April 2023. Gli italiani e l’Africa: per non dimenticare.
"Non erano colonizzatori; la loro amministrazione, sospetto, si riduceva al mero sfruttamento e basta. Erano conquistatori, e per questo ci vuole solo la forza bruta; niente di cui vantarsi, se ce l’hai, perché la tua forza è solo un fatto contingente che sorge dalla debolezza altrui. Quelli arraffavano tutto quanto potevano per amore di quello che c’era da prendere. Era proprio una rapina a mano armata, omicidio aggravato su vasta scala, di uomini che agivano alla cieca, come del resto ben si addice a chi è alle prese con le tenebre. La conquista della terra, che in generale vuol dire portarla via a chi ha una pelle diversa dalla nostra o un naso un po' più schiacciato, a pensarci bene non è proprio una bella cosa.”
Joseph Conrad, “Cuore di tenebra”.
Etiopia 1937. Massacro di Debrà Libanos.
“El mestée” è dedicato al colonialismo italiano in Africa e alla conseguente demolizione sistematica del mito degli “italiani brava gente”, fautori di un storia coloniale bonaria.
A supporto dell'affermazione riporto alcuni brani/eventi tratti dal volume “Italiani brava gente?” di Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano di fama internazionale, aventi oggetto il tema del "mestée".
Eviterò commenti personali, dando spazio esclusivo alla narrazione.
Per completezza di informazione riguardo al testo di Del Boca, la disamina storica si occupa non solo del colonialismo africano, ma anche del comportamento italiota nella guerra al brigantaggio post unità d'Italia, dell'intervento nella Cina contro i boxer, nella prima guerra mondiale, in Slovenia, e un'analisi della politica riferita ai fatti successiva alla seconda guerra mondiale.
"El mestée" ha comportato una selezione di brani stralciati dai vari capitoli che mi auguro possa aver mantenuto una comprensibile consequenzialità, ma non essendo stata opera facile, potrebbe aver creato qualche mancanza di congiunzione narrativa.
Come sempre, rammentando quale vuole essere la funzione di attivazione di curiosità dei “mestée”, auspico che la lettura sia da pungolo per approfondire l'argomento, fondamentale per conoscere e comprendere quello che nella scuola, nell’insegnamento e nella divulgazione "ufficiale" è stato -ed è tuttora- artatamente mistificato, se non occultato.
Introduce un articolo di Renzo Paternoster del 2021 sulla legalizzazione dello stupro, anche minorile, definito dal “madamato”, atroce peculiarità dell'avventura coloniale italiana.
D'uopo è l'intercalare al testo di squallidi manifesti, giornali e foto del periodo coloniale dapprima italiota liberale e poi fascista.
Un addendum agli eventi narrati, richiamato al capitolo “Soluch come Auschwitz”, è dato dall’articolo di Cecilia Ridani su “La censura del film Il leone del deserto”, film di Moustapha Akkad del 1981 sulla resistenza libica contro l’occupazione fascista mai proiettato nel circuito ufficiale dei cinema italiani, con intervento censorio da parte del governo Andreotti nel 1982 in quanto “lesivo dell’onore dell’esercito”, con pellicola sequestrata dalla Digos durante la proiezione a Trento nel 1987 in un meeting pacifista. L’anno successivo venne proiettata la versione originale in lingua inglese a “Riminicinema” e nel 2002 e sempre in lingua originale venne proiettato al “Festival dei Popoli”. Non ho notizia che sporadicamente sia stato proiettato in altre manifestazioni o cineforum. Nel 2009, in occasione della visita di Gheddafi in Italia, Sky lo trasmise in lingua italiana incredibilmente in formato errato. Non mi risulta sia mai stato disponibile in lingua italiana su VHS o DVD, e che -è accertato, né prima e dopo Sky- sia stato mai trasmesso dalla Rai e altri canali TV. Ad oggi risulta reperibile solo su YouTube.
Lo storico inglese Denis Mack Smith ha scritto sulla rivista "Cinema nuovo": "Mai prima di questo film, gli orrori ma anche la nobiltà della guerriglia sono stati espressi in modo così memorabile, in scene di battaglia così impressionanti; mai l'ingiustizia del colonialismo è stata denunciata con tanto vigore... chi giudica questo film col criterio dell'attendibilità storica, non può non ammirare l'ampiezza della ricerca che ha sovrinteso alla ricostruzione".
Il “madamato”.
L’avventura coloniale italiana, al pari di quelle delle altre potenze occidentali, è dunque impregnata di connotazioni sessuali, ma più delle altre rappresenta la sessualizzazione dell’impresa con caratteristiche italiane specifiche Infatti, dopo la conquista dell’Eritrea, lo sfruttamento della sessualità delle donne africane si trasforma addirittura in legge.
In alcuni territori dell’Eritrea esisteva l’antica usanza locale del contratto matrimoniale a termine. Si chiama “Dämòz” ed era un “matrimonio per mercede” a tempo determinato, ovvero un vero e proprio contratto coniugale con una reciprocità di obblighi: l’uomo acquista la moglie con l’obbligo di “mantenerla”, provvedendo alla prole avuta anche dopo la risoluzione del contratto; la donna avrebbe dovuto garantire le cure domestiche e le “cure” sessuali. In caso di morte dell’uomo, la moglie non avrebbe avuto alcun diritto di eredità, a differenza dei figli concepiti durante il periodo contrattuale che avrebbero potuto rivendicare una parte della proprietà del padre.
I colonizzatori italiani acquisiscono questa antica usanza trasformandola in una forma di concubinaggio, garantendosi un libero accesso a prestazioni domestiche e sessuali. Ovviamente gli obblighi di questa unione more uxorio da parte maschile non sono rispettati e il disimpegno è totale e il colonizzatore italiano si sente esentato da qualsiasi obbligo giuridico e morale, soprattutto al momento del rientro in patria. Ovviamente anche il mantenimento dei figli avuti cessa alla partenza del colono.
Gli italiani chiamano questo “adeguamento” al diritto consuetudinario locale, peraltro come riferito non riconosciuto in tutto il territorio eritreo, “madamato”, che è una “forma distorta del vocabolo con cui in Italia, soprattutto in Piemonte, è di solito indicata la signora di alto lignaggio; un’espressione che, nella sua applicazione coloniale, innegabilmente assume una particolare connotazione denigratoria”. (S. Palma, L’Italia coloniale, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 48).
L’estensione italiana dell’istituto del “Dämòz” è anche trasferita nelle altre colonie italiane, dove questa unione more uxorio non era neppure contemplata in qualche usanza locale. Nella Libia italiana è chiamato “mabruchismo”, in relazione al termine locale “mabrukah”, che indica la donna.
Il madamato e il mabruchismo permettono dunque al colono italiano di acquistare dai genitori una bambina, o al massimo un’adolescente, le quali sono costrette a convivere more uxorio sino alla risoluzione del contratto. Questa relazione a tempo è tollerata dai comandi militari italiani dell’epoca liberale perché vantaggiosa per il buon andamento della vita in colonia: oltre a rivestire una soluzione al fenomeno incontrollato della prostituzione, eliminando così eventuali problemi di ordine sanitario, garantisce assistenza domestica al colono, oltre al “sostegno “sessuale. Molti italiani, con pochi soldi, acquistano il proprio «animalino docile», come chiama Indro Montanelli la sua madama dodicenne.
Pur non mancando esempi di assunzione di piena responsabilità da parte degli italiani nei confronti dei propri figli meticci, in alcuni casi anche di convivenza che diventa autentica e voluta relazione coniugale da parte dell’italiano (il cosiddetto “insabbiato”), nella maggior parte dei casi il madamato è una forma di prepotenza, razziale e di genere, che provoca nel lungo termine squilibri sociali per la presenza di numerosi meticci.
Quando il 9 maggio 1936 Benito Mussolini proclama la fondazione dell’impero dell’Africa Orientale Italiana, la considerazione della donna africana come “Venere nera” cambia: ora subentra il disprezzo, la donna africana diventa brutta e pure puzzolente, portatrice di malattie e pericolosa per la “razza italiana”, il madamato diventa pericoloso agli occhi del regime fascista, ormai preoccupato della integrità razziale del popolo italiano. Un articolo pubblicato il 21 maggio dello stesso anno sulla “Gazzetta del Popolo”, L’impero italiano non può essere un impero di mulatti, c’è tutta la preoccupazione del regime sia sugli “insabbiati” sia figli avuti da donne africane che non sono rinnegati dai coloni.
Per questo, con il Regio Decreto-legge del 19 aprile 1937, pubblicato il 24 giugno, sono previste “Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi”: “Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da 1 a 5 anni”.
Nonostante questo, in molti casi il rapporto di madamato continua, tanto che nel 1938 il governatore dell’Harar, il generale Guglielmo Nasi, lancia l’allarme in una circolare riassunta nell’ultimatum “Aut Imperium Aut Voluptas!” (O potere o piacere!).
Con la pubblicazione del “Manifesto della razza” e delle leggi razziali del 1938, in virtù della protezione della “razza italiana”, il fenomeno del madamato si arresta. Ora le violenze sulle donne, che continuano nelle colonie italiane, sono elargite non più per piacere ma per dimostrare “potere razziale” e “superiorità sessista” degli maschi italiani sulla gente d’Africa”. Le autorità coloniali autorizzano tutti gli ammogliati a far trasferire le proprie famiglie in colonia appena le condizioni lo permettano. Per mantenere il controllo sociale, affermare la superiorità razziale e giustificare il sistema di segregazione, l’unico ruolo che una donna africana deve avere è quello di oggetto sessuale, un oggetto che non si può amare ma solo utilizzare. (Renzo Paternoster, 2021)
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Premessa.
