interamente da famiglie di geologi, ecologi, scienziati del clima e oceanografi, in prima linea nella raccolta dei dati per prevedere il futuro della vita sul pianeta.
La Terra è indubbiamente diventata un pianeta umano, ma non lo è sempre stata e forse non lo sarà per sempre. Per il momento, tuttavia, la nostra specie ha un’influenza superiore a quella di qualunque altra forza biologica. Il mondo di oggi è il risultato diretto -né la conclusione, né l’epilogo, ma il risultato- di quel che è avvenuto prima. Buona parte della vita passata ha seguito un percorso di lenti cambiamenti, ma basta un attimo perché tutto possa essere sovvertito. Impatti inevitabili con oggetti provenienti dallo spazio, eruzioni su scala continentale, glaciazioni globali: transizioni che costringono le strutture della vita a rimodellarsi. Se uno qualunque di questi eventi fosse avvenuto in un altro modo, o non fosse avvenuto per nulla, il futuro ancora non scritto si sarebbe configurato in modo molto diverso.
É osservando il passato che i paleobiologi, gli ecologi e gli scienziati del clima possono affrontare l'incertezza sul futuro prossimo e su quello a lungo termine del nostro pianeta, prevedendo futuri possibili.
A differenza di momenti del passato in cui una singola specie o un gruppo di specie hanno modificato in modo fondamentale la biosfera -ad esempio con l’ossigenazione degli oceani o i depositi di carbone fossile- la nostra specie è nell’insolita posizione di poter controllare il risultato. Sappiamo che si sta verificando un cambiamento, sappiamo di esserne i responsabili, sappiamo che cosa accadrà se va avanti così, sappiamo di poterlo fermare e sappiamo come farlo. Il problema è se ci proveremo oppure no.
Osservare il passato paleontologico della Terra significa esaminare una serie di risultati possibili, ragionare su una prospettiva davvero a lungo termine. Da un lato, la vita è sopravvissuta alla Terra a palla di neve, ai cieli avvelenati, agli impatti con i meteoriti e ai vulcani su scala continentale, e il nostro mondo è vario e spettacolare come non mai. La vita si riprende, e all’estinzione segue la diversificazione. In un certo senso è confortante, ma c’è anche dell’altro. La ripresa porta con sé un cambiamento radicale, e spesso mondi straordinariamente diversi; inoltre, perché si completi, servono come minimo decine di migliaia di anni. La ripresa non può sostituire quel che è andato perduto.
Il motto della comunità di Esperanza è: “Permanencia, un acto de sacrificio” (“Permanenza, un atto di sacrificio"). Come abbiamo visto, nella storia della Terra non esiste una vera permanenza. Le case di Esperanza sono costruite su rocce che dimostrano quanto possa essere temporanea la vita. Documentano i mari bassi del Triassico inferiore e l'ambiente marino nel corso della Grande Moria della fine del Permiano. Sono piene di tracce fossili, tane a U nell'argillite abbandonate da tempo, le case di vermi e crostacei costruite nella sabbia.
Il fondale marino della Hope Bay Formation, una serie di rocce composte di limo suboceanico, era all'epoca particolarmente povero di ossigeno. Sul motivo, e quello di situazioni analoghe in giro per il mondo, si sono avuti sospetti per decenni, ma solo di recente è arrivata la prova. Nel 2018, è stato dimostrato che a causare la mancanza di ossigeno nell'oceano del Permiano-Triassico è stato il riscaldamento globale catastrofico su una scala allora senza precedenti. L’attività vulcanica in Siberia aveva prodotto una tale quantità di gas serra che le temperature globali si sono alzate in modo netto, scatenando un rilascio massiccio di ossigeno dagli oceani, uccidendo i pesci e la vita marina in tutto il mondo. C'è stata una proliferazione di batteri, che come sottoprodotto della loro respirazione hanno liberato nuvole di acido solfidrico, poi entrate nell'atmosfera avvelenando gli ecosistemi terrestri e marini. Le popolazioni sono crollate, pochi individui sono riusciti a sopravvivere. La fine del Permiano è stato il momento in cui la vita -o perlomeno la vita pluricellulare- ha rischiato di non farcela. È un esempio chiarissimo dei peggiori sconvolgimenti che un ambiente può affrontare, e di come la sopravvivenza dipenda da caratteristiche preesistenti e da una bella dose di fortuna.
Se confrontiamo il nostro mondo con quello della fine del Permiano, possiamo trovare alcune somiglianze preoccupanti. La perdita di ossigeno degli oceani non è limitata al passato. Sta accadendo anche oggi. Tra il 1998 e il 2013, la concentrazione di ossigeno nella corrente della California, la principale corrente oceanica che viaggia in direzione sud lungo la costa occidentale del Nordamerica, è scesa del quaranta per cento. Globalmente, a partire dagli anni cinquanta, l'area dei fondali a basso contenuto di ossigeno è aumentata di otto volte, per un totale di trentadue milioni di chilometri quadrati nel 2018, il doppio della superficie della Russia. Nell'ultimo mezzo secolo gli oceani hanno perso oltre un gigatone di ossigeno all’anno. Questo dipende in parte dalle fioriture di alghe innescate dall'azoto usato in agricoltura, ma anche dal fatto che il mare sta diventando più caldo, proprio come alla fine del Permiano.
