Setember 2023. Ritual.

 

 

 

 

Dedico il “mestée del mes” all’antropologo e scienziato cognitivo Dimitris Xylagatas, direttore del Laboratorio di antropologia sperimentale dell’Università del Connecticut, specificatamente al suo testo di ultima pubblicazione “Ritual”, che esplora e analizza con piglio rivoluzionario i riti e il loro ruolo quali manifestazioni enigmatiche nella evoluzione della specie umana, riferendosi talvolta a rituali comparativi esistenti nel mondo animale. Nell’estrarre dal testo alcuni paragrafi ho cercato di privilegiare tendenzialmente non quelli che descrivono il rito nel dettaglio preparativo ed esecutivo, ma che esaminano il significato nell’accezione estensiva del rito specifico o dei riti, qualora questi avessero comunità di intendimento, la strutturazione e il dettame.
"El mestée" ha comportato una selezione di brani stralciati dai vari capitoli che mi auguro possa aver mantenuto una comprensibile consequenzialità, ma non essendo stata opera facile, potrebbe aver determinato qualche mancanza di congiunzione narrativa. Come sempre, rammentando quale vuole essere la funzione stimolante della curiosità dei “mestée”, auspico che la lettura sia da pungolo per approfondire l'argomento.
Il testo è intervallato da foto tratte dal sito www.gettyimages.it/ di diversi autori, aventi oggetto cerimonie/riti di iniziazione di popoli africani e un video del National Geographic sul rito di iniziazione dei Sataré-Mawé riportato nel testo.

 

 

 

 

 

Ngunjana. Sud Africa. Cerimonia invernale di circoncisione.

 

 

 

 

 

Cultura Ngbandi. Repubblica Democratica Congo. Danzatrici alla cerimonia di iniziazione.

 

 

 

 

 

Cultura Bambara. Mali. Cerimonia di iniziazione maschile con maschere “ciwara”.

 

 

 

 

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Malgrado la sconcertante incongruenza tra azioni e obiettivi, riti di ogni genere resistono da millenni. In effetti, anche nelle società più laiche, e a prescindere dal fatto che ce ne rendiamo conto o meno, il rito è altrettanto diffuso oggi che nel lontano passato. Dal toccare ferro al recitare preghiere, dai festeggiamenti per Capodanno alle cerimonie di insediamento dei nuovi presidenti, il rito permea ogni aspetto significativo della nostra esistenza pubblica e privata. E indipendentemente dal fatto che si svolga in un contesto religioso o laico, è una delle più singolari tra le attività umane, profondamente carica di significati e importanza.
Queste caratteristiche distinguono il rito da altre azioni meno speciali, come le abitudini. Sebbene entrambi possano configurarsi come comportamenti stereotipati, poiché implicano schemi fissi e ripetitivi, nel caso delle abitudini quei gesti hanno un effetto diretto sul mondo, mentre nel rito hanno una valenza simbolica e la loro esecuzione è spesso fine a se stessa. Quando prendiamo l’abitudine di lavarci i denti prima di andare a dormire, l'obiettivo del gesto sta nella sua funzione immediata, è trasparente in termini di causa-effetto. Sventolare per aria uno spazzolino simbolico non ci aiuterebbe a tenere i denti puliti. Trasformando il processo in routine, l'abitudine ci consente di eseguire il gesto regolarmente e senza pensarci.
I riti, di contro, sono opachi in termini di causa-effetto. Richiedono attenzione e concentrazione, perché implicano azioni simboliche che vanno ricordate, poiché devono essere eseguite con precisione. A titolo d'esempio, in un matrimonio greco ortodosso il testimone o la testimone scambiano le fedi nuziali e le mettono alle dita degli sposi, e poi pongono un paio di corone sulle loro teste per tre volte; il sacerdote deve leggere tre preghiere e gli sposi devono bere tre sorsi di vino da uno stesso calice e fare tre volte il giro dell'altare. Queste azioni rientrano in un'elaborata sequenza della durata di ore, che dev'essere seguita alla lettera e necessita di istruzioni e prove meticolose per garantirne la conformità. Di fatto, però, nessuna di queste azioni ha conseguenze sul piano giuridico: a rendere la coppia sposata è tutta un'altra procedura, che prevede la firma e l'apposizione di un timbro su un documento legale. Ma sono il simbolismo e lo sfarzo della cerimonia nuziale a rendere l'evento emozionante e memorabile, tanto da dare l’impressione che sia il rito, più che le scartoffie, a convalidare il matrimonio. Mentre le abitudini ci aiutano a sistematizzare i compiti importanti, trasformandoli in routine e incombenze banali, i riti caricano di significato la nostra vita, rendendo alcune situazioni speciali.
In altre parole, e citando nello specifico quelle del sociologo George C. Homans, “gli atti rituali non producono un effetto pratico nel mondo esterno: questo è uno dei motivi per cui li definiamo rituali”.
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Cultura Banda. Repubblica Centrafricana. Rito di iniziazione giovani donne.

 

 

 

 