Il 19 febbraio 1937, in seguito a un atentato alla vita del vicere' d’Etiopia, maresciallo Rodolfo Graziani, alcune migliaia di italiani, civili e militari, uscivano dalle loro case e dalle loro caserme e davano inizio alla più furiosa e sanguinosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto.
Armati di randelli, di mazze, di spranghe di ferro, abbattevano chiunque -uomo, donna, vecchio o bambino- incontravano sul loro cammino nella città-foresta di Addis Abeba.
E poiché era stabilito che la strage durasse tre giorni, e l'uso dei randelli si era rivelato troppo faticoso, già dal secondo giorno si ricorreva a metodi più sbrigativi ed efficaci. Il più praticato era quello di cospargere una capanna di benzina e poi di incendiarla, con dentro tutti i suoi occupanti, lanciando una bomba a mano.
Nessuno ha mai stilato un bilancio preciso degli etiopici che sono stati uccisi dal 19 al 21 febbraio 1937. Si va da un minimo di 1.400 a un massimo di 30.000, a seconda delle fonti.
Le migliaia di italiani che hanno partecipato alla strage di tanti innocenti, che nulla avevano a che fare con l’attentato, non hanno mai pagato per i loro delitti. Non sono mai stati inquisiti. Non hanno fatto un solo giorno di prigione. Dopo l'estenuante mattanza, sono tornati alle loro case e alle loro caserme, come se nulla fosse accaduto. Chi aveva famiglia in città ha continuato, senza problemi, senza sentimenti di colpa, a gestire i propri affari, ad accarezzare i figli, a fare all’amore, come se in quei tre giorni di sangue il suo forsennato impegno nell’uccidere fosse stata la cosa più naturale, più ammirevole.
Questo di Addis Abeba, per quanto gravissimo, non è che uno dei tanti episodi nei quali gli italiani si sono rivelati capaci di indicibili crudeltà. In genere le stragi sono state compiute da “uomini comuni”, non particolarmente fanatici, non addestrati alle liquidazioni in massa. Essi hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione o perché persuasi di essere nel giusto eliminando “barbari” o “subumani”. Non rari, fra gli ufficiali, quelli che si sono vantati degli atti di ferocia compiuti e che si sono dilungati nel fornire macabri particolari. Per esempio, sul come trasformare in torcia umana un partigiano catturato in Slovenia. Erano sufficienti, assicuravano, un palo o un albero al quale legare il prigioniero, un fiasco di benzina e un cerino.
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Possiamo però già anticipare che non esistono attenuanti per i protagonisti di questi episodi, perché le colpe evidenziate sono troppo palesi, inconfutabili. Il mito degli “italiani brava gente”, che ha coperto tante infamie, e anche queste che esporremo, appare in realtà, all’esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita. Non ha alcun diritto di cittadinanza, alcun fondamento storico.
Esso è stato arbitrariamente e furbescamente usato per oltre un secolo e ancor oggi ha i suoi cultori. Ma la verità è che gli italiani, in talune circostanze, si sono comportati nella maniera più brutale, esattamente come altri popoli in analoghe situazioni. Perciò non hanno diritto ad alcuna clemenza, tantomeno all’autoassoluzione.
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Abissinia-Eritrea 1885-1896.
L’inferno di Nocra.
Non c’era alcun reale bisogno, per l’Italia, di partecipare allo “scramble for Africa”. Vi andò, semplicemente, per una questione di prestigio. Premevano, per l’impresa, le società geografiche, le industrie armatoriali, cantieristiche e siderurgiche, i circoli colonialisti e i loro fogli, che insistevano sulla concezione messianica del destino dell’Italia, sui miti della romanità, sull'esigenza di dare sfogo alla spinta demografica, che era fra le più alte d'Europa. Premeva, infine, sul governo di Pasquale Stanislao Mancini, alla vigilia dello sbarco di Saletta a Massaua, anche Umberto I di Savoia, che pensava, con le imprese africane, di ridare lustro alla dinastia.
Come siamo andati a Massaua, nel 1885, grazie soprattutto ai buoni uffici della Gran Bretagna, è storia nota, con venature comiche. Il comandante delle truppe da sbarco, colonnello Tancredi Saletta, confesserà candidamente, in una sua relazione ufficiale, di non aver mai visto, sino al momento dello sbarco, una carta geografica di Massaua, e di aver scoperto, proprio allora, che le artiglierie con le quali avrebbe potuto essere costretto a combattere quelle egiziane, giacevano nella stiva del mercantile Gottarda sotto seicento tonnellate di altro carico. Per fortuna che, a neutralizzare ogni offesa, ci avevano pensato i funzionari inglesi che operavano nel settore del mar Rosso e che avevano ricevuto da Londra l’ordine di facilitare in tutti i modi lo sbarco degli italiani a Massaua.
Ricordando, qualche anno dopo, gli infelici esordi dell’espansione italiana nel Corno d’Africa, Ferdinando Martini scriveva: “Come è inutile ricercare il perché vi andassimo, cosi è doloroso il ricordare come vi andammo”. Cioè, senza alcuna nozione sui luoghi, con scarsi mezzi e programmi confusi, con una notevole impreparazione logistica, strategica, politica, e con un’assoluta ignoranza dei costumi e delle culture delle popolazioni indigene. Il che avrebbe portato fatalmente a maturare, nei confronti degli africani, ingiusti pregiudizi e un diffuso disprezzo razziale. Tanto che il generale Baldissera, comandante superiore delle truppe in Eritrea, non si faceva scrupoli a dichiarare, nel 1888: “L'Abissinia ha da essere nostra, perché tale è la sorte delle razze inferiori; i neri a poco a poco scompaiono, e noi dobbiamo portare in Africa la civiltà non per gli Abissini ma per noi”. L’ipotesi di sostituire la “razza soggetta” con la “razza dei dominatori”, il che implicava il genocidio di un popolo, non era un’idea tanto peregrina. Come ricorda Nicola Labanca, “sembrava fare presa sui più africanisti fra gli ufficiali italiani il mito americano: quello delle feroci guerre indiane, della guerra e della vittoria totali, della soggiogazione ed anche dello sterminio della popolazione autoctona”.
In questo clima di incertezza, con ambizioni non sostenute dai mezzi, gli italiani costruivano la loro colonia “primogenita” usando gli stessi metodi repressivi che avevano impiegato vent'anni prima nella guerra al brigantaggio: l'abuso costante dei tribunali militari straordinari, le fucilazioni sommarie, le repressioni segrete seguite dalla scomparsa dei cadaveri, le ondate di carcerazioni, le deportazioni in Italia, il mancato rispetto per le stesse leggi vigenti in colonia. Di nuovo, rispetto al Meridione, la precisa volontà di tenere le popolazioni eritree segregate nell'ignoranza e nella miseria. Il motivo che spiega questa condotta brutale si evince facilmente dagli atti ufficiali, dai giornali, dalle lettere dei privati. Poiché era ormai assodato che le popolazioni “semibarbare” del luogo capivano soltanto la forza, era necessario usare punizioni che incutessero il terrore. Nella tornata del 7 maggio 1885, all'indomani dello sbarco di Saletta a Massaua, Francesco Crispi prendeva la parola alla Camera e dichiarava: “Qual è il nostro scopo? Uno solo: affermare il nome dell’Italia nelle regioni africane e dimostrare anche ai barbari che siamo forti e potenti! I barbari non sentono se non la forza del cannone; ebbene, questo cannone tuonerà al momento opportuno.
(…)
Quelli, fra la “gente male intenzionata e pericolosa”, che non venivano fucilati o impiccati, finivano in carcere. All’inizio degli anni Novanta dell'Ottocento esistevano in Eritrea sette prigioni e precisamente ad Assab, Massaua, Asmara, Cheren, Adi-Ugri, Adi-Caieh e Nocra, nelle isole Dahalak. La popolazione carceraria variava, a seconda degli avvenimenti in colonia, da 500 a 1500 detenuti, molti se si considera che l’Eritrea, all'epoca, contava meno di 200.000 abitanti. Ci occuperemo, in questo libro, soltanto del penitenziario di Nocra che, per le condizioni disumane in cui vivevano i carcerati, è diventato il simbolo dell’oppressione coloniale italiana.
Nocra è una delle 209 isole madreporiche dell’arcipelago delle Dahalak, a circa 55 chilometri al largo di Massaua. Di incomparabile bellezza, per la natura incontaminata, l'uomo è riuscito a fame un inferno. Individuata dal generale Saletta come un luogo ideale per costruirvi un penitenziario, fu scelta soprattutto per la sua distanza dalla terraferma. Questo totale isolamento non soltanto avrebbe scoraggiato ogni tentativo di fuga, ma avrebbe assicurato una maggior segretezza sui metodi coercitivi impiegati nell'isola. I primi lavori per la trasformazione di Nocra in un campo di punizione vennero compiuti sul finire del 1887 con una spesa di 6.500 lire a carico del Ministero dell’Interno. Non si trattava, in verità, di grandi lavori: un edificio in mattoni per le guardie, 200 alloggiamenti per i detenuti (metà tende e metà rozzi tucul), lo scavo di otto profonde fosse che servivano da prigione, l'erezione di un palco con due forche.
A causa del clima torrido, che poteva anche raggiungere i 50°C, il problema dell’acqua era fondamentale. La fornitura dell'acqua potabile veniva assicurata, per la piccola guarnigione, da alcune bettoline che tre volte la settimana facevano la spola fra il continente e l’isola. Per i detenuti, invece, era stato scavato un pozzo, profondo una decina di metri, che forniva un’acqua salmastra e non in grande quantità. Tanté che nei periodi di siccità veniva razionata. Il sole cocente e la penuria di acqua costituivano, nella filosofia di chi aveva scelto Nocra, strumenti aggiuntivi di punizione. Altro strumento di violenta rieducazione era l'obbligo di lavorare nelle cave di pietra, il cui ricavato veniva caricato su battelli e trasportato a Massaua per lavori edilizi e stradali.