I mari caldi portano tre ordini di problemi per le specie aerobiche. Il primo è di natura chimica: l’ossigeno si dissolve meno facilmente nell’acqua calda, quindi tanto per cominciare ce n'è di meno. Il secondo è fisico: l'acqua calda è meno densa di quella fredda e quindi tende a salire verso l’alto, ma se il calore proviene dal sole, l'acqua di superficie si riscalda più velocemente, separando lo strato caldo dalle profondità fredde. L’acqua calda e quella fredda si mischiano di rado, quindi l'ossigeno non scende in profondità nell'oceano. Infine, c'ê la biologia: il calore velocizza il metabolismo degli animali a sangue freddo, che hanno bisogno di più ossigeno, per cui l’ossigeno disciolto viene consumato più in fretta. Per gli animali attivi, questa triplice minaccia è un disastro.
Non è una brutta notizia di per sé: le specie che vivono sul fondale come granchi e vermi riescono a sopravvivere anche a basse concentrazioni di ossigeno. Piuttosto, è un altro gas a porre una nuova questione. Alla fine del Permiano, l'anidride carbonica è aumentata a un tasso molto alto, insieme a un gas serra ancora più potente: il metano. Noi stiamo superando quei tassi di emissioni di CO2, e l’anidride carbonica sta acidificando gli oceani.
Dissolvendosi nell’acqua -attualmente a un tasso di oltre venti milioni di tonnellate al giorno- l'anidride carbonica produce acido carbonico. Questo rallenta la capacità dei coralli di produrre i loro scheletri di carbonato, con una diminuzione pari al trenta per cento. Prima della fine del ventunesimo secolo, le barriere coralline si distruggeranno molto più velocemente di quanto riescano a crescere. È probabile che a sopravvivere saranno i coralli più rotondi e squadrati, con una superficie inferiore, rispetto ai carismatici alberelli filiformi in technicolor. Come abbiamo visto a Soom -un caso comunque estremo- le condizioni acide sono una minaccia molto seria per i coralli e per le altre creature provviste di guscio come i molluschi, ma anche il riscaldamento provoca dei danni. Le alghe che collaborano con i coralli diventano meno efficienti se l'acqua si riscalda, abbandonano il loro stile di vita mutualistico e lasciano il loro ospite al suo destino di sbiancamento. Le vere criticità nel complesso sistema terrestre sono diverse, e le barriere coralline sono una di queste. Mano a mano che il mondo si riscalda, e sempre più anidride carbonica entra negli oceani, la maggioranza delle barriere coralline cesserà di esistere. Come abbiamo visto, tuttavia, i coralli non sono gli unici esseri viventi a costruire barriere. Con grande sorpresa di tutti, e in un intrigante rispecchiamento con l'epoca giurassica, stanno tornando i reef di spugne vitree.
Per buona parte degli ultimi duecento milioni di anni, le spugne vitree hanno coltivato una meravigliosa esistenza solitaria nelle profondità oceaniche. Una specie, l'Euplectella aspergillum (nota anche come “cestello di Venere”), intrappola una coppia di gamberetti come pulitori e diventa una gabbia di cristallo da cui i crostacei adulti non riescono a uscire, nutriti dalle particelle che la spugna intrappola specificamente per loro. Solo i piccoli di gamberetto riusciranno ad andarsene. L'Euplectella aspergillum vive sola, ma nelle acque povere di ossigeno della British Columbia, in Canada, il luogo da cui ha origine la corrente della California, queste spugne si stanno aggregando e hanno iniziato a costruire dei reef alti già decine di metri e lunghi diversi chilometri. Filtrano dolcemente l'acqua, quindi non hanno bisogno di molto ossigeno per vivere, e sono fatte soprattutto di silicio, che subisce in misura minore gli effetti delle acque acidificate. Se riusciranno ad affrontare le minacce costituite dalla pesca a strascico e dall’esplorazione petrolifera, l’epoca dei reef di spugne vitree -e della straordinaria biodiversità che si accompagna a questi ambienti- potrebbe tornare: un ecosistema Lazzaro in un mondo sempre più caldo, una piccola vittoria in un oceano di sconfitte.
Fuori dall’acqua, una conseguenza del riscaldamento è l’uniformità del clima globale. Durante i periodi di clima caldo della storia della Terra come l'Eocene, con i suoi pinguini giganti delle foreste, il gradiente latitudinale della temperatura dall’equatore al polo era decisamente inferiore a quello di oggi. I dati dell'epoca di Seymour Island dimostrano che l'equatore non era sostanzialmente più caldo di oggi, anche se i poli erano coperti di foreste. Oggi la Terra si sta avvicinando a quella situazione di uniformità, con i poli che si riscaldano a una velocità tre volte superiore rispetto al resto del pianeta. Una situazione che sta già iniziando a modificare la circolazione dell'atmosfera.