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In effetti, gli elefanti sono tra i pochi animali in grado di comprendere, così sembra, la morte. Sono stati spesso osservati mentre cercavano di seppellire i membri deceduti del proprio branco cospargendoli di terra o coprendoli di foglie e fiori. Ci sono persino testimonianze di esemplari che hanno cercato di seppellire altri animali morti in cui si erano imbattuti, tra cui anche degli esseri umani. George Adamson, il conservazionista della fauna selvatica la cui famiglia è stata fonte di ispirazione per il film “Nata libera”, raccontava l’aneddoto di una donna, in Kenya, che si era addormentata mentre riposava sotto un albero. Al risveglio, un branco di elefanti era in piedi lì vicino e uno di loro la stava delicatamente stuzzicando e annusando. La donna era pietrificata e aveva deciso di restare immobile e fingersi morta. I pachidermi si erano di lì a poco stretti attorno a lei e avevano iniziato a barrire a gran voce. Avevano raccolto rami e foglie dall'albero e l'avevano ricoperta tutta. L'indomani mattina, alcuni pastori del luogo avevano trovato la donna ancora sotto quel grosso mucchio di rami, troppo spaventata per muoversi.
Quando uno dei loro muore, soprattutto se si tratta di un membro importante del gruppo, per esempio una matriarca, gli elefanti restano per giorni accanto al corpo e anche dopo tornano spesso alla carcassa. Persino a distanza di decenni, percorrono lunghe distanze per far visita alle ossa dei loro parenti defunti. Una volta arrivato, l'intero branco resta in silenzio e a turno gli animali ispezionano i resti, sfiorandoli, girandoli e annusandoli delicatamente. In Kenya, riferisce Adamson, un elefante maschio una volta era stato abbattuto perché continuava a sconfinare nei parchi del governo. Il corpo era stato trascinato a quasi un chilometro di distanza, e lì lo avevano macellato per distribuirne la carne ai membri delle tribù locali. Quella notte, altri elefanti avevano trovato la carcassa, ne avevano raccolto le ossa e le avevano riportate nel punto in cui l'animale era stato ucciso.
I riti funebri sono diffusi anche tra i membri della nostra stessa famiglia, gli ominidi, in cui rientrano le grandi scimmie sia moderne che estinte. Al pari degli elefanti, anche gli scimpanzé spesso si stringono attorno al cadavere di un membro morto del branco e restano in silenzio per ore, cosa che in momenti normali non fanno. Fanno a turno a pulire il corpo e di tanto in tanto rompono il silenzio con urla e salti. Tali comportamenti sono assai simili alle usanze funebri presenti in molte culture umane, in cui per esprimere il lutto si organizzano veglie funebri o si eseguono pianti, lamenti e altre forme di cordoglio attraverso la voce sul corpo del defunto.
La primatologa Jane Goodall, che è stata la prima scienziata a studiare sistematicamente i primati non umani nel loro ambiente naturale, ha descritto tutta una serie di comportamenti sorprendenti tra le scimmie. Ha trascorso diversi anni in compagnia degli scimpanzé nel Parco nazionale del Gombe, in Tanzania. E riferiva come, quando gli scimpanzé visitavano determinati luoghi, mettessero in atto alcuni comportamenti piuttosto singolari. Per esempio, quando si avvicinavano a una grande cascata, eseguivano spesso quella che Goodall definiva la “danza della cascata”, un'esibizione spettacolare che poteva arrivare a durare anche quindici minuti. Nel corso dell'esibizione gli scimpanzé si ergono in piedi, si dibattono e ondeggiano ritmicamente da una zampa all'altra in uno stato di ipereccitazione, fanno l`altalena sulle liane attraverso gli spruzzi e scaraventano grosse pietre nell’acqua. Una volta finito il trambusto, si siedono e restano in silenzio a guardare la cascata per diversi minuti. Gli scimpanzé eseguono danze simili “al sopraggiungere di una pioggia battente, allungandosi per far ondeggiare ritmicamente gli arbusti o i rami più bassi avanti e indietro, poi avanzano al rallentatore schiaffeggiando rumorosamente il terreno con le mani, battendo i piedi e scagliando un sasso dopo l'altro. [...] Non è possibile che queste esibizioni siano stimolate da sentimenti affini alla meraviglia e allo stupore?” si chiedeva Goodall.
Più di recente, in diverse località dell’Africa occidentale, gli scimpanzé sono stati osservati raccogliere pietre e portarle presso determinati alberi. Le mettevano nell'incavo della pianta, le usavano per tamburellare sui tronchi o le ammucchiavano alla base. I ricercatori hanno assimilato quei mucchi di pietre ai tumuli di sassi che i popoli di varie culture usano per contrassegnare i luoghi sacri. In effetti, questi alberi sembrano avere un significato speciale per gli scimpanzé, che spesso cambiano strada quando si spostano in quella zona per far loro visita prima di riprendere il viaggio. Si mettono in piedi di fronte all'albero e iniziano a ondeggiare avanti e indietro, ansimando, schiamazzando e saltando su e giù in uno stato di eccitazione febbrile. Al culmine di questa performance iniziano a tamburellare sul tronco con le zampe o con dei sassi. I primati sono per lo più specie sociali e come tali hanno rituali sociali. Alcune di queste specie vivono in quelle che gli antropologi chiamano società di “fissione-fusione”, in cui gli individui mantengono un'affiliazione elastica al proprio branco, dividendosi in gruppi più piccoli per procurarsi il cibo e poi riunendosi di nuovo. E un po’ come fanno gli esseri umani. Distribuiamo il tempo libero a nostra disposizione tra la famiglia più stretta e quella allargata, i migliori amici, i colleghi e diversi altri gruppi a seconda delle nostre esigenze, dei nostri interessi e dei nostri valori. Nelle specie che costituiscono società di fissione-fusione, gli individui possono staccarsi dal gruppo per parecchio tempo prima di incontrarlo di nuovo. Quando si ritrovano, compiono rituali di saluto che contribuiscono a riaffermare i legami. Gli esseri umani si stringono la mano, si baciano o si abbracciano. Anche gli scimpanzé, i bonobo e le scimmie ragno fanno tutte queste cose. Si abbracciano, si baciano, si spulciano a vicenda e schiamazzano (un po’ come un gruppo di adolescenti che urlano eccitati “Oh, mio Dio!”). Gli scimpanzé si danno anche una “stretta di mano”, una mossa segreta specifica per ogni gruppo di scimmie. E i maschi dei babbuini si danno una “stretta allo scroto” convenzionale, che funziona esattamente come state immaginando ed è un rito che serve a creare fiducia. L'antropologo Mervyn Meggitt aveva osservato un rituale simile tra i walbiri, una tribù di aborigeni australiani che ricorreva a un rito di stretta del pene per stemperare le tensioni tra uomini. “Se la faccenda è grave, tuttavia, e magari riguarda un'uccisione pregressa o una morte per presunta stregoneria, il soggetto leso può rifiutarsi di prendere in mano il pene di chi gli sta facendo visita.” Tale rifiuto, a detta di Meggitt, costituiva un affronto pesante e poteva sfociare in un bagno di sangue.
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Cultura Dassanech. Etiopia. I partecipanti si cospargono di letame durante la “cerimonia del bue orgoglioso”.

 

 

 

 

 