Non si hanno che pochissime testimonianze sulla vita quotidiana a Nocra. L’isola, che ospitò quasi sempre detenuti politici, era rigidamente vietata a tutti. Il capitano Eugenio Finzi, della marina militare, che la visitò nel 1902, cosi descriveva la situazione: “I detenuti, coperti di piaghe e di insetti, muoiono lentamente di fame, scorbuto, di altre malattie. Non un medico per curarli, 30 centesimi pel loro sostentamento, ischeletriti, luridi, in gran parte han perduto l'uso delle gambe ridotti come sono a vivere costantemente incatenati sul tavolato alto un metro dal suolo”. Quelli che cercavano di fuggire da questo inferno, e che venivano quasi sempre ripresi, come nel marzo 1893 quando si tentò una fuga in massa, erano immediatamente fucilati.
Chi erano gli sventurati ospiti di Nocra? All'inizio soltanto criminali comuni. Poi, dal 1889, anche politici, ossia capi e gregari di tribù che non accettavano la dominazione italiana, ma anche spie o presunte tali, collaboratori infedeli, agitatori, maghi e indovini che predicavano le fine della presenza degli italiani. Nel 1892, con Oreste Baratieri governatore militare e civile della colonia, il carcere di Nocra raggiunse, con un migliaio di detenuti, il massimo della sua capienza.
Di alcuni prigionieri siamo anche in grado di fornire i nomi.
Nel settembre 1895, alla vigilia del disastro di Adua, furono relegati nell’isola Memer Walde Ananias, il liccè Wolde Iesus, e il grasmac Sadòr, tre nobili tigrini la cui sola colpa era stata quella di raggiungere il campo di Baratieri per iniziare, su incarico di ras Johannes Mangascià, trattative di pace. Il grasmac Sadòr, già avanti con gli anni, non era in grado di sopportare il clima dell’isola e le crudeltà che vi si praticavano e moriva in detenzione.
Il penitenziario di Nocra restò in funzione ininterrottamente dal 1887 al 1941. Dal 1936, dopo l’occupazione italiana dell’Etiopia, accolse soprattutto soldati e funzionari del dissolto impero di Hailè Selassiè e, più tardi, guerriglieri fatti prigionieri nelle varie operazioni repressive, notabili di basso rango, preti e monaci scampati al massacro di Debrà Libanòs.
L’alimentazione dei detenuti era costituita da 300 grammi di farina, 10 di mè e 20 di zucchero. Ma non era detto che questa già miserabile razione fosse fornita ogni giorno.
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Ma questo mito degli “ltaliani brava gente” si scontra con l'altro mito, ugualmente diffuso, degli italiani spietati, insofferenti di ogni regola, inclini alla demonizzazione e bestializzazione degli avversari neri. Il disprezzo del generale Dabormida quando pronuncia, alla vigilia di Adua, la famosa frase “ai butuma quat granade e a l'è faita”, è totale. Il comportamento di Baldissera, nei suoi due soggiorni in Eritrea, rammenta quello di alcuni generali americani, che nelle guerre indiane cercavano deliberatamente il genocidio di un popolo. E che dire del capitano ed esploratore Vittorio Bottego, che per mesi guida attraverso le regioni meridionali dell’Etiopia una colonna di avanzi di galera e non crede ad altra legge che a quella delle armi? Egli potrebbe salvare la vita e i risultati scientifici della sua spedizione all’Omo, se solo consegnasse le armi ai funzionari di un paese che ha percorso uccidendo e devastando. Ma la sola ipotesi di piegarsi ai “cani neri”, di riconoscere che ha sistematicamente violato le leggi di uno Stato sovrano lo fa uscire di senno e preferire la morte sulla collina di Doga-Roba.
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Libia, 1911-1915.
Sciara Sciat: stragi e deportazioni.
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Passando dal dominio della politica e dell’economia a quello dell’irrazionale e del soprannaturale, Giolitti si assumeva dunque il solo merito di aver individuato e colto al momento giusto l'obiettivo immutabile indicato dal fato. Ma ciò che Giolitti probabilmente pensava -e non poteva certo rivelare al Regio di Torino- era che la spedizione in Libia si sarebbe risolta in una breve passeggiata militare e che l’Europa, come ipotizzava Antonino di San Giuliano, si sarebbe trovata “in presenza di un fatto compiuto, prima quasi di prenderlo in esame". Giolitti fondava questa certezza sulle informazioni che continuava a ricevere dal console generale a Tripoli, Carlo Galli, il quale non soltanto minimizzava i pericoli nella fase dello sbarco, ma soprattutto escludeva ogni collusione fra turchi e arabi. Né c’era inoltre alcun timore per un appello alla guerra santa: non vi avrebbero aderito le popolazioni della costa e “le tribù che forse potrebbero udire un tale appello sono povere, disarmate o lontane troppo perché possano essere temibili”. Per finire, Galli assicurava Giolitti che gli arabi avrebbero accolto gli italiani come liberatori, poiché erano stanchi della dura dominazione ottomana.
In base a queste informazioni, Giolitti rompeva ogni indugio e il 26 settembre inviava un ultimatum alla Turchia che, per il suo tono brutale e ingiustificato, equivaleva a una dichiarazione di guerra.
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Due giorni dopo, senza incidenti, avveniva lo sbarco, e nel giro di un paio di settimane l’intero corpo di spedizione, forte di 34.000 uomini e 72 cannoni, al comando del generale Carlo Caneva, prendeva possesso di Tripoli e Homs in Tripolitania, di Bengasi, Derna e Tobruq in Cirenaica.
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All'alba del 23 ottobre si verificava il primo attacco, sulla destra dello schieramento. Un'ora dopo il secondo, al centro. Alle 7.45 veniva sferrato il terzo e decisivo assalto sulla sinistra, nel cuore dell'oasi, tra Forte Messri e Sciara Sciat. Sin dall'inizio gli italiani si accorgevano che, al fianco dei regolari turchi, combattevano gli arabi, ma non soltanto i guerriglieri giunti dall’interno, bensì gli stessi abitanti dell’oasi e di Tripoli. Si trattava, in sostanza, di quell’insurrezione generale che il console Galli aveva sempre respinto come ipotesi. E invece era in atto una rivolta generale, che coinvolgeva tutti, uomini e donne, vecchi e adolescenti, e che sarebbe stata spietata, come tutte le ribellioni venate non soltanto di xenofobia ma di fanatismo religioso.
Nel labirinto dell'oasi, specie a Sciara Sciat, due compagnie di bersaglieri dell'11° reggimento venivano accerchiate e, nel giro di poche ore, completamente annientate. Inutile arrendersi, gli arabi non facevano prigionieri. Uno dei pochi scampati al disastro avrebbe poi ridati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti gli hanno cucito gli occhi con lo spago; molti sono stati messi sotto terra fino al collo, si vede solo la testa; moltissimi hanno avuto le parti genitali tagliate”. Alla fine della giornata di combattimenti il bilancio appariva gravissimo: 21 ufficiali e 482 uomini di truppa uccisi. Ai quali andavano aggiunti quelli che erano stati assassinati entro le mura di Tripoli, dove, dal mezzogiorno, si era estesa la rivolta.
L’attacco turco-arabo del 23 ottobre, condotto con forse 8.000-10.000 uomini bene armati e motivati, e concluso con episodi di indicibile brutalità, provocava una reazione altrettanto spietata. La rappresaglia, nel corso della quale venivano uccisi indiscriminatamente un migliaio di arabi (ma le fonti libiche e alcune europee parlano di 4000), prendeva soprattutto alimento dalla diffusa e irragionevole convinzione che gli arabi di Tripoli avessero “tradito”. Ed erano i giornali italiani, con i loro truculenti resoconti, nei quali abbondavano parole come “tradimento”, “inganno”, “insidia”, “agguato”, “vile attacco”, “assalto proditorio”, ad accreditare la tesi di un tradimento che non c'era mai stato, ma che tutti avevano paura di indicate con il suo vero nome, cioè ribellione.
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Rimarrà, di quei giorni di terrificante rappresaglia, un'immagine che può ben essere considerata un simbolo di quell’ingiusta e spietata guerra. Si tratta della forca eretta nella piazza del Pane di Tripoli alla quale furono appesi, in una sola volta, quattordici arabi. La vista di quei corpi allineati, irrigiditi nella morte, con il collo spezzato e reclinato, gli abiti cenciosi, doveva servire per dare un esempio salutare ai “ribelli”. Da allora, come vedremo, le forche fiorirono ovunque in Libia, come gramigne inestirpabili, e suggeriranno a Scalarini quei tremendi disegni satirici che inchiodavano Giolitti e compagni alle loro responsabilità.
Tuttavia il peggio doveva ancora venire. Non erano bastati i 4.000 morti nella caccia all’arabo “traditore” per le vie di Tripoli. Non erano bastate le impiccagioni collettive nella piazza del Pane. All'indomani di Sciara Sciat, alle 16.45, Giolitti inviava al generale Caneva questo telegramma: “Quanto a rivoltosi arrestati, che non siano fucilati costà, li manderà alle isole Tremiti, nel mare Adriatico, coi domiciliati coatti, dove ella può direttamente dirigerli avvisandomi partenza. Le isole Tremiti possono ricevere oltre 400 detenuti. Mando colà ispettore generale della pubblica sicurezza per regolare il loro collocamento”.