La stabilità del sistema di correnti atmosferiche è mantenuta dalla differenza di temperatura tra alte e basse latitudini. Nell'emisfero nord, l'aria polare che si muove verso sud e l'aria temperata che si muove verso nord convergono in un'unica corrente -la corrente a getto- che viene spinta verso est dalla rotazione della Terra. È difficile per una densa sacca d'aria mescolarsi a una meno densa e così, in generale, l'aria polare densa e l'aria temperata più calda non si mescolano, formando un'unica forte corrente nel punto in cui entrano in contatto. Con la Terra che si riscalda, la differenza di temperatura tra aria polare e temperata si riduce, le sacche d'aria turbinano l'una nell'altra creando piccoli mulinelli, e la corrente diventa più turbolenta, indebolendo la coesione del vortice polare. Il confine tra celle polari e temperate è sempre più sfumato e instabile, e causa una violenta oscillazione del percorso della corrente a getto più a nord e più a sud, soprattutto in inverno. Sopra i continenti, gli estremi relativi di temperatura comportano che, per esempio sul Nordamerica, la corrente a getto abbia la tendenza a oscillare molto verso sud durante l'inverno, portando aria polare gelida su buona parte del continente. Il risultato è che il Nordamerica ha subito regolari ondate di freddo negli ultimi anni, causati da un aumento della temperatura -e dell`uniformità delle temperature- a livello globale. Il 9 febbraio 2020, alla stazione di monitoraggio di Seymour Island è stata registrata la più alta temperatura in Antartide dei tempi moderni -20,75 °C- e la temperatura media sta aumentando in modo costante, anno dopo anno, da decenni.
È un fatto che non dovrebbe sorprenderci. Possiamo prevedere come dovrebbe essere il clima globale confrontando la nostra atmosfera con quelle del passato. Oggi l'atmosfera ha una composizione simile a quella dell’Oligocene, la fase di transizione tra clima caldo e clima freddo. L’IPCC -Intergovernmental Panel on Climate Change- prevede che nel corso della vita dei bambini già nati, raggiungeremo -in base ai piani implementati- livelli di anidride carbonica nell'atmosfera che non si vedono dall'Eocene. Se la composizione dell'atmosfera sarà quella prevista, anche le temperature si attesteranno su quelle dell'Eocene. L'incertezza non riguarda la temperatura finale, ma quanto ci metterà l'atmosfera a regolarsi, perché i sistemi di feedback ambientale del pianeta producono uno sfasamento tra la stabilità atmosferica e il raggiungimento di un plateau di temperatura. L'unico modo per evitare queste concentrazioni di anidride carbonica, e quindi queste temperature, è ridurre le emissioni di carbonio a un tasso molto superiore rispetto a quello attualmente previsto.
La maggior parte delle emissioni di carbonio viene dai combustibili fossili: petrolio dai corpi del plancton marino, carbone dalle paludi di licopodi. Finora, sono stati scoperti tre trilioni di tonnellate di carbonio nei depositi di combustibile fossile, dei quali solo mezzo trilione è stato bruciato, ma ne stiamo già avvertendo gli effetti. La documentazione fossile ci mostra le condizioni che hanno portato alla loro creazione, e sappiamo che le estese paludi tropicali del Carbonifero non torneranno. Semplicemente, il mondo non ha la possibilità di immagazzinare naturalmente le riserve di carbonio nella quantità necessaria a limitare il cambiamento climatico. Le piante sono ancora il principale serbatoio di carbonio dell'epoca moderna, e un aumento dei livelli di CO2 potrebbe stimolare la fotosintesi, ma non ci sono gli ecosistemi di foreste e le vaste paludi fondamentali a formare il carbone necessario per controbilanciare quello che bruciamo.
Di pari passo al riscaldamento si ha un aumento della decomposizione, e il nuovo rilascio del carbonio immagazzinato come torba dalla paludificazione della steppa dei mammut. In grandi parti del Canada e della Russia, i vasti depositi di torba si trovano all'interno del permafrost, terreno perennemente gelato. Le torbiere gelate dell'emisfero nord contengono 1,1 trilioni di carbonio, all’incirca la metà di tutto il materiale organico presente nei suoli del pianeta, e più del doppio della quantità totale di carbonio rilasciata dagli umani attraverso i combustibili fossili dal 1850. Ma quel carbonio è immagazzinato in modo instabile. Lungo la costa settentrionale del North Slope dell’Alaska, sul mare di Beaufort, il permafrost si sta scongelando, e la terra viene erosa. Pezzi di terreno tenuti insieme dal ghiaccio si rovesciano nell'oceano Artico in modo preoccupante.
Il permafrost si scongela e i suoli torbosi si ammorbidiscono, rimpiccioliscono e si riassestano. Ammorbidendosi, il suolo argilloso fa piegare gli alberi, con i tronchi che si inclinano in tutte le direzioni. Le cosiddette “foreste ubriache” possono essere abbattute senza nemmeno una sega elettrica. Una volta scongelato, il materiale organico nel suolo comincia a decomporsi, e rilascia gas serra, un processo che può durare a lungo. Se tutto il carbonio contenuto nel permafrost venisse rilasciato sotto forma di anidride carbonica e metano si avrebbe un riscaldamento del clima senza precedenti. Ma questo non succederà tutto in una volta; fattori locali ci diranno che alcune parti del permafrost, piccole buche calde e umide che si riscaldano in fretta, o i versanti rivolti a sud, si scioglieranno più in fretta. Il permafrost può ricongelarsi e il processo di decomposizione durare decenni.
Come è successo nel Permiano, la Siberia, all’estremo nord del pianeta, è una presenza sinistra, ma questa volta è più una fonte di pressione continua che una bomba pronta a esplodere all'improvviso. Il suo lento tasso di emissioni può essere ulteriormente rallentato, persino interrotto. Sono le politiche e i comportamenti attuali a far sciogliere il permafrost. Ma sono politiche che possiamo cambiare se vogliamo risolvere il problema. Grazie alla documentazione fossile e ai modelli sul clima sappiamo quali saranno le conseguenze se non agiremo.