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Nessun altro animale ricorre al rito in modo così capillare e compulsivo come l'Homo sapiens. Di fatto, gli archeologi spesso considerano il rituale uno dei tratti fondamentali che definiscono l’uomo moderno sotto il profilo comportamentale, poiché esso è legato alla capacità di pensiero simbolico. Noi esseri umani siamo a quanto pare unici per la nostra capacità di comunicare idee e concetti astratti complessi, non solo sul qui e ora, ma anche rispetto ad altri tempi e luoghi, persino immaginari. Lo facciamo non solo attraverso l'arte, la narrazione e il mito, ma anche per mezzo di rituali. In effetti, diverse teorie sulle origini della cognizione umana ipotizzano che rito e intelligenza si siano evoluti di pari passo.
I bioantropologi sostengono che le cerimonie di gruppo potrebbero aver giocato un ruolo chiave nella trasmissione del sapere culturale nelle società prelinguistiche. Mediante la rievocazione simbolica di narrazioni collettive, il rito serviva da protolinguaggio radicato in grado di fornire un “sistema di supporto esterno” alla cognizione individuale: un passo cruciale sulla strada verso il linguaggio stesso. Il neuroscienziato Merlin Donald sostiene che il rito sia stato una pietra miliare mentale nell'evoluzione della cognizione sociale, che ha permesso ai primi ominidi di adeguare la propria mente alle convenzioni sociali. Stabilendo un sistema condiviso di esperienze e significati simbolici collettivi, ha contribuito a coordinare tra loro pensiero e memoria, permettendo a un gruppo di esseri umani di funzionare come un organismo unico. E in virtù della sua intima connessione col simbolismo, il ritmo e il movimento, nonché del suo ruolo di demarcazione tra straordinario e ordinario, è connesso anche all’evoluzione dell'arte.
Se queste teorie reggono, il rito è parte integrante di ciò che siamo come specie e ha svolto un ruolo cruciale nella nostra evoluzione. Le teorie sul remoto passato sono, ovviamente, difficili da verificare. Le società prealfabetizzate non ci hanno naturalmente lasciato alcun testo, quindi non sappiamo nulla della loro lingua, delle loro credenze, dei loro miti e delle loro narrazioni. Ma sebbene le menti non si trasformino in fossili, l’arte e i rituali possono lasciare tracce nei reperti archeologici, e così è stato.
La più antica testimonianza dell'elemento rituale nella nostra linea evolutiva, distintasi dagli scimpanzé 6-7 milioni di anni fa, arriva dai luoghi di sepoltura. Nella regione di Atapuerca, nel nord della Spagna, gli archeologi hanno rinvenuto resti di scheletri di almeno ventotto individui in una grotta cui hanno dato il nome di Sima de los Huesos (Fossa delle Ossa). Sebbene il sito faccia parte di un vasto sistema di grotte, tutti gli scheletri erano ammassati in una piccola cavità, distante dall'ingresso, insieme a un'ascia di quarzite finemente intagliata. Non ci sono prove che qualche parte della grotta fosse abitata, il che suggerisce che i corpi siano stati trasportati e deposti lì di proposito. Il Dna estratto da oltre 7000 ossa ha evidenziato come gli scheletri appartenessero a esemplari di Homo heidelbergensis, i più antichi antenati a noi noti dell'uomo di Neanderthal, vissuti 430.000 anni fa.
Una necropoli analoga è stata rinvenuta all'interno di una grotta nella provincia di Gauteng, in Sudafrica: in questo caso i resti appartenevano a una specie umana arcaica denominata Home naledi. La grotta conteneva gli scheletri interi di quindici individui. Dalla datazione al carbonio è emerso che erano vissuti circa 250.000 anni fa. Il sito era assolutamente inalterato: non c'erano segni di predatori che fossero mai entrati nella grotta, per esempio tracce di denti sulle ossa, né macerie o indizi di allagamento. Gli scheletri erano intatti e giacevano nella stessa posizione in cui probabilmente erano stati collocati i cadaveri. Sembra che altri Homo naledí avessero trasportato i corpi lungo i cunicoli bui e tortuosi della grotta, arrampicandosi in cima a una roccia appuntita alta 12 metri per poi calarsi attraverso uno stretto crepaccio ed entrare in una cella isolata, dove li avevano adagiati a riposare prima di bloccare l'ingresso una volta usciti. E non si tratta di un episodio isolato. I cadaveri furono deposti lì a più riprese nell'arco di generazioni. A quanto pare era un cimitero preistorico.
Non tutti gli scienziati sono convinti che questo sia prova di una sepoltura deliberata. Sebbene siano state scartate varie altre spiegazioni, non c'è ancora una prova certa. Benché alquanto improbabile, è comunque possibile che quindici individui diversi siano caduti nella cavità e vi siano morti senza rompersi nemmeno un osso. Forse all'epoca la topografia della grotta era diversa ei corpi vi furono trascinati dall'acqua di un'alluvione. Oppure potrebbe esserci qualche altra spiegazione, che verrà rivelata da ricerche future. E difficile dirlo basandosi su un unico sito.
Testimonianze meno controverse arrivano dai nostri parenti estinti più prossimi, gli uomini di Neanderthal. Sono stati rinvenuti siti di sepoltura in varie località in Iraq, Israele, Croazia, Francia e non solo, ed è evidente che queste comunità non si limitavano a disfarsi dei propri morti. Ne deponevano con cura i resti nei cimiteri, soprattutto quelli dei bambini piccoli, spesso disponendoli in posizione fetale, e facevano di tutto per proteggere le tombe dai saprofagi. La presenza sporadica di teschi e ossa di orsi, talvolta disposti a cerchio, ha indotto alcuni archeologi a ipotizzare che i Neanderthal praticassero anche il totemismo o il culto degli animali. Nella grotta di Bruniquel, nel Sudovest della Francia, per esempio, spezzavano le stalagmiti e le utilizzavano per costruire ampie strutture ad anello nelle profondità del sottosuolo, probabilmente luoghi di incontro destinati a un qualche tipo di rito collettivo.
Alcuni continuano a dubitare del grado di complessità delle pratiche rituali dell'uomo di Neanderthal. Dopotutto, le prove oggettive sono scarse e non sapremo mai cosa passasse loro per la testa quando seppellivano i loro cari. Ma una cosa è certa: all'epoca della comparsa della nostra specie, le prove di un'attività rituale sono incontrovertibili. Gli esseri umani dall'anatomia moderna (Homo sapiens) non si limitavano a seppellire i propri morti. Li abbellivano con l'ocra rossa e deponevano all'interno delle loro tombe gioielli, opere d’arte, oggetti e animali preferiti. In molti casi, praticavano anche sepolture di secondo livello, bruciando o asportando in altro modo la carne dal cadavere o lasciando che si decomponesse prima di depositarne minuziosamente i resti in una tomba. Praticavano anche una serie di altri riti collettivi, come suggeriscono numerose incisioni e pitture rupestri, manufatti simbolici e la distruzione intenzionale di vasellame e altri beni di valore.
Il sociologo francese Emile Durkheim ha notato come la vita nelle società aborigene alterni due fasi diverse: "Talvolta, la popolazione è dispersa in piccoli gruppi che attendono, indipendentemente gli uni dagli altri, alle loro occupazioni; ogni famiglia vive allora per conto proprio, cacciando, pescando, cercando, cioè, di procurarsi il nutrimento indispensabile con tutti i mezzi di cui dispone. Talvolta, invece, la popolazione si concentra e si condensa [...] in punti determinati. Questa concentrazione ha luogo quando un clan o una parte della tribù è convocato nella sua assise e, in questa occasione, si celebra una cerimonia religiosa."
Queste due fasi distinte, sosteneva Durkheim, rappresentano due sfere assai diverse tra loro: il sacro e il profano. Nel profano rientrano tutte le attività ordinarie, banali e monotone dell'esistenza quotidiana: lavorare, procacciarsi il cibo e affrontare la vita di tutti i giorni. Al contrario la sfera del sacro, che si crea per mezzo dei rituali, è dedicata a ciò che si ritiene speciale. La celebrazione di cerimonie collettive permetteva alla gente di accantonare le preoccupazioni quotidiane e di lasciarsi trasportare, seppur temporaneamente, in uno stato diverso. E poiché il rituale deve sempre attenersi a una struttura rigida, la partecipazione a cerimonie collettive ha stabilito per i nostri antenati le prime convenzioni sociali. Riunendosi per mettere in atto le proprie cerimonie, i partecipanti cessavano di essere un assortimento eterogeneo di individui e diventavano una comunità, con norme, regole e valori condivisi. E per questo che l’antropologo Roy Rappaport ha definito il rito “l'atto sociale basilare dell'umanità”. E’ così che nasce la società stessa. E in effetti questo può essere, in senso stretto, storicamente vero.
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Cultura Dassanech. Etiopia. Uomo con copricapo in pelle di leopardo e piume di struzzo celebrante la cerimonia “Dimi” per la circoncisione degli adolescenti.