Ma gli arabi che Caneva imbarcava per l'Italia, tra il 25 e il 30 ottobre, erano molti di più di 400. Forse addirittura oltre 4.000. Per cui ne venivano inviati anche a Ustica, Ponza, Caserta, Gaeta, Favignana. Il loro numero complessivo così come quello degli uccisi nella rappresaglia, non appare in alcun documento ufficiale e nessun aiuto ci viene dagli storici libici, che pure hanno eseguito, negli ultimi vent'anni, puntigliosi censimenti. Con quale criterio venivano deportati gli arabi? Un testimone oculare, il giornalista Giuseppe Bevione, cosi scrive: “Sono uomini di tutte le età: vecchi canuti e giovinetti imberbi; negri di faccia orrenda e arabi di puro profilo. Non portano via nulla che lo straccio di tela che li ricopre”. Nella notte si avviavano, scortati da soldati con le baionette inastate, verso la banchina del Castello, sciabolati dai proiettori delle navi. Riferisce ancora Bevione: “Gli arabi camminano al passo dei soldati, in un silenzio assoluto, senza levare neppure il lieve rumore dei piedi scalzi, come ombre. Si stringono gli uni agli altri, quello che segue si attacca al lembo del barracano di quello che lo precede. Sentono, mentre partono per l’ignoto, la necessità di fondersi in un blocco solo, di sommergersi nella massa insensibile come un gregge sotto una bufera“.
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Alcuni dei deportati erano stati colti con le armi in pugno, ma i più erano stati arrestati nelle strade e nelle case senza una minima prova cli colpevolezza. Essi non venivano neppure identificati al momento dell’imbarco, e ciò spiega perché c'è tanta incertezza sul loro numero e sul loro destino. La sola preoccupazione di Giolitti e di Caneva era quella di alleggerire a Tripoli, prima possibile, la pressione del movimento di resistenza locale e, nello stesso tempo, di impartire una tremenda dimostrazione di forza. A riconoscere che gli arresti erano stati spesso arbitrari e l’imbarco sulle navi caotico, è lo stesso rapporto della Commissione dei prigionieri al ministro per la Guerra: “Gli arresti che hanno preceduto il trasferimento coatto sono avvenuti in modo frettoloso; gli arrestati sono un miscuglio di mendicanti, di ricchi proprietari, di lavoratori, di fruttivendoli, di mercanti, di contadini e di anziani, e di donne e bambini e ragazzi, e i loro nomi non sono stati registrati nelle liste, se non dopo il loro arrivo in Italia, giacché le autorità italiana in Libia non se ne sono occupate vista la precipitazione con la quale i deportati sono stati imbarcati sulle navi”.
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Dopo quattro giorni di navigazione, i piroscafi gettavano l’ancora alle Tremiti o a Ustica, non prima pero di aver gettato in mare gli arabi che erano morti durante la traversata. Poi cominciava il calvario.
Molti giungevano nelle colonie penitenziarie, come ha sottolineato il prefetto di Palermo in un suo rapporto, coperti di “cenci luridi”, e altri già presentavano sintomi di malattie infettive, quali tifo, vaiolo e colera. L’alimentazione scarsa e poco nutriente, la rigidità del clima, le cattive condizioni igieniche, la sistemazione indecorosa in gelidi cameroni e persino nelle grotte scavate nell'isola di San Nicola, facevano il resto. “Al 9 gennaio del 1912, alle lsole Tremiti”, scrive Claudio Moffa, “risultavano deceduti 198 prigionieri, fra i quali due bambini di 10 anni, 35 vecchi dai 60 ai 70 anni, 7 dai 70 agli 80 e uno di oltre 90 anni. Al 10 giugno, il totale dei morti saliva a 437, vale a dire il 31% della massa originaria dei relegati”. Questa moria non era però solo appannaggio delle isole Tremiti. A Ustica, dal 29 ottobre al 31 dicembre 1911, morivano 69 individui dai 16 ai 60 anni. A Gaeta si contavano 62 decessi dal gennaio al luglio 1912; a Ponza, nello stesso periodo, 13 morti.
“Al 31 gennaio 1912”, ricorda Simone Bernini, “queste erano le presenze nelle varie colonie: 654 deportati a Gaeta, 136 a Ponza, 1.080 alle Tremiti, 834 ad Ustica e 349 a Favignana”.
Al totale di 3.053 detenuti va aggiunto il numero dei morti, non lontano dai 600-700, il che ci avvicina alla cifra di 4.000 deportati indicata da molti studiosi. Anche se nel corso del 1912 venivano rimpatriati 917 esiliati libici, le deportazioni continuarono per anni, con punte notevoli nel 1915 in seguito alla grande rivolta araba. E ancora oggi, a quasi cent'anni da Sciara Sciat, ci sono famiglie in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari.
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Il 18 ottobre 1912, dopo un anno di guerra, durante la quale i soldati italiani avevano fatto pochi progressi verso l'interno del paese, nonostante il corpo di spedizione avesse raggiunto la rispettabile cifra di 100.000 unità, a Ouchy, in Svizzera, i plenipotenziari di Italia e Turchia firmavano il trattato di pace. La “passeggiata mllitare” era costata all’Italia 3.451 morti e 4.220 feriti, ma oramai la “terra promessa”, non più difesa dai turchi, era a portata di mano. Peccato, però, che lo “scatolone di sabbia” fosse ancora infestato dai guerriglieri arabi, i quali, dopo l’annessione della Libia all’Italia, diventavano a tutti gli effetti dei “ribelli” per i quali la principale sanzione era la forca.
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Ma il calvario della Libia non si esauriva nell’erogazione arbitraria di centinaia, e forse di migliaia, di sentenze capitali. C’erano migliaia di libici che ancora soffrivano nei campi di concentramento italiani. Nella sola Ustica, nel marzo 1916, gli arabi confinati erano 1.300. La somma di violenze, il mancato rispetto per le tradizioni, la cultura, la religione dei libici, la negazione di ogni diritto, anche di quelli promessi, non potevano, alla fine, che provocare una rivolta generale. Con l'attacco alla Gahra di Sebha, nella notte del 28 novembre 1914, e con la distruzione della sua guarnigione, aveva inizio quella che poi sarebbe stata chiamata la grande rivolta araba, che avrebbe incendiato l'intera Libia e respinto gli italiani al mare.
Secondo i calcoli del generale Lentini, dal gennaio del 1915, cioè dalla precipitosa ritirata dal Fezzan, alla fine di luglio, che vede lo sgombero degli ultimi presidi nell'interno, erano rimasti uccisi 55 ufficiali, 483 soldati nazionali e 894 ascari. I dispersi erano: 29 ufficiali, 1.951 soldati metropolitani e 159 di colore. Erano inoltre nelle mani degli insorti: 52 ufficiali, 1.278 soldati italiani e 130 ascari. Le perdite complessive erano dunque di 5.031 uomini. Ma stime del Ministero per la Guerra facevano lievitare questa cifra a 5.412 uomini. lnfine per Meuccio Ruini, che sarà ministro delle Colonie nel 1920, “la ritirata segnò di 10.000 morti il deserto coloniale”. Si trattava, dunque, di perdite umane superiori a quelle di Adua. Se poi si prendevano in considerazione quelle materiali, allora il confronto non era neppure possibile. Il bottino dei ribelli comprendeva infatti: 37 cannoni, 20 mitragliatrici, 9.048 fucili (ma altre fonti riferivano di 23.205), 28.031 colpi di cannone, 6.185.000 cartucce per fucili e mitragliatrici, 57 autocarri e 14 stazioni radio. Un arsenale in grado di armare un esercito e infatti, con quelle armi, la resistenza libica fu in grado di operare sino al 1932.
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Somalia 1923-1934.
Gli schiavi dell’Uebi Scebeli.
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L’avvento del fascismo e della maniera forte rimetteva in discussione l’intero assetto delle colonie italiane. Salvo l’Eritrea, che non aveva subito sconvolgimenti a causa della guerra mondiale e aveva mantenuto intatto il suo territorio, le altre due colonie prefasciste versavano in uno stato di profonda crisi. La Libia era quasi totalmente da riconquistare dopo i successi della grande rivolta araba e dopo i tentativi, falliti, di giungere a un’intesa con l'emiro della Cirenaica, Mohammed ldris, e con il suo vicario in Tripolitania, Ahmed el Mràied. La Somalia non era in condizioni catastrofiche come la Libia, ma da anni, ormai, il governo di Mogadiscio aveva perso ogni autorità sui sultanati del Nord, vale a dire su circa la metà della colonia.
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Ad assumere la carica di governatore della Somalia fu Cesare Maria De Vecchi, uno dei quadrumviri della marcia su Roma.
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De Vecchi, infatti, non perdeva tempo. Ai primi di gennaio del 1924 ordinava il disarmo di tutti gli abitanti della Somalia meridionale. Inutilmente il commissario della regione dello Scebeli, maggiore Dell'Era, cercava di spiegare al neogovernatore che i fucili in circolazione erano dei catenacci, che non erano mai stati usati contro il governo della colonia, ma, al contrario, ai tempi della rivolta dei dervisci, erano stati impiegati in sua difesa. Ignorando anche gli inviti alla prudenza che gli giungevano dal Ministero delle Colonie, senza una giustificazione qualsiasi autorizzava il comandante delle truppe della Somalia, tenente colonnello Mario Re, a invadere il territorio dei Galgial Bersane e poi quello dei Badi Addo. Per alcuni giorni, alla fine di marzo, le regioni abitate da queste sventurate popolazioni venivano messe a ferro e a fuoco, il bestiame razziato, alcuni villaggi bombardati e poi dati alle fiamme, decine di indigeni passati per le armi. “Gli incendi dei villaggi abbandonati, che si alzarono presto sulla marcia delle truppe” riferiva compiaciuto De Vecchi, “dovevano essere l’ammonimento salutare a decidere le popolazioni alla sottomissione. I loro capi si precipitarono a chiedere clemenza”.