Il permafrost non è l'unico strascico dell’ultimo massimo glaciale. Il ghiaccio è ancora bloccato non solo nelle lastre di ghiaccio polari e nei ghiacciai che si sono allontanati dai poli, ma anche nei ghiacciai di alta quota. Nonostante le lastre polari si siano ridotte moltissimo dall'ultimo massimo glaciale, i ghiacciai himalayani sono ancora lì, esistono senza interruzioni da decine di migliaia di anni e hanno attraversato i periodi glaciali e interglaciali. Con il riscaldamento che raggiunge persino le vette più alte, tuttavia, anche loro si stanno sciogliendo, modificando la distribuzione dell`acqua -la chimica fondamentale da cui dipende la vita- in tutta l'Asia centrale e meridionale.
Molti dei principali fiumi dell'India, in particolare l’Indo, il Gange e il Brahmaputra, dipendono per il loro flusso stagionale dai ghiacciai di montagna e dall'annuale scioglimento delle nevi. In totale, più di un terzo della portata del Brahmaputra viene dal disgelo delle acque. Sul breve periodo, l'aumento dello scioglimento delle nevi sta provocando alluvioni improvvise più frequenti e una sostanziale erosione del bacino idrografico. Tale aumento, però, è alimentato dall’innalzamento del piano nivale sulle montagne, e non continuerà all'infinito. La portata del Brahmaputra è già estremamente variabile, e sul medio periodo, nel corso del ventunesimo secolo, quando dei ghiacciai non sarà rimasto più nulla, è prevedibile che la stagione secca si trasformi in siccità. Abbiamo visto che nel Miocene un intero mare è evaporato nel giro di un migliaio di anni, ma i ghiacciai dell'Himalaya contengono molta meno acqua del Mediterraneo. Per i settecento milioni di persone che vivono lungo le rive dei fiumi alimentati dal ghiaccio himalayano sarà una catastrofe inevitabile: si prevede che il novanta per cento del volume di ghiaccio presente sull’Hindu Kush sia destinato a scomparire. Per il dieci per cento della popolazione umana, l'acqua, a un certo punto, smetterà di arrivare. Ma gli abitanti del Bangladesh che vivono sull'enorme delta Gange-Brahmaputra, dove i due grandi fiumi si incontrano nel mare, oltre a questa, devono affrontare altre due minacce. Se all'equatore fa più caldo, la superficie del mare evapora in modo più consistente e i monsoni arrivano prima e sono caratterizzati da una maggiore intensità. È un fenomeno che si sta già verificando. Riscaldandosi l'acqua si espande, e se a questo si aggiunge lo scioglimento dei ghiacciai e delle lastre di ghiaccio delle montagne dell'Antartide e della Groenlandia, avremo un innalzamento del livello dei mari. Il Bangladesh, che mediamente si trova dieci metri sopra l'attuale livello del mare, finirà probabilmente sommerso. Questa nazione di duecentocinquanta milioni di abitanti è minacciata dalla terra, dai fiumi e dal cielo. In totale, circa un miliardo di persone nel mondo vive in territori a meno di dieci metri sopra l'attuale linea di marea.
La popolazione umana e aumentata a un tasso sconvolgente. Siamo ormai più di sette miliardi e, salvo alcuni casi, siamo la forza dominante di quasi tutti gli ecosistemi. Un motivo è la diminuzione della mortalità infantile –indiscutibilmente un'ottima cosa-, ma a destare particolare preoccupazione è il tema della sovrappopolazione. Se fossimo tutti uguali, più esseri umani consumerebbero più risorse. Però non siamo tutti uguali. Se avete comprato questo libro, rientrate probabilmente nella fascia di popolazione che consuma molto. Nel 2018, le emissioni medie pro capite di anidride carbonica sono state di 4,8 tonnellate, ma sono i paesi ricchi a dominare la classifica: gli americani con 15,7 tonnellate, gli australiani 16,5 tonnellate, i qatarioti 37,1 tonnellate. Al contrario, gli unici paesi africani ad avere emissioni pro capite superiori alla media erano Sudafrica e Libia, con la maggioranza che presenta un dato inferiore alle 0,5 tonnellate a persona.
Il problema della sovrappopolazione è uno di quelli che si risolvono da soli. Il tasso di fertilità nel mondo è in calo da decenni, e si prevede che il picco di popolazione globale avverrà in questo secolo di pari passo con la maggiore urbanizzazione e l'aumento del livello di istruzione delle donne. Il vero problema sono i consumi. Il report dell'IPCC del 2018 indicava che le emissioni nette di anidride carbonica dovrebbero diminuire del 45% a livello globale per limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C. Se il tasso americano medio di emissioni potesse essere ridotto, mettiamo, alla media UE -e di certo non porterebbe a un crollo degli standard di vita- ci sarebbe una riduzione globale delle emissioni di anidride carbonica del 7,6%. Ma le emissioni non sono tutto, e i paesi ricchi sono responsabili dell'elevato consumo anche di altre risorse.