 

 

 

 

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Oggi sappiamo che la cosiddetta Rivoluzione agricola ebbe in realtà ripercussioni devastanti su quei primi agricoltori. Testimonianze antropologiche di società sia contemporanee che antiche indicano come il passaggio da uno stile di vita nomade a uno sedentario abbia portato a un forte peggioramento delle condizioni di vita. I cacciatori-raccoglitori usufruivano di un'ampia gamma di ambienti, garanzia di una dieta relativamente equilibrata e di uno stile di vita sano e attivo. Dal momento che gli spostamenti continui impedivano un accumulo delle risorse, tali società erano incredibilmente egualitarie. Lavoravano meno ore per soddisfare i propri fabbisogni alimentari e avevano più tempo libero.
Al contrario, l’agricoltura ha indotto a seguire un regime alimentare decisamente più limitato, per lo più circoscritto a poche colture basilari e, in quelle popolazioni che avevano sviluppato una tolleranza al lattosio o scoperto tecniche di cucina come la fermentazione, ai latticini. Ciò ha reso i primi popoli stanziali più esposti alle calamità naturali e ha provocato gravi carenze a livello nutrizionale. I contadini dovevano lavorare molto di più per soddisfare i propri fabbisogni elementari, un po' perché la vita agricola era dura e un po' perché la produzione di eccedenze di cibo comportava l'impiego di risorse aggiuntive per difendere quel surplus dalle razzie. L’accumulo di ricchezze nelle mani di poche élite e la costituzione di eserciti portarono alla disuguaglianza e crearono le condizioni per lo sfruttamento delle masse. Vivendo a stretto contatto con i propri simili e con il bestiame, l'uomo divenne vulnerabile alle malattie, e in molti casi le epidemie sterminarono intere popolazioni. Il numero dei figli era ormai più che raddoppiato, ma solo pochi di quei figli raggiungevano l'età adulta.
In realtà, il declino in termini di salute e aspettativa di vita e l’incremento del tasso di mortalità infantile che l'avvento dell'agricoltura ha comportato sono decisamente sbalorditivi. La statura media calò di 10 centimetri, e non sarebbe tornata ai livelli preneolitici fino al ventesimo secolo. Gli agricoltori soffrivano di malattie, gravi carenze di vitamine, deformità e patologie varie. Le testimonianze fossili mostrano come le loro ossa avessero perso densità e robustezza, e come soffrissero sistematicamente di osteoporosi, osteoartrite e malattie degenerative. Le corone dei denti presentavano un maggior numero di solchi e buchi, poiché lo smalto si era assottigliato, il che è indice di carenze a livello nutrizionale. L’aumento nel consumo di piante amidacee determinava carie e caduta dei denti. Le infiammazioni allo scheletro tradiscono la diffusione di malattie infettive come la tubercolosi, la sifilide e la lebbra. I crani diventarono porosi per via della carenza di ferro e dell'anemia. Scavi di insediamenti neolitici evidenziano come il suolo e l’acqua fossero gravemente contaminati da feci di animali e le abitazioni infestate da parassiti. E così, la Rivoluzione neolitica non fu accompagnata da nessun aumento immediato della popolazione, né dal fiorire di grandi città e civiltà avanzate. Per migliaia di anni, la vita dei primi agricoltori sembra essere stata a tutti gli effetti soltanto peggiore di quella dei cacciatori-raccoglitori.
Quale fu allora il motivo all'origine degli insediamenti permanenti? E ovvio che le popolazioni del Neolitico non abbiano deciso di scambiare una comoda sussistenza con la massacrante fatica dell’agricoltura solo perché i loro discendenti potessero cogliere i frutti di quel sacrificio millenni più tardi. Le spinte della selezione naturale, siano esse biologiche o culturali, non hanno lungimiranza: a meno che un comportamento non abbia un'utilità immediata, non si diffonderà, a prescindere dai vantaggi che potrebbe arrecare alle generazioni future.
La scoperta di siti come Göbekli Tepe (per una disamina più approfondita di Göbekli Tepe, leggasi "el mestée" di seguito linkato https://www.mwankana1952.it/pag.php?id=45&idsc=103, mia nota) ci offre una spiegazione affascinante: il motore alla base di questa transizione potrebbe esser stato di natura sociale piuttosto che economica. Le persone confluivano da luoghi diversi per celebrare grandi riti collettivi che si tenevano all’interno di templi colossali. Ma per costruire quei templi sarebbe stata necessaria una cooperazione su una scala assolutamente senza precedenti per quella fase della storia dell'umanità. Alcune delle pietre utilizzate nella costruzione di Göbekli Tepe, estratte da una cava nei dintorni, sono alte più di 6 metri e pesano fino a 15 tonnellate. Per estrarre, trasportare, scolpire e posizionare quei monoliti in assenza di una tecnologia sofisticata devono essere stati necessari folti gruppi di individui che lavorassero insieme per anni, gettando le fondamenta dello sviluppo di società complesse. Una volta completato, il tempio avrebbe rappresentato un incentivo ad avviare un'attività di coltivazione per provvedere al sostentamento di un clero permanente e dei numerosi pellegrini in visita. Di certo, prove genetiche indicano che, a 500 anni dalla costruzione di Göbekli Tepe, non molto lontano da lì si trovano le più antiche varietà di grano addomesticato al mondo. Pochi secoli dopo, l'uomo avrebbe anche iniziato ad allevare il bestiame in quella zona. Per citare le parole di Schmidt, “prima venne il tempio, poi la città”.
E ‘una tesi fortemente radicale. Per secoli ha prevalso l'idea che la civiltà fosse mossa da forze materiali. Alcuni archeologi attribuiscono i cambiamenti sociali verificatisi nel Neolitico alle pressioni demografiche che costrinsero gli uomini a trovare un modo per incrementare la produzione di cibo. Altri ritengono siano stati i cambiamenti climatici a indurli a cercare terre fertili in grado di ospitare più selvaggina. O magari è successo il contrario: furono proprio i gruppi bloccati in ambienti periferici a trovarsi costretti a innovare cercando nuovi mezzi di sussistenza per sopravvivere. C’è anche chi sostiene che il cambiamento sia stato frutto di progressi tecnologici che hanno offerto modi migliori di sfruttare le calorie. O forse sono stati i maschi alfa di quelle prime società a convincerle (o costringerle) a espandersi in modo da soddisfare la propria brama di potere politico.
Filosofi e politologi si sono a lungo misurati in accesi dibattiti per stabilire se il passaggio dal procacciarsi il cibo alla vita stanziale sia stato una buona idea. C'è chi, come Thomas Hobbes, vi riconosce un momento cruciale che ha innalzato la razza umana a un'esistenza più morale e ricca di significato. Per altri, come Jean-Jacques Rousseau o Karl Marx, fu un terribile errore che finì per corrompere la natura umana e spianare la strada allo sfruttamento delle masse. Ma tutti concordano sul fatto che sia stata la base materiale, le condizioni legate ai mezzi di produzione economica, a far emergere una sovrastruttura, vale a dire le norme, le credenze religiose, le imprese artistiche e le pratiche rituali di una società. L'interpretazione di Schmidt capovolge quell'ortodossia. Se fosse vera, allora un capitolo fondamentale della storia della nostra specie andrebbe rivisto. E se la spinta irresistibile che ha dato origine alle prime grandi civiltà non fosse stata la fame, ma piuttosto il bisogno di rituali?
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Cultura Dinka. Sudan. Cerimonia delle scarificazioni per l’iniziazione all’età adulta.