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Completata la preparazione, il primo ottobre 1925 il corpo di spedizione allestito da De Vecchi invadeva il sultanato di Obbia e in meno di un mese l’occupava interamente senza subire alcuna perdita. Le cose, però, non andavano altrettanto bene in Migiurtinia. Alla richiesta di consegnare le armi, tanto il sultano Osman Mahmud quanto suo figlio Erzi Bogor rispondevano negativamente, offrendo il destro a De Vecchi per scatenare l’offensiva. Come ha osservato Mario Giovana, più che di una guerra tradizionale si trattava di “una riedizione coloniale delle spedizioni punitive dello squadrismo delle origini”. In altre parole, azioni terroristiche a sorpresa e, come sempre, in dieci contro uno.
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Con la politica del terrore il quadrumviro riusciva, nell’arco di due anni, a spegnere i focolai di ribellione nel Nord della Somalia, ma il bilancio definitivo, da lui stesso fornito, era piuttosto pesante. Erano rimasti uccisi 3 ufficiali italiani, 4 soldati metropolitani, 97 ascari, 449 dubat, mentre i feriti erano 341. Nel campo avversario i morti erano 1.236 e i feriti 757. Da ciò si deduce che l’intero tributo di sangue era stato pagato dai somali, in una guerra sostanzialmente fratricida, mentre i dominatori avevano talmente perfezionato i loro metodi, con l'ausilio della marina e dell’aviazione e assoldando senza risparmio i mercenari, da non perdere che sette uomini.
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C’è un episodio, nella guerra dichiarata da De Vecchi ai somali, che non soltanto rivela i metodi squisitamente squadristici impiegati nella lotta, ma che addirittura precisa come, durante un’emergenza, il quadrumviro si sia servito dei fascisti che aveva portato con sé dal Piemonte per distruggere un avversario.
Il nemico in questione era lo scek Ali Mohamed Nur, titolare della moschea di Eli Hagi, alla periferia di Merca. Su di lui gravava il sospetto che nutrisse sentimenti ostili nei confronti della dominazione italiana, e che a lui facesse capo una grande massa di scontenti, in modo particolare i 7.000 contadini sottoposti al lavoro coatto nel comprensorio di bonifica di Genale, gestito da concessionari italiani.
Non c’erano prove concrete, ma si pensava che lo scek avrebbe potuto organizzare una vera e propria guerriglia antitaliana nel Benadir in concomitanza con l’offensiva che il sultano Osman Mahmud stava preparando al Nord. Per ottenere chiarimenti, il commissario di Merca convocava il 28 ottobre 1926 Ali Mohamed Nur, ma lo scek respingeva per due volte l’invito. E quando il maresciallo dei carabinieri Aldo Fiorina andava alla moschea con una piccola scorta, con l’ordine di tradurlo con la forza a Merca, veniva assalito da un gruppo di seguaci del santone e ucciso.
De Vecchi veniva informato nella notte dei gravi avvenimenti e subito inviava a Merca il capitano Giuriati con 230 fra ascari e zaptiè e una sezione di artiglieria da montagna. Ma la colonna, che avrebbe dovuto coprire i centocinquanta chilometri che separano Mogadiscio da Merca, non avrebbe potuto essere a destinazione che all'alba del 30 ottobre, troppo tardi per cingere d’assedio la moschea di El Hagi e impedire la fuga dei ribelli. De Vecchi decideva allora di ricorrere ai concessionari di Genale, ossia a quel nutrito gruppo di squadristi che lo aveva seguito nell’avventura somala: “Io vi ho dato i canali per irrigare i vostri bananeti e le sciambe indigene, ho fatto sorgere dal nulla, a centoventi chilometri da Mogadiscio, il comprensorio di Genale che rappresenta la vostra futura ricchezza. Ora datemi i vostri fucili. Non dimenticate di essere stati i soldati vittoriosi della Grande Guerra”.
Su questo incredibile episodio disponiamo della testimonianza dell’ex colono Carlo Vecco, titolare, con l’amico Mario Chiamberlando, di una concessione di 525 ettari a Genale. Ricordava Vecco: “All’invito del governatore rispondemmo in una cinquantina di concessionari. Per far presto, lasciammo le strade e prendemmo i viottoli che attraversano le dune. Il cammino non era facile, ma era una notte di luna, e in meno di tre ore eravamo in vista di Merca. Eravamo armati con moschetti e fucili da caccia. Alcuni avevano nel tascapane bombe a mano e pugnali. Io comandavo una squadra di una ventina di uomini; altri trenta erano agli ordini di Cesare Buffo, il segretario politico di Genale. Con Buffo c’erano anche Benvenuto Bordone, Giovannini e Gariglio”.
Sembravano tornati i tempi della guerriglia contro i socialisti, delle scorrerie delle squadracce di Brandimarte, dell’assalto alla Camera del Lavoro di Torino. Ma a Merca, a ottomila chilometri dall’Italia, senza testimoni imbarazzanti e sotto l’ala protettrice di De Vecchi, il gioco era estremamente più facile. Si aggiunga che i seguaci di Ali Mohamed Nur non disponevano che di pesanti sciabole, di coltellacci e dei pochi fucili recuperati dopo l’attacco alla scorta del maresciallo Fiorina. Era come partecipare a una battuta di caccia grossa, ma più eccitante e meno pericolosa. Ricordava ancora Vecco: “I più spietati erano decisi a liquidare tutta la popolazione indigena della zona. Non si sarebbe mai più ripresentata un'occasione così propizia, sosteneva Cesare Buffo, e infatti fece fucilare sulle dune i primi tredici somali che erano capitati a tiro. Giunti in città, ripulimmo alcuni quartieri spingendo la gente verso la moschea di El Hagi, che poi stringemmo d’assedio. Se qualcuno tentava di fuggire, lo abbattevano a colpi di moschetto. Quando, all’alba, arrivò il capitano Giuriati con le truppe, noi ci ritirammo perché ritenevamo di aver assolto al nostro compito. In realtà, il governatore non dimenticò mai il nostro contributo, tanto da parlarne nel suo libro “Orizzonti d’impero”.
Dopo aver messo in posizione i cannoni e sparato alcuni colpi di avvertimento, il capitano Giuriati intimava la resa ai ribelli. Ma dalla moschea uscivano soltanto duecento fra donne e bambini. Gli uomini erano decisi a resistere. Ecco come De Vecchi descrive l’operazione: “L’artiglieria riprende di nuovo, ed è ordinato un primo assalto che viene bravamente respinto. [. . .] L’indomani si riprende l’azione col fuoco meglio diretto e la moschea è occupata. Oltre settanta morti giacciono sul terreno, e i pochi difensori ancora vivi vengono passati per le armi. Ma lo scek Ali Mohamed Nur è riuscito a fuggire. [. . .] Il giorno 7 novembre, in località Fidarat, lo scek è accerchiato e con tutti i suoi ucciso. Complessivamente, dal 28 ottobre al 7 novembre, l’operazione di repressione ci era costata la perdita di 8 morti e di 20 feriti e la vita di un connazionale, il maresciallo dei Reali Carabinieri, ma più di duecento rivoltosi vi avevano trovato la morte. Tutti, d’ordine del Governatore, erano stati passati per le armi”.
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Abbiamo visto i concessionari di Genale impegnati nella caccia al somalo. Ora andiamo a visitarli nel loro regno, il comprensorio di bonifica lungo le rive dell’Uebi Scebeli. Creato da De Vecchi, sulle vestigia della fallita Azienda sperimentale di Genale, il comprensorio, dotato di un’imponente diga fissa e di 54 chilometri di canali, incorporava 18.000 ettari, suddivisi in 83 concessioni, la cui estensione variava dai 100 ai 1000 ettari. I prodotti principali del comprensorio erano il cotone, il ricino, il mais, la canna da zucchero, le banane, l’incenso e il kapok. La manodopera era fornita da 7.000 indigeni, che De Vecchi definiva “masse lavoratrici buone, serie, fedeli”. Ma, in verità, si trattava di un giudizio assolutamente falso, e il governatore lo sapeva. Lui stesso, a conoscenza di moltissimi abusi, era stato costretto a inviare ai concessionari una circolare nella quale si diceva, per esempio, che “l’organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di quelle popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso a servizio dei privati.
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A denunciare questa piaga, con accenti che facevano tornare alla memoria lo sdegno antischiavista di un Chiesi o di un Robecchi Bricchetti, era un testimone dei fatti tra i più imprevedibili, il segretario federale della Somalia, quindi la più alta autorità fascista in colonia. Intimo amico di Leandro Arpinati, con il quale aveva fondato il fascio di Bologna, spirito critico e frondista come il suo capo spirituale, Marcello Serrazanetti giungeva in Somalia nel 1929 e negli anni successivi inviava a Mussolini e alle Camere tre lunghe memorie che affrontavano tutti i problemi della Somalia e, in primissimo piano, quello del lavoro forzato. Stampate in pochissimi esemplari, queste memorie costituiscono l’unico documento pubblico apparso durante il Ventennio che metta in discussione l’organizzazione della colonia e l’infelice rapporto con le popolazioni indigene.
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Al contrario, testimoniava il federale, “il lavoro forzato che s’impone da alcuni anni ai nativi della Somalia, invano cinicamente mascherato nel 1929 da un contratto di lavoro, è assai peggiore della vera schiavitù, poiché laggiù è stata tolta al lavoratore indigeno quella valida tutela dello schiavo che era costituita dal suo valore venale, tutela che gli assicurava almeno quel minimo di cure che l'ultimo carrettiere ha per il suo asino, nella preoccupazione di doverne comprare un altro se quello muore. Mentre in Somalia quando l’indigeno assegnato ad una concessione muore o diventa inabile al lavoro, se ne chiede senz’altro la sostituzione al competente Ufficio Governativo che vi provvede gratis”.