La plastica è diventata il volto pubblico del nostro impatto ambientale. Le foto degli enormi vortici di rifiuti plastici che ruotano negli oceani sono ovunque, e sempre più spesso ci arriva notizia di animali marini con lo stomaco pieno di frammenti di plastica. Gli effetti della plastica vanno ben oltre la biologia: la distruzione delle tradizioni culturali dei popoli costieri, il crollo delle attività ittiche tra le popolazioni che basano il proprio sostentamento sulla pesca, e l'innegabile impatto negativo sulla salute mentale a causa della devastazione delle spiagge sommerse di spazzatura, sono fenomeni dai costi non immediatamente quantificabili. Lasciando da parte le enormi perdite biologiche e sociali, è stato stimato che il danno della presenza della plastica nell'oceano ha costi economici globali superiori ai 2,5 trilioni di dollari.
Una dimostrazione radicale della natura onnipervasiva della plastica È nell'evoluzione dei microbi. La documentazione fossile ci mostra regolarmente che quando si apre una nuova nicchia, quando c’è una nuova risorsa da sfruttare, qualcosa si evolverà per sfruttarla. La natura è inventiva, e la proliferazione degli oggetti di plastica nella seconda parte del ventesimo secolo ha avuto come risultato una nuova risorsa largamente non sfruttata.
Nel 2011, si è scoperto che un fungo della foresta ecuadoriana, Pestaloliopsis microspora, aveva sviluppato la capacità di digerire il poliuretano. Nel 2016, nel fango vicino a un impianto di riciclo della plastica a Sakai, in Giappone, è stato scoperto un batterio, Ideonella sakaiensis, che ha evoluto la capacità di digerire il polietilene tereftalato, scomponendolo in due prodotti che non causano danni all'ambiente. Si tratta della prima forma di vita a essere interamente plastivora, capace di decomporre in sicurezza un'intera bottiglia di plastica più o meno nello stesso tempo in cui un cumulo di compost degrada la materia vegetale: il potenziale per il riciclo è ovvio. È dall'afflusso dell’ossigeno oltre un miliardo di anni fa che non si verificava un cambiamento così fondamentale nelle risorse disponibili per l'azione biochimica, e gli organismi più piccoli, più veloci a riprodursi, stanno tenendo il passo con questo cambiamento.
Come per le creature della steppa dei mammut, un altro modo per stare al passo con il cambiamento continuo è migrare. I pinguini di Brown Bluff, a sud di Esperanza, sono l’esempio classico di migrazione guidata dal clima. Sono soprattutto pinguini di Adelia, che vivono sulla penisola ma popolano anche le isole in tutto il mare di Ross. Vivendo in colonie enormi, nel corso degli anni il loro guano è filtrato nel suolo e si è depositato: questi strati sono una documentazione precisa che ci permette di stabilire da quanto tempo i pinguini vivono nello stesso sito. L'Antartide si è riscaldato, è diventato più abitabile dall'ultima era glaciale, e scavare in secoli di escrementi dei pinguini di Adelia ci ha mostrato che le colonie sulle isole esistono ininterrottamente da quasi tremila anni. A Brown Bluff, dove lo strato di ghiaccio si è accumulato per più tempo, la colonia di pinguini esiste solo da quattrocento anni. Le specie, se necessario, possono modificare il loro areale: l'aumento delle temperature ha reso Brown Bluff un luogo adatto dove allevare i piccoli, e così si è formata una nuova colonia.
I pinguini sono relativamente bravi a spostarsi da un luogo all'altro, e quando il cambiamento delle correnti trasforma il loro paradiso marino in una distesa desolata, riescono a adattarsi. Altre specie, invece, non riescono a trasferirsi abbastanza in fretta da sfuggire al cambiamento climatico. Le piante longeve, per esempio, non riescono a seguire il tempo atmosferico con la stessa facilità, poiché la loro tolleranza ambientale ha dei limiti. Ricordo un tiglio selvatico (Tilia cordata) che cresceva sulla collina vicino a casa mia, nella campagna del Perthshire. Dava frutti ogni anno, ma a differenza dei sorbi, delle betulle, e dei pini, era l'unico della sua specie che avessi mai visto. Diffuso in buona parte del Regno Unito, ma adattato a un clima più caldo di quello in cui si era ritrovato a crescere, era improbabile che potesse dare frutti fertili. Un seme vagante, disperso verso nord da qualche evento casuale, si era piantato nel terreno ed era cresciuto, ma era rimasto bloccato oltre i confini del suo areale riproduttivo. Con il cambiamento climatico, gli equilibri di potere cambiano, le condizioni ottimali si spostano e l'areale delle specie si modifica di conseguenza. Tra il 1970 e il 2019, l'ecosistema delle Grandi pianure del Nordamerica si è spostato verso nord in media di 365 miglia; ovvero di un metro ogni quarantacinque minuti. In un continente largo e piatto ce n’è di spazio in cui muoversi, ma se invece ci si trova su una piccola isola, in una zona costiera a una latitudine più alta, o su una montagna adattati al fresco dell'alta quota, non ci sarà nessun luogo dove scappare. La dispersione sulle lunghe distanze è rara nel mondo naturale, e alla fine, spinte ai limiti del loro areale, molte specie finiscono per scomparire.