 

 

 

 

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La speciale seduzione della ritualità va ben oltre la prima infanzia. Resta parte integrante della nostra vita, persiste nel corso dello sviluppo e nell'età adulta e si affina nella miriade di modi in cui gli esseri umani di ogni cultura celebrano i momenti più importanti della propria vita personale e pubblica. In effetti, il rito è uno dei tratti più prevedibili di qualsiasi società umana. L’antropologo Donald Brown ha compilato un elenco di fattori umani universali. “Che cos’hanno in comune tutti i popoli, tutte le società, tutte le culture e tutte le lingue?” si chiedeva. La risposta la dava nella forma di una descrizione di ciò che definiva il Popolo universale. “E’ una descrizione di tutti i popoli, o degli uomini in generale.” Nella lista rientrano la lingua, la cucina, i legami di parentela, la musica, la danza, l'arte e vari altri aspetti dell'espressione umana per i quali non si conoscono eccezioni. Vi figurano anche molti atti cerimoniali; riti di matrimonio, usi legati al parto, sepolture, giuramenti e altro ancora: “Il Popolo universale possiede dei riti, tra i quali rientrano i riti di passaggio che segnano la transizione di un individuo da uno status all’altro”.
Gli studiosi di rituali usano il termine “riti di passaggio” per indicare le cerimonie che segnano le fasi e i cambiamenti più importanti della vita. L’antropologo Arnold van Gennep è stato il primo a notare come tutti i riti di passaggio seguano una struttura analoga e svolgano ruoli simili. Questi riti contemplano tre fasi. Innanzitutto, gli iniziati vengono simbolicamente allontanati dal loro precedente stile di vita e iniziano ad avvicinarsi a una nuova identità e a un nuovo status. Per esempio, tagliare o rasate i capelli è un elemento comune a molti riti di passaggio (si pensi all'arruolamento nell'esercito o all'iniziazione in una comunità religiosa), che simboleggia il lasciarsi alle spalle una parte di sé per diventare una persona nuova. La seconda fase (spesso denominata “Iiminale”) è il periodo di transizione tra le altre due tappe, in cui gli iniziati si sono lasciati alle spalle lo status precedente ma non hanno ancora acquisito il nuovo. Nel corso di tale periodo l’adolescente non è né ragazzo né uomo; la sposa non è né nubile né coniugata; il defunto non fa parte né di questo mondo né dell'aldilà. Sono una via di mezzo e a metà strada. Nella terza e ultima fase la transizione è compiuta e l'iniziato viene reintegrato nella società in qualità di persona nuova. Al termine di una festa di laurea, lo studente è diventato un esperto; l’arruolamento trasforma i civili in soldati; un funerale aiuta il defunto a diventare un antenato. I riti di passaggio non si limitano a celebrare il passaggio a un nuovo stato, ma lo creano agli occhi della società.
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Cultura Fang. Camerun. Cerimonia di iniziazione “Bwiti”.

 

 

 

 

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Tutte le più importanti tappe della vita sono segnate da riti, e lo stesso vale per quella definitiva. In Indonesia, i toraja vantano una tradizione singolare che consiste nel tenere i corpi dei parenti morti nelle case per mesi, se non addirittura per anni, fino a quando non si organizza loro un funerale sfarzoso. Nel frattempo i cadaveri si disidratano e si mummificano, ma i parenti li trattano come se fossero ancora vivi. Li tengono sul letto, cambiano loro i vestiti, offrono loro da mangiare e da bere e parlano quotidianamente con loro. Quando tutti i preparativi sono ultimati, l'intera comunità prende parte a un imponente raduno pubblico e il cadavere viene finalmente deposto. Ma le interazioni con il defunto non terminano con il funerale. Ogni anno il corpo mummificato viene riesumato, vestito e fatto sfilare per la citta.
Le pratiche dei toraja potranno apparire bizzarre, ma tradizioni analoghe abbondano in tutto il mondo. Molte culture praticano la cosiddetta “seconda sepoltura”, che prevede di riesumare i resti del defunto per poi inumarli di nuovo con una seconda cerimonia. E in molte società si costruiscono edifici monumentali per i propri morti anche quando non ci si può permettere gli stessi standard per i vivi. Ho visitato zone del Madagascar in cui la gente del posto abitava in minuscole capanne di canne o mattoni cotti al sole, senza finestre, esposte ai predatori, ai cicloni e ad altre calamità, mentre gli antenati defunti occupavano gli unici edifici sicuri, spaziosi e solidi, in mattoni e malta, dell'area. E chiunque abbia visto l’antica città di Petra, in Giordania, ricorderà con stupore che gli innumerevoli palazzi scavati direttamente nella roccia venivano usati come tombe. Mentre i morti riposavano in quei capolavori di architettura, i nabatei vivevano in tende di pelle di capra.
Questa preoccupazione per i morti è davvero impressionante. Dal nostro punto di vista, creature che piangono i propri morti, può sembrare naturale. Ma perché l'evoluzione avrebbe dovuto creare una specie che fa di tutto per portare il lutto dei propri defunti, o che in prima battuta lo porta? In quanto animali ultrasociali, abbiamo una serie di meccanismi di adattamento alla vita sociale. Tra questi, forme particolarmente forti di attaccamento e legame, che partono dal nucleo familiare ma si estendono anche a parenti alla lontana, partner sessuali e conoscenti e amici. Quando i bambini piccoli vengono separati dai genitori, spesso provano una reazione di forte stress, nota come ansia da separazione, e lo stesso vale per i genitori che non hanno più sott'occhi la propria prole. Questo perché il nostro cervello innesca il rilascio di ormoni dello stress che svolgono un'ovvia funzione adattativa: motivano i genitori e la prole a restare vicini. Anche gli innamorati possono vivere uno stress analogo dopo una rottura, così come dei buoni amici che abbiano litigato. Questo stress li spinge a cercare di riconciliarsi per evitare che le loro reti sociali si disintegrino. Ma quando sopraggiunge la morte, l'ansia da separazione non può più assolvere al suo scopo, poiché il ricongiungimento non è più possibile, il che non fa che esacerbare il dolore. Questa tesi sembra essere supportata dal fatto che tutti gli animali diversi dall'uomo che a quanto pare piangono i propri morti, come elefanti e scimpanzé, sono anche creature estremamente sociali.
Secondo questa prospettiva, la capacità di elaborare il lutto potrebbe derivare da adattamenti evolutivi influenzati dalla selezione naturale, sebbene il lutto in sé possa non essere un fattore adattativo. Il motivo per cui persiste è che la separazione è un evento molto più frequente della morte, e quindi i benefici complessivi derivanti da tale ansia superano il prezzo del lutto. Per far fronte a emozioni debilitanti come l'esperienza della perdita e la paura della morte, tutte le culture umane hanno sviluppato dei riti funebri.
La morte non è l’unico ambito in cui ciò accade. Come vedremo, esiste piuttosto uno schema generalizzato: i riti possono aiutarci a gestire prospettive fortemente allarmanti di cui in prima battuta solo un determinato livello di complessità sociale può renderci consapevoli. In ambiti in cui i nostri meccanismi evoluti sono in qualche misura inadeguati alle sfide che la vita ci pone, i riti possono fungere da strumenti mentali che ci aiutano a superare quelle difficoltà, aggirando o ricalibrando tali meccanismi. In virtù di questa loro utilità, la brama di rituali è profondamente radicata nella psiche umana. Siamo portati a compierli non solo perché ci piace, ma perché ne abbiamo bisogno.
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Lokossa. Benin. Cerimonia di iniziazione di un adepto al "Ganbada Voudou".