Poi Serrazanetti passava a esaminare il fenomeno nei suoi particolari più sconcertanti, precisando, per cominciare, che i lavoratori non venivano liberamente reclutati, ma prelevati con la forza “dalle cabile ritenute le più devote e le più docili”, spesso con la complicità di alcuni notabili stipendiati. Poi a piedi, sotto scorta armata, a volte addirittura legati gli uni agli altri per impedire fughe, le colonne di deportati venivano avviate a destinazione, spesso percorrendo anche centinaia di chilometri. Giunte alla concessione, le nuove reclute erano invitate ad apporre la loro impronta digitale su un contratto, di cui non potevano capire il significato, e quindi venivano avviate al lavoro, che era di dieci ore al giorno e che si svolgeva sotto la stretta sorveglianza dei concessionari o dei capoccia. Se per ragioni di salute o per l’abbattimento morale, i lavoratori non fornivano l'atteso rendimento, accadeva che in molte concessioni si usasse il sistema di dimezzare o di sospendere la razione di cibo, attendendo che la fame li spingesse a una maggiore attività.
In questo inferno, i più robusti riuscivano a adattarsi, sia pure lentamente, al nuovo ambiente; altri si ammalavano e morivano; altri ancora tentavano la fuga e si rassegnavano a vivere nelle più inospitali boscaglie. “Nel 1929” ricordava Serrazanetti “ne furono rastrellati parecchie centinaia, nei pressi del Giuba, a quattrocento chilometri di distanza da Genale”. Se poi qualcuno, fra quelli che si erano sottomessi, si rifiutava di lavorare o si ribellava al concessionario, era denunciato alle autorità coloniali e da queste duramente punito, di solito con un certo numero di scudisciate e, nei casi più gravi, con alcuni mesi di prigione. Il federale soggiungeva: “Non mi dilungo ad esporre altri episodi di morti trovati nei campi o per le strade, di ammalati e moribondi abbandonati alla loro sorte senza alcuna assistenza o aiuto, di lavoratori morti in seguito alle bastonate ricevute dal concessionario da cui dipendevano, perché spinti dalla fame avevano rubato alcune pannocchie nel campo, di individui infine che, destinati al lavoro in concessione, hanno preferito il suicidio, fatto rarissimo fra i somali, aprendosi il ventre col proprio coltello”.
Il quadro tracciato nel 1933 da Marcello Serrazanetti ci veniva confermato da Carlo Vecco nel 1977. Il concessionario torinese, anzi, ci forniva alcuni particolari che rendevano la situazione ancora più fosca. Per esempio, egli ammetteva che le ore di lavoro nei campi erano anche 11 o 12, e che la razione di botte era costante. In genere, la disciplina e le punizioni erano amministrate dal maresciallo dei carabinieri di Genale, Avella, ma spesso i concessionari si facevano “giustizia” da sé.
Vecco raccontava tranquillamente, senza alcun imbarazzo, che un giorno, essendo stato schiaffeggiato da un somalo della cabila Bimal, lo aveva trascinato sull’aia e, davanti a tutti i suoi compagni, lo aveva quasi ucciso di botte. Poi, legato, lo aveva spedito al maresciallo Avella perché gli desse il resto.
Ogni tanto si alzava una voce in difesa di questa massa di sventurati. Per esempio quella del commissario Pietro Barile, che denunciava gli abusi e i maltrattamenti e invitava i concessionari a essere più umani. Ma si trattava di voci isolate, ininfluenti. La prassi era un'altra. Ricordava Serrazanetti: “Per arginare la costante diminuzione in rendimento del lavoratore, si è provveduto da parte delle Autorità locali ad intensificare l’applicazione di pene corporali. S.E. Rava, a una riunione di concessionari da lui presieduta a Vittorio d’Africa nell’estate scorsa, ha dichiarato di assumere personalmente la responsabilità morale delle punizioni corporali inflitte”.
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Per la verità, quello che i somali chiamavano “schiavismo bianco” non verrà ufficialmente soppresso che nel febbraio 1941, con l’occupazione britannica della Somalia. Ma non del tutto perché, ancora nel 1948, una delle ventitré condizioni poste dalla Conferenza della Somalia per accettare l’amministrazione fiduciaria dell’Italia era proprio la soppressione del lavoro forzato. In pratica questa vergogna venne cancellata soltanto quando l’ultimo concessionario italiano lasciò la Somalia. La stagione delle banane e dei cazzotti era finita.
Libia 1922-1932.
Soluch come Auschwitz.
Mentre il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon ripuliva il Nord della Somalia dai ribelli e ingaggiava un pugno di squadristi per liquidare un santone ostile, ricompensandoli consentendo loro di praticare la più abbietta schiavitù, in Libia si consolidava la fama di un giovane colonnello, Rodolfo Graziani, destinato a diventare il più celebrato (e odiato) tra gli ufficiali coloniali.
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Azioni di guerra in Tripolitania e Cirenaica.
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Il 21 gennaio 1930 cadeva anche Murzuch, la capitale del Fezzan. Il 28 gennaio Graziani raggiungeva Ubari e qui apprendeva che gli ultimi nuclei di mujaheddin stavano tentando di raggiungere l'Algeria per mettersi in salvo. Si trattava di un migliaio di combattenti, molto frazionati e soprattutto impacciati dalla presenza delle loro famiglie e del bestiame, che rappresentava la loro unica fonte di sostentamento. A ben guardare, in quelle disperate condizioni, non costituivano più un pericolo, vista anche la loro decisione di sconfinare in Algeria, dove i francesi si sarebbero affrettati a disarmarli. Un altro comandante, per esempio Antonio Miani, avrebbe rinunciato all’inseguimento, pago di aver allontanato dalla Libia capi ribelli della fama di Abd en-Nebi Belcher, Mohammed ben Hag Hassen e Hamed ben Hassen ben Ali. Ma Graziani era troppo astioso, vendicativo per lasciarsi sfuggire la preda, e subito lanciava all’inseguimento due forti colonne. E avendo appreso, qualche giorno dopo, che le puntate offensive erano cadute nel vuoto e che già dall’8 febbraio erano cominciati gli sconfinamenti dei ribelli, irritato per il mancato combattimento lanciava tutti gli aerei a sua disposizione sulle mehalla in fuga.
Per due giorni, il 13 e il 14 febbraio 1930, i Caproni 73, che potevano portare una tonnellata di bombe, e i Romeo Ro.1 si avvicendavano di continuo sulla linea della frontiera bombardando e mitragliando, come ricordava un testimone, il giornalista Sandro Sandri, il “gregge umano composto, oltreché dagli armati, da una moltitudine di donne e bambini. Seguivano gli armenti: visione biblica di un esodo dovuto all'intolleranza di pochi capi delinquenti che trascinavano nella loro fuga quella povera gente”. Sandri e gli altri testimoni di questo esodo, culminato in un massacro, non avevano alcun dubbio su chi condannare. Nessuno di loro riusciva a intuire la grandezza e la nobiltà del dramma che si svolgeva sotto i loro occhi.
Molti, fra quei mujaheddin, erano in armi da otto anni e da otto anni, sempre braccati, avevano vissuto in uno dei paesi più inospitali del mondo. Per otto anni avevano combattuto contro un nemico estremamente più forte e impietoso, a volte mettendo a segno qualche colpo fortunato, ma più spesso incassando colpi tremendi. Avevano lasciato brandelli della loro carne dalla costa del Mediterraneo agli estremi confini meridionali della Libia, lungo millecinquecento chilometri di dune, di serir, di montagne lunari. Avevano abbandonato il loro paese soltanto quando avevano avvertito il fiato dei loro avversari sul collo. Abd en-Nebi Belcher aveva varcato il confine algerino il 12 febbraio e si era sottomesso alle autorità francesi di Fort Charlet, nell’oasi di Gianet. Il grosso dei ribelli, con le famiglie e il bestiame -circa 2.800 persone e 6.000 cammelli- aveva invece passato il confine più a nord, sotto un uragano di fuoco, e i superstiti si erano arresi alla guarnigione francese di Fort Tarat.
Con questa assurda, inutile ecatombe, di cui rimangono scarse tracce nei documenti ufficiali e che lo stesso Graziani, sempre pronto a evidenziare i suoi brutali successi, non registra neppure nel suo libro “Pace romana in Libia”, si concludeva la campagna del Fezzan.
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L’occupazione della Ghibla e del Fezzan, in appena tre mesi, costituiva il felice risultato del sodalizio tra Badoglio e Graziani. Badoglio era la mente. Graziani il braccio operativo. Entrambi erano ambiziosi oltre ogni limite, ostinati, spietati, indifferenti alle sofferenze delle popolazioni libiche, che ostentatamente disprezzavano. Fra i due, Badoglio era anche il più avido. Era riuscito a strappare, quale stipendio, nonostante le ristrettezze in cui versava il paese, l’astronomica cifra di 698.000 lire annue.
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Ma quando, a giugno, dopo una visita a Bengasi di Badoglio e del ministro delle Colonie De Bono, Graziani metteva in moto la sua rinnovata macchina militare in un vasto rastrellamento nel Fayed, non otteneva che modestissimi risultati, esattamente come i governatori che l’avevano preceduto e che lui non aveva mancato di criticare. Il motivo principale dell’insuccesso era dovuto alla presenza, sul campo di battaglia, di Omar al-Mukhtàr, il vicario dell’emiro Mohamed Idris es-Senussi, che da nove anni conduceva con successo la guerriglia contro gli italiani.
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Irritato per l’insuccesso di Graziani nel Fayed, Badoglio gli inviava il 20 giugno una lunga lettera con la quale criticava duramente il suo operato e gli impartiva queste nuove, terrificanti direttive: “Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”.