Stiamo anche introducendo nuovi ecosistemi. Forse l’equivalente moderno degli ecosistemi postestinzione, privi di alberi e grandi animali, con una bassa produttività, è quello urbano. Molte specie non riescono a sopravvivere in questi nuovi mondi, e quelle che ce la fanno devono adattarsi, fino ai loro comportamenti più basilari. Anche la cacofonia di una giungla è silenzio rispetto a una città e, per le specie che segnalano la loro presenza ai potenziali partner o rivali attraverso il suono, il rumore è una rovina. Il volume del canto degli uccelli in città presenta toni più alti, i versi sono più rapidi e più brevi di quelli degli esemplari della stessa specie che vivono in campagna. Solo chi canta a frequenze più alte può essere sentito sopra il rombo basso delle macchine. Anche i segnali che si basano sugli odori sono condizionati dal cambiamento climatico. Alle temperature più alte, i segni lasciati dalle impronte degli orsi polari scompaiono, e questo influisce su tutto, dai comportamenti sessuali alla territorialità. La sopravvivenza di una specie non riguarda soltanto la semplice tolleranza ambientale della fisiologia di un individuo, ma anche la resilienza dei suoi comportamenti. Non esiste angolo della Terra in cui non abbiamo influito in un qualche modo sullo stile di vita dei suoi abitanti.
Dal punto di vista puramente numerico siamo incredibilmente diffusi, e dal 2 novembre 2000 c’è una presenza umana costante anche al di fuori dell'atmosfera del pianeta. Gli umani costituiscono, per massa, il 36% di tutti i mammiferi. Un ulteriore 60% della massa di tutti i mammiferi è composta dagli animali addomesticati: bovini, suini, ovini, cavalli, gatti e cani. Solo il 4% della massa di mammiferi sul pianeta è selvatica. Nel caso degli uccelli, il dato e ancora più impressionante. Il 60% degli uccelli sulla Terra appartiene a un'unica specie: i polli domestici. Presa nel suo complesso, la massa del materiale di produzione umana è, nel 2020, all`incirca equivalente alla massa di materiale vivo. Se oggi campionassimo il pianeta nello stesso modo in cui campioniamo la documentazione fossile, osservando la distribuzione delle ossa, concluderemmo che sta succedendo qualcosa di molto strano se la biomassa dei vertebrati è composta da così poche specie. Staremmo parlando di un danno ambientale catastrofico, di estinzione di massa. In effetti, la biomassa selvatica si è ridotta a una velocità spaventosa. Il mondo in cui è nato Emilio Marcos Palma nel 1978 ospitava due volte e mezzo più vertebrati selvatici di quello del 2018. In un battito di ciglia geologico abbiamo perso più della metà dei vertebrati viventi sul pianeta.
Dall’ultima era glaciale, le specie più grandi sono state spazzate via da ogni continente, oppure sono bene instradate verso l'estinzione. Il pianeta inizia ad assomigliare a un mondo postestínzione, con l'ecosistema umano rifugio dei taxa postdisastro. Gli animali meglio adattati al nostro mondo -specie versatili in grado di vivere di rifiuti come ratti, volpi, procioni, gabbiani reali o l'ibis bianco australiano, o quelli che si sono alleati con noi o vivono per noi come polli, bovini e cani- prosperano. Molte piante e animali meno mobili hanno beneficiato della dispersione sulla lunga distanza mediata dall’uomo, accidentale o volontaria. Le navi commerciali hanno sostituito le zattere vegetali nell'avvicinare continenti geograficamente lontani. Sottraendo gli organismi al loro habitat, spesso li allontaniamo dai loro avversari, permettendo loro di prosperare e mettere fuori gioco altri organismi nativi ecologicamente importanti.
Sono talmente tante le specie che stanno scomparendo alla velocità di un'estinzione di massa che sarebbe facile guardare quel che abbiamo fatto e disperarci. Ma non dobbiamo abbatterci. Il cambiamento provocato dall'uomo non è, in sé, una novità, e in una certa misura può essere considerato naturale. Siamo parte di un regno biologico, abitiamo l'albero della vita. Ci sono solide prove che gli umani, come moltissime specie venute prima di noi, sono sempre stati naturali ingegneri dell'ecosistema. Gli umani creano pascoli da quasi ottomila anni. L’incendio delle foreste e delle pianure per introdurre il bestiame all'incirca nello stesso periodo ha modificato il modo in cui molte zone dell'Europa riflettono la luce del sole, influendo sull’assorbimento del calore e alterando l'andamento dei monsoni in India e nel Sudest asiatico. Gli umani hanno volontariamente trasferito specie sin dal Pleistocene; ci sono prove che il cuscus maculato comune, un marsupiale arboricolo che viene cacciato anche dall'uomo, sia stato introdotto nelle isole Salomone dalla Nuova Guinea più di ventimila anni fa, a quanto pare insieme al commercio di ossidiana.
Siamo ingegneri dell’ecosistema talmente efficaci che l'idea di una Terra incontaminata, libera dalla biologia e dalla cultura umana non ha senso. Un eden di questo tipo non esiste e dalla comparsa degli esseri umani non è mai esistito. Mentre il danno che viene fatto agli ecosistemi globali è senza precedenti nello spazio di vita della nostra specie, i piani di conservazione devono decidere quale livello di impatto umano è desiderabile e raggiungibile per ogni ecosistema. Preindustriale? Precoloníale? Preumano? Sono domande a cui non è facile rispondere. Riportare gli attuali ecosistemi allo stato selvatico spesso influisce in maniera estremamente negativa sulle comunità indigene e povere che dipendono da loro, aggiungendo un complicato contesto sociale a un processo decisionale ambientale. Il filosofo bangladese Nabil Ahmed, nel suo articolo “Entangled Earth” dice del suo paese: “Non è possibile distinguere tra terra e fiume, popolazioni umane, sedimentazione, gas, cereali e foreste, politici e mercati”. Tutto è fuso in un'unica entità, e tutto porta l’eredità dell'interazione tra attori politici e naturali. Ahmed sostiene che la sua nazione è figlia del ciclone Bhola del 1970, ha conquistato la propria indipendenza in seguito a una reazione politica a un disastro naturale e umanitario.