 

 

 

 

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Gli antropologi sono da tempo consci del fatto che anche riti apparentemente molto diversi tra loro e che si svolgono in ambiti del tutto scollegati possono comunque presentare notevoli analogie. Non solo perché si tratta di azioni vaghe in termini di causa-effetto, prive di un nesso evidente con un risultato specifico. Le routine quotidiane dei bambini, le scaramanzie di giocatori d’azzardo e atleti, le preghiere rivolte alle varie divinità, i riti collettivi sia religiosi che laici, e persino l'iper-ritualizzazione patologica di chi soffre di disturbo ossessivo-compulsivo sembrano tutti condividere alcuni elementi strutturali chiave.
Innanzitutto, la ritualizzazione è caratterizzata dalla rigidità: le azioni rituali vanno eseguite sempre allo stesso modo (il modo giusto). La fedeltà è fondamentale, deviare dal copione inaccettabile. Nella maggior parte dei contesti, si può bere il tè in un sacco di modi. Tutto quel che serve è qualche foglia di tè e un recipiente per far bollire l'acqua. Ma una cerimonia del tè giapponese deve seguire una coreografia precisa. C'è un rigido protocollo che stabilisce quando devono arrivare gli ospiti, come vanno accolti e dove si deve farli accomodare. La sala da tè deve essere quadrata, con una nicchia a un'estremità, un focolare e appeso alla parete un rotolo con una composizione floreale. I padroni di casa indossano abiti speciali. La preparazione necessita di utensili particolari che vanno maneggiati con la massima cura: spesso si possono toccare solo con i guanti e li si deve purificare prima e dopo ogni utilizzo. Anche gli ospiti devono essere puri: tolgono le scarpe, si inchinano in silenzio e fanno abluzioni. Una campanella suona per scandire le varie fasi della cerimonia, Il tè viene servito sul pavimento. Bisogna sollevarlo con la mano destra, appoggiarlo sul palmo della sinistra, girarlo due volte in senso orario e fare un inchino. Una miriade di altre regole definisce anche i più piccoli dettagli, da come si porge la salvietta al modo in cui si deve poggiare il coperchio sulla teiera. Di conseguenza, la cerimonia del tè può durare fino a quattro ore.
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Un secondo caposaldo della ritualità è dato dalla ripetizione. Un mantra si può ripetere 108 volte; i cristiani ortodossi si fanno il segno della croce tre volte; e chi tocca ferro lo fa sempre più di una volta. Oltre a questa ripetizione intrinseca, nella maggior parte dei casi il rito in sé viene ripetuto con regolarità. Nei Salmi figurano frasi come “Di sera, al mattino, a mezzogiorno [...] egli ascolta la mia voce” (55,18) o “Sette volte al giorno io ti lodo” (119,164). Analogamente, i musulmani pregano cinque volte al giorno, i soldati issano e ammainano la bandiera ogni giorno e le scuole organizzano ogni anno cerimonie di diploma.
Infine, un'ulteriore caratteristica della ritualizzazione è che comporta una ridondanza. In altre parole, anche quando si può dire che le azioni rituali producono un effetto causale diretto, spesso esse superano e oltrepassano ciò che ci si potrebbe normalmente aspettare a fini pratici. Lavarsi le mani per venti secondi sarebbe già sufficiente a garantire un'igiene adeguata, ma un rituale di pulizia può durare anche ore. Nel mio lavoro sul campo ho assistito a cerimonie indù che duravano fino a una settimana e prevedevano innumerevoli atti rituali. Allo stesso modo, il professore di filosofia indiana Fritz Staal ha documentato l'Agni, un rituale vedico eseguito in India, che si protraeva per dodici giorni e comprendeva un totale di ottanta ore di declamazioni e canti collettivi.
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I riti sono fortemente strutturati. Impongono rigidità (bisogna eseguirli sempre nel modo “corretto”), reiterazione (si ripetono sempre gli stessi gesti, ancora e ancora) e ridondanza (possono andare avanti a lungo). In altre parole, sono prevedibili. Questa prevedibilità mette ordine nel caos della vita quotidiana, e ciò ci garantisce una sensazione di controllo su situazioni non controllabili. Studi dimostrano come, quando sperimentano l’incertezza e la mancanza di controllo, le persone siano più propense a individuare schemi o sistematicità laddove non ve ne sono. Si può andare dalle illusioni visive (per esempio scorgere facce nelle nuvole) alla percezione di una causalità in eventi fortuiti e alla formulazione di teorie complottiste. In tali circostanze gli individui sono anche più inclini a ricorrere a comportamenti rituali. E’ il cosiddetto modello del controllo compensativo: bilanciamo la mancanza di controllo in un ambito andandocelo a cercare in un altro. Il fatto che questa sensazione di controllo sia illusoria conta poco. Quel che importa è che il rito può essere un efficace meccanismo di reazione, ed è per questo che le sfere della vita in cui la posta in gioco è alta e gli esiti sono incerti pullulano di rituali.
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I riti di una cultura traggono la propria autorità dalla tradizione. È un fatto singolare, poiché non tutte le cose datate vengono considerate migliori. Se vi dicessi che il mio cellulare ha vent'anni, non ne dedurreste che è per forza un ottimo telefono. In alcuni ambiti, vecchio e immutato è sinonimo di antiquato e obsoleto.
Ma a differenza dell'elettronica, le tecnologie culturali traggono vantaggio da una lunga tradizione. Un rituale che esiste da tempo immemore sarà stato praticato da innumerevoli generazioni e avrà funzionato a dovere. Al pari di un vino pregiato, queste usanze col tempo non fanno che migliorare. Ecco perché chi li pratica ribadisce spesso che i suoi rituali sono immutati e immutabili, anche quando subiscono revisioni e modifiche. In tutte le comunità che ho studiato, le persone mi hanno sempre detto che le loro tradizioni si tramandavano inalterate di generazione in generazione. E anche quando accennavo a un qualche aspetto del rito notoriamente diverso, la gente subito lo liquidava come un’eccezione, sporadica e irrilevante. “È vero, una volta si sacrificavano i bufali e ora si sacrificano le pecore. Ma è solo perché qui non ci sono più bufali,” mi ha detto una volta una donna greca. La continuità è importante. Eseguire un rito nello stesso modo in cui si è sempre fatto ci rende partecipi di qualcosa non solo più grande di noi, ma anche più grande di tutto il nostro mondo sociale, collegandoci a una società di sodali che trascende il tempo e lo spazio.
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Moletjie Moshate. Sud Africa. Celebrazioni per la cerimonia di iniziazione.

 

 

 

 

 