Cinque giorni dopo aver scritto questa lettera, che avrebbe provocato la deportazione dal Gebel Achdar e dalla Marmarica di 100.000 libici, Badoglio si incontrava con Graziani e insieme concertavano le modalità per effettuare l’operazione, che non ha precedenti nella storia dell’Africa moderna. Badoglio e Graziani, però, non erano i soli responsabili di questa infamia. Il ministro delle Colonie De Bono sollecitava da tempo tale misura estrema e non ci risulta che Mussolini abbia avuto qualche scrupolo nell’approvarla.
Lo sgombero totale dell’altipiano cirenaico aveva inizio il 27 giugno e si protraeva per alcune settimane. Ma per i Marmarici e per gli Abeidat, che dovevano compiere una marcia di oltre mille chilometri, il viaggio durava alcuni mesi. Il materiale documentario sulle deportazioni delle popolazioni della Cirenaica è assai scarso, e quel poco che è conservato negli archivi di Stato è generalmente reticente.
Pertanto disponiamo soltanto di un’ampia e dettagliata relazione sull’esodo degli Aughir. Si trattava di alcune migliaia di persone, in grande maggioranza donne, bambini e vecchi.
Sin dai primi giorni di marcia, i più anziani e i più deboli tendevano a staccarsi dalla colonna. Ma gli ordini erano severissimi. Si legge nella relazione: “Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato per le armi. Un provvedimento così draconiano fu preso per necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre ed i loro beni. Anche il bestiame che, per le condizioni fisiche, non era in grado di proseguire la marcia, veniva immediatamente abbattuto dai gregari a cavallo del nucleo irregolare di polizia che avevano il compito di proteggerlo e di custodirlo”.
Le varie colonne venivano poi avviate ai campi di concentramento, che si trovavano tutti nel Sud bengasino e nella Sirtica, ossia nei luoghi più torridi e malsani della Libia. Secondo una relazione di Graziani del 2 maggio 1931, cioè a trasferimento ultimato, il lager più vasto era quello di Marsa Brega, che accoglieva 21.117 fra Abeidat e Marmarici.
Seguivano Soluch, con 20.123 Auaghir, Abid, Orfa, Fuacher e Mogàrba; Sidi Ahmed el Magrun, con 13.050 tra Braasa e Dorsa; el Agheila, con 10.900 fra Mogàrba, Marmarici e parenti dei ribelli in armi; Agedabia, con 10.000 persone, di cui non si specifica la tribù; el Abiar, con 3.123 Auaghir.
Complessivamente, dunque, questi sei lager accoglievano 78.313 cirenaici. Ai quali andavano aggiunti i 12.448 confinati nei campi minori di Derna, Apollonia, Barce, Driana, Sidi Chalifa, Suani el Teria, en-Nufilia, Bengasi, Coefia e Guarscia, che portavano il totale generale a 90.761 reclusi.
Bisognava inoltre tenere conto delle persone abbattute durante le marce di trasferimento e dei morti nei lager, per denutrizione, malattia e tentativi di fuga nei primi mesi di prigionia. La cifra totale dei deportati saliva così a non meno di 100.000.
Questa cifra rappresentava esattamente la metà degli abitanti della Cirenaica, se teniamo per buono il censimento turco del 1911, che dava una popolazione di 198.300 anime. Quando le autorità italiane avrebbero compiuto, il 21 aprile 1931, il primo vero censimento con tecniche moderne, si sarebbe scoperto che gli indigeni erano soltanto 142.000. In altre parole, la popolazione della Cirenaica era diminuita in vent’anni di circa 60.000 unità: 20.000 per l’esodo verso l’Egitto, 40.000 per i rigori della guerra, della deportazione e della prigionia nei lager. In nessun’altra colonia italiana la repressione aveva assunto, come in Cirenaica, i caratteri e le dimensioni di un autentico genocidio.
Uno dei rarissimi funzionari che cercò di contenere la furia devastatrice di Graziani fu il commissario Giuseppe Daodiace.
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Scriveva Daodiace a Giuseppe Brusasca il 7 gennaio 1951: “Che io non li approvassi risulta dalle tante e ripetute mie proteste, scritte ed orali, per il fatto che non si facevano mai prigionieri in occasione di scontri fra le nostre truppe e i ribelli e si fucilavano anche donne e bambini. Non posso precisare in che anno, un gruppo di zaptiè, ai quali era stato ordinato la fucilazione di 36 fra donne e bambini di un attendamento, si presentò a me per protestare, facendomi conoscere che se fosse stato loro impartito nuovamente un ordine consimile avrebbero preferito disertare”.
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La reclusione nei campi durava mediamente tre anni. Gli ultimi lager sarebbero stati smantellati nel settembre 1933. Dei 100.000 libici che erano partiti dal Gebel Achdar e dalla Marmarica, ne sarebbero tornati a casa 60.000. Forse di meno.
La deportazione delle popolazioni della Cirenaica, e il loro internamento nei campi di concentramento, privava Omar al-Mukhtàr del sostegno che aveva sempre ricevuto da esse.
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Cattura di al-Mukthàr.
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Prima che si svolga il processo burla, la cui sentenza è già stata decisa a Roma, Omar al-Mukhtàr viene interrogato da Graziani. Da una parte del tavolo c’è un generale giovane, superbo, arrogante. Dall’altra, un vecchio di 73 anni, in catene, avvolto in un barracano bianco, i piedi gottosi, la voce fioca, quasi afono. A un dato momento dell’interrogatorio, Omar si sente mancare (non si dimentichi che è ferito al braccio). Allora dice al suo inquisitore: “Io sono vecchio, fammi sedere”. Soltanto allora il generale gli indica una sedia.
Graziani gioca la carta dell’intimidazione e poi quella della seduzione per convincere Omar a far cessare, con la sua autorità, la guerriglia. E quando si accorge che dal vecchio ikhuàn non otterrà nulla, ne' informazioni, né bassi servigi, allora bruscamente lo congeda. “Cerca di stendermi la mano, ferrata” ricorda Graziani, “ma non lo può, perché non arriva. Del resto, non l’avrei toccata. Se ne va, strascicante, come era entrato. Il dramma cirenaico è finito”. Se Graziani, con questo racconto dell’interrogatorio di Omar, sperava di renderci odioso il personaggio inquisito, ha fatto male i suoi conti. Perché questo Omar vecchio, cadente, gottoso, che strascica i piedi, e che è nello stesso tempo lucido, fiero, irremovibile, appare come un gigante rispetto a lui. Nella sua superbia e arroganza senza limiti, il superuomo Graziani non si accorge di restituire, intatto, il vero, splendido ritratto del capo ribelle.
Il comportamento di Omar, nelle ultime ore della sua esistenza, è quanto di più fiero e dignitoso. Appena l'interprete Nasri Hermes gli traduce il testo della sentenza di morte, Omar al-Mukhtàr dice: “Da Dio siamo venuti e a Dio dobbiamo tornare”. L’indomani, 16 settembre 1931, lo traducono nel campo di concentramento di Soluch e alle 9, davanti ai notabili confinati a Benina e a 20.000 libici fatti affluire dai vicini lager, lo impiccano.
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L’ultimo insulto a Omar al-Mukhtàr veniva compiuto in tempi recenti, con la proibizione di proiettare in Italia il film “Il leone del deserto”, che narra l’epopea del capo partigiano.
Giudicato “lesivo dell'onore dell’esercito italiano”, ancora oggi il film del regista siro-americano Moustapha Akkad viene visionato di nascosto nelle salette dei cineclub. Il lungo ostracismo contro il film di Akkad si inserisce in una più vasta e subdola campagna di mistificazione e di disinformazione, che tende a conservare della nostra recente storia coloniale una visione romantica, mitica, radiosa. Cioè falsa.
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Cecilia Ridani
Il film.
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Etiopia 1935-1941.
Una pioggia di iprite.
A vendicare la bruciante sconfitta di Adua Mussolini aveva pensato sin dai primi anni del suo governo. Già l’8 luglio 1925, in una lettera indirizzata al ministro delle Colonie Lanza di Scalea, scriveva: “Prepararsi militarmente e diplomaticamente e approfittare di un eventuale sfasciamento dell'impero etiopico. Nell’attesa, lavorare in silenzio, sin dove sia possibile in collaborazione con gli inglesi, e cloroformizzare il mondo ufficiale abissino”.
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Per attaccare, Mussolini aspettava soltanto un pretesto, uno qualsiasi. Il banale incidente confinario di Ual Ual, che in altri momenti sarebbe stato pacificamente composto, glielo forniva. Il 24 dicembre 1934 il duce autorizzava Emilio De Bono a raggiungere l’Eritrea. Il 27 ordinava la mobilitazione in Somalia e quella parziale in Eritrea. Il 3 ottobre 1935, a preparazione militare conclusa, senza alcuna dichiarazione di guerra, “more nipponico” dava inizio all’invasione dell’Etiopia.
Anche se il proposito di vendicare Adua era certamente uno dei motivi dominanti nella decisione di Mussolini di trascinare il paese in guerra e, in seguito, di affrontare le pesanti sanzioni ordinate dalla Società delle Nazioni, c’erano tuttavia altre ragioni che lo avevano spinto a compiere un passo così grave. Anzitutto la promessa, più volte da lui formulata, di dare agli italiani “un posto al sole”. Ossia, finalmente, un paese ricco e fertile, non più una collezione di deserti. Terra feconda per chi non ne aveva. Spazio illimitato per chi sentiva l’Italia stretta e provinciale. Una nuova frontiera per chi amava l’avventura.