Proprio come nella soffocante Pangea del Permiano, quando le supertempeste infuriavano su un oceano globale, stiamo assistendo un aumento delle tempeste tropicali in tutto il mondo. Il numero di uragani atlantici per stagione aumenta in modo costante sin da quando è iniziata la raccolta dei dati nei primi decenni del ventesimo secolo: nel 2020 sono stati trenta, il triplo rispetto alla media sul lungo periodo. Nel 2018, si è abbattuta sul Mediterraneo una tempesta senza precedenti che aveva la forza di un uragano. Questo accade perché l'acqua più calda aumenta la percentuale di aria che sale intorno alle latitudini tropicali, dunque gli uragani possono acquistare forza più rapidamente e fare più danni quando raggiungono la terra, con gravi conseguenze per i paesi che incontrano nel loro percorso.
È impossibile ignorare le implicazioni sociali del cambiamento climatico. Dalla corsa all'Artico dei paesi ricchi per sfruttare le risorse nel fondale sotto il ghiaccio che si scioglie, alle continue dispute internazionali sulle dighe in Africa orientale per avere il controllo su una riserva d’acqua in costante diminuzione, le modifiche all’ambiente condizionano le decisioni politiche ormai da decenni. Che la prima sia una corsa alla ricchezza e la seconda una battaglia per una risorsa fondamentale è indicativo di quanto il cambiamento climatico pesi soprattutto sulle spalle di coloro che meno vi hanno contribuito. Oggi, vediamo i cambiamenti che stanno per scatenarsi. La storia geologica della Terra dipinge, con ampie ma inconfondibili pennellate, un quadro di futuri possibili. Stiamo vivendo un disastro umanitario e naturale che riguarda l'intero pianeta, ma lo possiamo gestire.
Che i mondi passati siano strani e meravigliosi è una lezione sull’adattabilità della vita. Le rocce, tuttavia, ci insegnano anche un'altra lezione: l’impermanenza del nostro mondo.
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I panorami che diamo per scontati non sono parte integrante del mondo; la vita continuerà anche senza di loro, senza di noi. Alla fine, l'anidride carbonica che emettiamo verrà assorbita, ancora una volta, nelle profondità dell'oceano, e i cicli della vita e dei minerali proseguiranno. Noi, come ogni altro abitante del pianeta, ci siamo evoluti accanto alle specie attuali, interagendo con loro in modi complessi. Siamo parte dell'ecosistema globale e lo siamo sempre stati, ed è folle pensare che non saremo colpiti dai cambiamenti che stiamo imponendo al mondo.
Come specie, siamo ben attrezzati per sopravvivere all’estinzione di massa che stiamo provocando. Con la nostra tecnologia, dai vestiti alle dighe, dai condizionatori d'aria ai desalinizzatori, abbiamo costantemente modificato i nostri ambienti per sopravvivere dove altri non sarebbero riusciti. Ma gli ecosistemi che sono sorti a partire dall'ultima estinzione di massa, ventidue milioni di anni fa, sono sottoposti a un grave stress. Distruggendo comunità e modificando la chimica del pianeta, stiamo di nuovo i fili della ragnatela, e alcuni si sono già spezzati. Se ne saltassero troppi, le conseguenze delle nostre modalità di interazione con il mondo potrebbero portare a una catastrofe biologica e sociale senza precedenti. A un primo sguardo è un pensiero soverchiante, paralizzante. Ma il fatto stesso di poter riflettere sullo stato dell'ambiente, di avere la capacità analitica di gettare uno sguardo al passato e trovare analogie con il presente, è il motivo per cui possiamo essere positivi.
Sappiamo cosa può succedere nei periodi turbolenti dal punto di vista ambientale come quello in cui viviamo. Mappando il passato possiamo prevedere il futuro e trovare le strade per evitare il disastro. Se alcuni danni sono ormai inevitabili, possiamo fare piani per ridurne al minimo altri. Almeno dagli anni settanta, molte infrastrutture sono state costruite con in mente gli effetti del cambiamento climatico. La barriera del Tamigi, la principale difesa di Londra dalle inondazioni, è stata specificamente progettata con la prospettiva di un aumento del livello dei mari di novanta centimetri entro il 2100, con una capacità superiore ai 2,7 metri. Sappiamo anche che la collaborazione internazionale funziona: il protocollo di Montréal del 1987, firmato da 197 paesi, mise fuori legge la produzione e l'uso dei clorofluoro-carburi responsabili del buco nell'ozono. Grazie a queste misure, il buco nell'ozono si sta riducendo; sono misure finanziate da un fondo attraverso il quale i paesi con il maggiore contributo pro capite al problema aiutano i paesi in via di sviluppo.