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Nel cuore della foresta amazzonica brasiliana, un gruppo di ragazzini della tribù dei sateré-mawé aspetta con ansia la cerimonia di passaggio all’età adulta. Gli anziani preparano un paio di guanti fatti di foglie di palma e piume di uccello. La sfida che i giovani sono chiamati ad affrontare consiste nell'indossare quei guanti per qualche minuto. Ma è più facile a dirsi che a farsi. Alcune ore prima, sono state raccolte nella foresta un centinaio di formiche proiettile, trasferite poi al villaggio all'interno di un fusto di bambù cavo. Queste grosse formiche hanno mandibole a tenaglia di dimensioni spropositate, in grado di incidere con facilità la pelle. Ma e la loro altra estremità a renderle così minacciose. I loro pungiglioni velenosi hanno la capacità di emettere una neurotossina paralizzante, causa a quanto si dice di una puntura che fa più male di quella di qualsiasi altro insetto. L'entomologo Justin Schmidt, che decise di sottoporsi a ogni tipo di attacco di insetti allo scopo di formulare lo Schmidt Sting Pain Index, l'indice del dolore da puntura di Schmidt, la descriveva come “camminare sui carboni ardenti con un chiodo di 8 centimetri conficcato nel tallone”. Per altri, una sola puntura equivale a un colpo di arma da fuoco (da qui il nome della formica).
Per poter manipolare i feroci artropodi, uno sciamano li immerge in un infuso di foglie di anacardio pestate, in modo da ridurli momentaneamente in uno stato di incoscienza. Le formiche vengono quindi tessute nei guanti affinché non possano scappare, con i pungiglioni rivolti verso l’interno. Una volta che si svegliano, lo sciamano soffia loro addosso del fumo per eccitarle. Non appena gli iniziati infilano le mani nei guanti, gli insetti furibondi iniziano a mordere e pungere.
Gli effetti strazianti si fanno sentire subito. Il veleno procura gonfiore e paralisi. I ragazzi sudano e tremano in modo convulso.
Prima che lo sciamano passi i guanti all’iniziato successivo, ogni giovane sarà stato punto centinaia di volte. Gli anziani li guidano in una danza per aiutarli a distrarsi. Ma col passare del tempo i sintomi non fanno che peggiorare. Gli iniziati manifesteranno febbre, vesciche, allucinazioni e spasmi di dolore lancinante. In Venezuela questa formica è soprannominata /mrmiga zzeíntícuatro (“formica 24”), a indicare le ventiquattr'ore di pena successive alla sua puntura. Il dolore è così insopportabile che si racconta di uomini che volevano mozzarsi le mani pur di porvi fine. Ma è solo l'inizio del calvario. Per diventare un guerriero, ogni ragazzo dovrà sottoporsi al rituale non una ma ben venti volte.
Questa delle formiche proiettile potrà sembrare una forma di iniziazione estrema. Ma i sateré-mawé non sono gli unici. Il patrimonio etnografico è pieno zeppo di rituali traumatici che spesso comportano così tanto stress e sofferenza da essere stati ribattezzati “riti del terrore”. Agli antropologi piace dissentire su moltissime cose. A maggior ragione, quindi, stupisce come l'idea che queste pratiche contribuiscano a mantenere l’ordine sociale sia stata ben di rado messa in discussione. Tuttavia, malgrado tale consenso, i tentativi di avvalorare quest'ipotesi scarseggiavano fino a poco tempo fa. Non è stato per mancanza d’interesse. Come s'è visto, i riti collettivi, e in particolare quelli estremi, non sono facili da studiare. Non sorprende quindi che i primi tentativi di misurare scientificamente gli effetti dell'intensità rituale siano stati circoscritti al laboratorio.

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In effetti, gli antropologi hanno rilevato uno schema: le società che per raggiungere i propri obiettivi si basano di più sulla solidarietà sociale tendono ad avere cerimonie di iniziazione più eclatanti. Da un'analisi storica è emerso che il costo dei riti di iniziazione nelle culture umane è legato alla serietà dei problemi di coordinamento che queste si trovano ad affrontare. Per mezzo di vecchio materiale etnografico, i ricercatori hanno studiato i riti di iniziazione maschili praticati in un campione rappresentativo di sessanta società di tutto il pianeta. Analizzando le dinamiche di conflitto violento di quelle società, hanno scoperto che la preponderanza di guerre si associava a rituali più onerosi. Inoltre, nelle società che si trovavano ad affrontare per lo più conflitti interni, i riti di iniziazione erano meno cruenti e i loro effetti tendenzialmente temporanei. Tali riti prevedevano, per esempio, la pittura del corpo o la deprivazione sensoriale. Al contrario, tra i gruppi impegnati in guerre con l'esterno e che quindi erano esposti a un rischio di vita maggiore, le iniziazioni tendevano a essere molto più pesanti e a lasciare tracce visibili sul corpo degli iniziati. Vi rientravano la mutilazione dei genitali, le cicatrici, i piercing sul corpo e i tatuaggi dolorosi. Oltre al costo della pratica in sé, queste azioni procurano a chi le compie un marchio identitario indelebile.
Esattamente come la coda del pavone consente alla femmina di valutare la prestanza del maschio sulla base del dispendio legato alla crescita di quel bizzarro piumaggio, allo stesso modo i rituali onerosi permettono ai membri di un gruppo di valutare il coinvolgimento di un individuo sulla base dei costi che azioni straordinarie comportano. Così facendo, questi riti diventano meccanismi di tutela volti a scoraggiare i parassiti e a favorire la cooperazione tra coloro che condividono lo stesso impegno, apportando benefici sia ai mittenti che ai destinatari del messaggio.
Per il mittente, il principale vantaggio è costituito dall'innalzamento di status. L'esecuzione dei rituali di un gruppo equivale all`accettazione simbolica dei valori di quella comunità. Di conseguenza, gli individui disposti a pagare un prezzo notevole per prendere parte a tali riti sono visti dagli altri membri del gruppo come più inclini a difendere i loro stessi ideali e, quindi, più affidabili. Come le cerimonie dei “potlatch”, in cui i capi convertono il capitale economico in capitale sociale, alcuni rituali estremi permettono ai partecipanti di usare il proprio capitale somatico (il corpo) per migliorare il proprio status sociale.
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Il tornaconto sociale è il motivo per cui spesso i soggetti con uno status inferiore sono disposti a fare quel passo in più per testimoniare il proprio impegno nei confronti del gruppo investendo in misura più pesante nella pratica di rituali onerosi. A titolo di esempio, da uno studio su un rito di piercing a Mauritius, abbiamo scoperto come individui di diversa estrazione socioeconomica si comportassero in modo molto diverso nel contesto della medesima cerimonia. Gli individui d'alto rango usavano il proprio capitale economico per fabbricare altari portatili più grandi e più riccamente decorati da offrire al dio Murugan nel corso della cerimonia. Al contrario, chi aveva uno status socioeconomico più basso partecipava al rituale secondo modalità più dolorose, infilandosi più aghi nel corpo nel corso della cerimonia. Dal momento che non disponevano di capitale economico, in cambio dello status offerto dal rituale pagavano con l'unica moneta che avevano: sangue, sudore e lacrime.
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I rituali onerosi hanno un potere di autorinforzo che si manifesta non solo nelle loro funzioni sociali, ma anche nelle loro proprietà psicologiche. Questi riti trasmettono informazioni importanti su chili pratica, e il messaggio non è diretto solo all'esterno, verso gli altri membri della comunità. Può anche essere indirizzato all'interno, verso se stessi. Anziché limitarsi a manifestare l’impegno, i rituali onerosi sono efficaci anche nel costruire l’impegno, e quindi nel produrre significato.
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Cultura Basuto. Lesotho. Giovani donne in abiti cerimoniali per rito di iniziazione all’età adulta.