Mentre scrivevo questo libro sono successe due cose che mi hanno mostrato l'importanza di una visione più precisa del passato e del futuro. All'inizio del 2019, senza particolare pubblicità, è stata posta una targa sul sito dell'Okjökull, il primo ghiacciaio islandese a perdere il suo status di fiume di ghiaccio dopo essersi sciolto al punto da non riuscire più a muoversi sotto il proprio peso. La targa, in islandese e in inglese, comincia con queste parole: “Una lettera al futuro". Dopo aver spiegato la retrocessione dell'Okjökull a lago di ghiaccio, continua: “Questo memoriale è per affermare che noi sappiamo cosa sta succedendo e cosa deve essere fatto. Solo voi sapete se lo abbiamo fatto oppure no. Giudicate, dice, il nostro lavoro.
Il secondo evento, la pandemia di SARS~CoV-2, ha costretto l'umanità a confrontarsi con un cambiamento radicale in modo molto più tangibile. Nello spazio di un mese, un terzo della popolazione mondiale è entrata in un lockdown forzato o volontario, modificando in modo sostanziale molti aspetti della propria quotidianità per rispondere a una minaccia alla vita stessa. L'effetto di questi cambiamenti è stato immediato. A Los Angeles, una città sinonimo di ingorghi automobilistici, sono stati riportati livelli di pulizia dell’aria che non si vedevano da generazioni. A Venezia, invasa dalle navi cariche di turisti, l'acqua era più pulita che mai. Le emissioni di carbonio sono scese, anche se solo del 3%, e il petrolio è diventato meno che inutile con i depositi pieni e le consegne ferme. Diversi mezzi di informazione hanno riportato queste notizie come esempi della “Terra che cura se stessa”, sottintendendo che il vero virus è l'umanità. Non è necessario essere cosi misantropi. Gli esseri umani possono vivere sfruttando le risorse, le lezioni da imparare sono altre. Ora sappiamo che possiamo modificare i nostri comportamenti per rispondere a una crisi, e che questi cambiamenti possono avere effetti benefici immediati. La sofferenza di chi nei paesi poveri ci colpisce tutti, ma è solo lavorando insieme mettendo in comune le risorse e dando il nostro aiuto che il danno causato da queste crisi internazionali può essere minimizzato ascoltando gli esperti, affrontando con serietà il pericolo e il benessere dei cittadini sopra ogni altra cosa, alcuni hanno affrontato la pandemia meglio di altri. L'azione internazionale coordinata per sviluppare vaccini efficaci a tempo record testimonia la nostra capacità di rispondere in fretta a una minaccia mortale. L’assenza di cooperazione internazionale nella loro distribuzione, però, e le conseguenti ondate infezione e morte, dimostrano l'ingenuità di voler rispondere non in modo coordinato a una crisi globale.
Di fronte al cambiamento climatico la noncuranza potrebbe esserci fatale. Un approccio in stile “business as usual”, che qualunque riduzione della velocità con cui gli ecosistemi vengono distrutti a causa dell'emissione di gas serra, genererà climi che nessun ominide ha mai dovuto affrontare. Tuttavia, di chi parla di tragedia inevitabile è altrettanto inutile.
Nella conservazione, la scelta tra successo e fallimento non è binaria. Quando i giornali scrivono che ci restano cinque anni o dieci, per arrestare il cambiamento climatico, non significa che sarà o tutto o niente. Cambiare in tempo non vuol dire che tutto tornerà come prima, e non cambiare non porta all'annientamento. Gli ecosistemi che esistevano nella prima metà del ventesimo secolo e oltre si sono modificati per sempre, ma i danni continuano ad accumularsi. Più riusciremo ad agire rapidamente e con efficacia, meno questi danni saranno generalizzati. Dipende solo da noi scegliere di agire collettivamente per contrastare le cause e gli effetti del cambiamento climatico. Le guglie sono cadute, ma la cattedrale è ancora in piedi: siamo noi a dover scegliere se spegnere le fiamme oppure no.
Solo modificando le nostre abitudini e sforzandoci di ridurre lo sfruttamento delle risorse, possiamo evitare che sull'ambiente si abbatta una catastrofe senza precedenti, un'altra Grande Moria. Il pianeta non può fornirci le risorse necessarie a sostenere una vita dissoluta come quella che conduciamo nei paesi economicamente sviluppati, figuriamoci quelle necessarie anche alle altre specie perché continuino a nutrirsi, accoppiarsi, e a vivere le loro vite. L'unico modo affidabile per evitare che i mondi selvatici di oggi non diventino un'altra serie di ecosistemi dimenticati, un'altra sala nei musei futuri, è diminuire i consumi e smettere di affidarsi alle fonti di energia che contribuiscono al cambiamento climatico. Inevitabilmente, queste soluzioni incontrano resistenza. Molti sono comprensibilmente preoccupati che queste scelte, nel breve termine, porteranno a un peggioramento della nostra qualità di vita. Eppure, nel giro di pochi decenni, senza un'azione delle singole comunità, delle nazioni, e del globo intero, soffriremo certamente molto di più. Per il nostro benessere a lungo termine, sia come specie sia come individui, dobbiamo entrare in una relazione mutualistica con i nostri ambienti. Solo allora potremo conservare non soltanto la loro infinita varietà, ma anche il nostro posto al loro interno. Il cambiamento, alla fine, è inevitabile, ma possiamo lasciare che il pianeta si prenda il suo tempo, mentre ci facciamo condurre dolcemente dalle mutevoli sabbie del tempo geologico verso i mondi di domani. Sacrificio, un atto di permanenza. Solo allora anche noi vivremo nella speranza.