 

 

 

 

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Ma i riti possono avere anche altri effetti, che operano in modalità bottom-up: esercitano la loro influenza interferendo direttamente nella chimica del cervello. Si prenda, per esempio, il sistema della ricompensa, che regola i livelli di neurotrasmettitori come la dopamina e la serotonina al fine di produrre sensazioni più intense, un tono dell’umore migliore e un senso di benessere generale. Questo sistema si è evoluto in modo tale da incentivare azioni cruciali per la nostra sopravvivenza, come l’alimentazione e l’accoppiamento. Ecco perché un'impennata di dopamina genera sensazioni di beatitudine e un senso di profondo coinvolgimento che viene spesso vissuto come uno stato di coscienza alterato. Le sostanze che danno dipendenza, come le droghe ricreative o l’alcol, sono molto efficaci nell'innescare tali meccanismi. Sin dall'antichità, diverse tradizioni rituali sono ricorse a sostanze allucinogene per indurre sensazioni forti, interferendo direttamente con l'attività della dopamina e della serotonina nel cervello. Queste sostanze possono risultare così efficaci nel produrre esperienze spirituali da essere per questo definite “enteogeni”, un termine che deriva dal greco e che significa “generare il divino all'interno”.
Le droghe, però, non sono gli unici enteogeni. Quelle stesse esperienze si possono ottenere manipolando corpo e mente. Controllando il movimento del corpo e la postura, la respirazione o la stimolazione sensoriale, alcuni riti fungono in pratica da enteogeni naturali. Per esempio, studi dimostrano che alcune forme di meditazione profonda possono influire in modo significativo sulla chimica cerebrale. Praticare lo “yoga nidra”, si è scoperto, aumenta i livelli di dopamina nello striato ventrale, mentre la meditazione “vipassana”, la meditazione “mindfulness” e la meditazione trascendentale regolano tutte i livelli di serotonina”. Stranamente, la trascendenza si può sperimentare tramite attività che sembrano collocarsi agli estremi opposti dell’eccitazione: sia la quiescenza, lo stato di iper-rilassamento indotto dalla meditazione profonda, sia l'iper-attivazione della trance sciamanica possono produrre sensazioni simili di assorbimento e tradursi in stati di dissociazione.
Impegnarsi in riti ad alta intensità che comportano eccitazione emotiva, dolore fisico e sfinimento, musica e balli ripetitivi, digiuno e/o sovraccarico sensoriale provoca una tempesta elettrochimica nel cervello, inducendo il sistema di ricompensa a sprigionare un cocktail di molecole del benessere. La serotonina contribuisce a regolare il tono dell'umore inibendo i sentimenti negativi: agisce da tranquillante, smorzando il dolore, favorendo il sonno, riducendo l’aggressività e la violenza e rendendo più socievoli. La dopamina, invece, è più direttamente connessa al piacere. Crea sensazioni gradevoli, euforia e motivazione a perseguire in maniera attiva quelle sensazioni. Quando c'è uno squilibrio nei livelli di serotonina e dopamina, si può soffrire di solitudine, ansia, depressione o di tutta una serie di altri disturbi mentali. Ecco perché la maggior parte degli antidepressivi si focalizza sul ripristino dei livelli di serotonina e dopamina nel cervello.
Quando l'eccitazione si protrae per lunghi periodi, può anche stimolare la produzione di euforizzanti endogeni, che sono un po' le droghe ricreative del nostro cervello. Queste sostanze svolgono un ruolo importante nel controllo della motivazione, migliorando l'umore, attenuando il disagio e l'ansia e mitigando il dolore. Il dolore è una sensazione molto importante perché ci aiuta a evitare situazioni pericolose. In linea di massima, se una cosa fa male, probabilmente non la si dovrebbe fare (con alcune evidenti eccezioni, come per esempio andare dal dentista). Ma quando proviamo un dolore, uno stress o una stanchezza fisica che si protraggono nel tempo, ciò segnala al nostro cervello che è in corso una lotta per la sopravvivenza. Il parto, la guerra, gli scontri, le fughe e altre occasioni di vita o di morte implicano spesso la necessità di spingersi al limite. In queste circostanze, il dolore può trasformarsi in una grave distrazione o in un impedimento. La funzione del sistema oppioide endogeno è quella di permettere al nostro corpo di andare avanti quando il gioco si fa duro. Proprio come gli antidolorifici prescritti dal medico, l'evoluzione ha sviluppato i suoi antidolorifici per permetterci di andare avanti senza farci abbattere dal dolore.
Si prenda l'esperienza dei podisti su lunghe distanze. Quando corrono, chilometro dopo chilometro, a tratti raggiungono uno stato che prende il nome di “runner’s high”, il cosiddetto “sballo del corridore": una sensazione euforica di esaltazione e ridotto disagio, cui spesso si accompagna la percezione quasi onirica di star fluttuando e di perdere il senso del tempo. Chi corre è solito descrivere questo stato come se si avesse la sensazione di volare, come quando si è fatti 0 si ha un'esperienza extracorporea. E’ un'esperienza al tempo stesso ipnotica e potenziante, che rende più energici e al contempo più rilassati e liberi da preoccupazioni. Questi effetti eccezionali sono frutto dell'attivazione di circuiti cerebrali specifici, come il sistema oppioide endogeno e il sistema endocannabinoide.
In uno studio che abbiamo condotto, io e i miei colleghi abbiamo scoperto che le persone sperimentano effetti simili dopo aver praticato diversi atti cerimoniali fisicamente onerosi come il body piercing, la danza e il camminare su coltelli o su tizzoni ardenti. Chi si sottoponeva ad attività così sfiancanti e dolorose, va detto, mostrava segni fisiologici di sofferenza: il suo battito cardiaco raggiungeva frequenze analoghe a quelle che avevamo registrato in Spagna (durante la camminata sui carboni di San Pedro, mia nota), ben oltre le 200 pulsazioni al minuto. Ma quella sofferenza, in realtà, lasciava a quegli individui la sensazione di star meglio: maggiore era stato lo sforzo fatto, meno stanchi e più euforici si sentivano a posteriori.
Al pari dei loro omologhi sintetici, euforizzanti endogeni intervengono nel trattamento del dolore cronico e della depressione, rafforzano il sistema immunitario e aumentano il senso di benessere soggettivo. Ecco perché chi pratica attività fisica regolare ha un umore migliore e meno probabilità di soffrire di depressione e disturbi d'ansia. La terapia farmacologica per questi disturbi agisce sulla regolazione di alcuni dei medesimi neurotrasmettitori attivati da esperienze particolarmente galvanizzanti, come i rituali estremi. In effetti, studi medici dimostrano come un’attività fisica intensa possa essere altrettanto efficace dei farmaci antidepressivi nel trattamento della depressione maggiore. Il problema, ovviamente, è che a chi soffre di disturbi del tono dell'umore in genere manca la motivazione per mantenersi fisicamente attivo, e ciò si traduce in un circolo vizioso. I rituali culturali aiutano a eludere questo problema poiché esercitano una pressione esterna alla partecipazione.
Questo fenomeno ha indotto il sociologo James McClenon a teorizzare che i rituali sciamanici caratterizzati da assorbimento, dissociazione e stati alterati di coscienza costituiscano il fondamento biologico della religione e della spiritualità. Tali rituali, sostiene McClenon, sarebbero stati il principale strumento di guarigione nelle prime società umane. In virtù dei benefici terapeutici, hanno esercitato pressioni selettive che hanno favorito i genotipi associati all'ipnotizzabilità. Con il progressivo diffondersi di questi genotipi, sono potuti nascere sentimenti, miti e idee religiose che sono stati sfruttati per giustificare il ricorso a tali rituali. La sua è solo un’ipotesi, ma molto interessante. Se fosse vera, vorrebbe dire che i benefici derivanti dalle tecniche rituali sciamaniche hanno favorito la selezione degli individui a esse più sensibili. E questo, a sua volta, significherebbe che discendiamo da soggetti che in virtù della loro genetica erano più predisposti a cercare determinati tipi di esperienze rituali. In pratica, ci siamo evoluti nel senso della celebrazione di riti.

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Cultura Hammer. Etiopia. Cerimonia di iniziazione “bull jumping”.

 

 

 

 

 

Cultura Yom. Benin. Post-circoncisione in rito di passaggio all’età adulta.

 

 

 

 

 

Cultura Nandi. Kenya. Giovani guerrieri prima della cerimonia di iniziazione.