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Ma c’era anche un altro motivo che spingeva Mussolini in Africa. Quello di verificare se in tredici anni di regime era nato l'italiano nuovo. Questo riscontro lo si poteva ottenere soltanto nella fornace di una guerra vera, come quella che si prospettava contro l’Etiopia, e non nei modesti conflitti libici e somali del passato, il cui peso era stato quasi interamente sopportato dalle truppe mercenarie. Sulle ambe che avevano visto la sconfitta dei soldati di Baratieri, i nuovi militi del littorio avrebbero dimostrato se nelle palestre, nelle adunate del sabato, sui banchi di scuola, avevano veramente assorbito la dottrina del fascismo e insieme la religione della patria, che li avrebbe fortificati e resi imbattibili. Era una verifica che stava particolarmente a cuore a Mussolini, il quale non aveva esitato a mandare in guerra due suoi figli, Bruno e Vittorio, e il genero, Galeazzo Ciano.
Se oggi rileggiamo, non senza pena e repulsione, alcune testimonianze sulla guerra italo-etiopica del 1935-36, come “Disperata” di Alessandro Pavolini, “Voli sulle ambe” di Vittorio Mussolini, “Quaderno africano” di Giuseppe Bottai, “XX battaglione eritreo” di Indro Montanelli, dobbiamo riconoscere che i quattro autori hanno alcune caratteristiche in comune mutuate dal peggior insegnamento del fascismo: il disprezzo per l’avversario, l’assenza di pietà, l’inclinazione allo sterminio, l’esaltazione della bella morte.
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Indro Montanelli, dal canto suo, era andato in Africa “non a cercar “colore”, ma a cercarvi una coscienza di uomo”. Il futuro principe del giornalismo italiano riteneva di averla trovata guidando una banda di ascari eritrei nelle prime operazioni sul fronte Nord. Ecco come descrive l’attacco a un villaggio etiopico: “La spedizione era stata buona: sessantasette accertati. Gli ascari si sparpagliarono pei tukul a razziare e, all'occorrenza, fornire i sacramenti definitivi a qualcuno che poteva essersi rintanato in qualche nascondiglio a esalarvi l'ultimo rantolo”. Dunque, ricapitoliamo: morti accertati 67, ascari autorizzati a compiere razzie e all’occorrenza trucidare i feriti. Ci chiediamo come Montanelli potesse formarsi una coscienza attraverso questa spirale di violenze estreme. Eppure, per avergli concesso di vivere questa esperienza, ringraziava Mussolini: “Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di scuola. E, detto fra noi, era ora”.
Ma le responsabilità di questi modesti o autorevoli gregari sono insignificanti rispetto a quelle di Mussolini nel suo rapporto con l’Africa. Si tratta di un Mussolini quasi ignoto in Italia, appena sfiorato dallo stesso Renzo De Felice, generalmente trascurato anche dagli storici stranieri, contro il quale non è stata ancora neppure formulata un’istruttoria. Ma questo Mussolini è ben noto in Africa, dovunque i suoi ordini hanno significato violenze e stermini: dal Gebel cirenaico alle montagne lunari della Migiurtinia, dalle strade di Addis Abeba alla città conventuale di Debrà Libanòs. Se l’Africa avesse potuto pretendere una propria Norimberga, se avesse avuto tanta forza da poter istruire processi per i delitti di lesa Africa, questo Mussolini africano non si sarebbe salvato.
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Dall'inizio del conflitto, il 3 ottobre 1935, è Mussolini che indica gli obiettivi da conquistare, che fissa le date, in armonia con il suo spregiudicato gioco diplomatico. Quasi ogni giorno invia telegrammi operativi a De Bono (in seguito a Badoglio) sul fronte Nord e a Graziani sul fronte Sud, con ordini precisi, che non si discutono. E quando i suoi generali si trovano in difficoltà, perché il nemico è più forte e audace del previsto, e sul fronte Nord ha sfondato le linee ed è penetrato in Eritrea, è lui che concede il permesso di usare le armi proibite dalla Convenzione di Ginevra, i micidiali gas tossici. Di questi aggressivi chimici ha autorizzato lo sbarco segreto in Eritrea di 270 tonnellate per l'impiego ravvicinato, di 1.000 tonnellate di bombe per l'aeronautica (caricate a iprite), di 60.000 granate per l'artiglieria (caricate ad arsine). Di quest’arma assoluta si è riservato l’appalto. L’ordine di utilizzarla, come la revoca, parte soltanto da lui, supremo ed esclusivo dispensatore di morte. E anche l’impiego della guerra chimica è fatto in sintonia con le sue mosse sullo scacchiere europeo. Ci sono giorni in cui si può dispensare la morte a piene mani e giorni in cui è giocoforza far mostra di una grande umanità.
Il primo a essere autorizzato a impiegare i gas era il generale Graziani. Il 27 ottobre 1935, mentre stava per attaccare la piazzaforte di Gorrahei, riceveva questo telegramma da Mussolini: “Sta bene per azione giorno 29. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco”. Gli aggressivi chimici, però, non venivano usati nell’azione su Gorrahei, perché sei tonnellate di esplosivo tradizionale bastavano a determinare il crollo del caposaldo. Ma il 15 dicembre, avendo appreso che ras Destà Damtèu stava avvicinandosi alle fortificazioni italiane di Dolo con la sua armata, Graziani chiedeva “libertà d’azione per impiego gas asfissianti” così da rallentare la marcia dell’avversario. La risposta di Mussolini era immediata e positiva: “Sta bene impiego gas nel caso V.E. lo ritenga necessario per supreme ragioni difesa”.
Graziani non perdeva tempo. Il 24 dicembre inviava tre Caproni 101 bis sulla località di Areri, dove ras Destà era in sosta con la sua armata e il bestiame per il sostentamento, e l’irrorava di iprite e di fosgene. Gli attacchi aerei venivano ripetuti il 25, 28, 30 e 31 dicembre, con un lancio complessivo di 125 bombe. Il 10 gennaio 1936, telegrafando al generale Bernasconi, comandante dell’aviazione della Somalia, Graziani gli annunciava: “Le ultime azioni compiute hanno dimostrato quanto sia efficace l'impiego dei gas. Al riguardo, S.E. il Capo del Governo, con telegramma odierno n. 333, me ne autorizza l’impiego nella contingenza attuale, che ha carattere campale e definitivo per l’armata di ras Destà”.
Sul fronte Nord i gas venivano usati a partire dal 22 dicembre 1935, dopo che le avanguardie di ras Immirù avevano fatto a pezzi a Dembeguinà il gruppo Bande del maggiore Criniti. Nel tentativo di fermare l’offensiva abissina nello Scirè, il maresciallo Badoglio lanciava tutta l’aviazione dell’Eritrea sui guadi del Tacazzé e del Golimà, su Mai Timchet e il passo Agumbertà. Per la prima volta, nella campagna d’Etiopia, venivano gettate sulle masse abissine in movimento le micidiali bombe C.500T, che contenevano 212 chilogrammi di iprite e che, grazie a un meccanismo a tempo, si aprivano a 250 metri dal suolo creando una pioggia mortale. Ne venivano lanciate 74 tra il 22 e il 27 dicembre, 117 fra il 2 e il 7 gennaio 1936.
Sugli effetti di questa arma proibita disponiamo della testimonianza dello stesso ras Immirù Haile Sellase: “Fu uno spettacolo terrificante. Io stesso sfuggii per un caso alla morte. Era la mattina del 23 dicembre e avevo da poco attraversato il Tacazzè, quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani. Il fatto, tuttavia, non ci allarmò troppo, perché ormai ci eravamo abituati ai bombardamenti. Quel mattino, però, non lanciarono bombe, ma strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c'erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini. I miei sottocapi, intanto, mi avevano circondato e mi chiedevano consiglio, ma io ero stordito, non sapevo che cosa rispondere, non sapevo come combattere questa pioggia che bruciava e uccideva”.
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Complessivamente, dal 22 dicembre 1935 al 29 marzo 1936, venivano sganciate sul fronte Nord 1020 bombe C.500T per un totale di 300 tonnellate di iprite. Sul fronte Sud venivano gettate, dal 24 dicembre 1935 al 27 aprile 1936, 95 bombe C.500T, 186 bombe da 21 chilogrammi all’iprite e 325 bombe caricate a fosgene da 41 chilogrammi, per un totale di 44 tonnellate. Se si aggiunge che, durante la battaglia dell’Amba Aradam, Badoglio autorizzò l’impiego di 1.367 colpi di artiglieria caricati ad arsine, il totale generale raggiunge le 350 tonnellate di aggressivi chimici.
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Eppure, nonostante i loro effetti devastanti e terrorizzanti, a un dato momento a Mussolini i gas non bastavano più. Per liquidare più rapidamente i suoi avversari, che egli definiva di volta in volta “negrieri amhara”, “selvaggi razziatori”, “abissini tagliatori di teste”, alla fine di gennaio del 1936, quando per Badoglio le cose si mettevano male (stava addirittura per ordinare la ritirata da Macallè sotto la pressione dell’armata di ras Cassa), pensava persino di ricorrere alla guerra batteriologica, anche se sapeva perfettamente che nessun paese al mondo l’aveva mai praticata. E se il nuovo flagello non veniva utilizzato, lo si doveva soltanto a Badoglio, il quale esprimeva un “parere nettamente contrario”, precisando che l’uso dei nuovi e tremendi aggressivi chimici avrebbero alienato all'Italia la simpatia delle popolazioni del Corno d’Africa e, sul piano internazionale, avrebbe potuto avere ripercussioni enormi e disastrose. Il 20 febbraio 1936 Mussolini replicava a Badoglio con questo laconico telegramma: “Concordo con quanto osserva V.E. circa l’impiego della guerra batteriologica”.
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Impiegando tutti gli strumenti della censura, il regime fascista riusciva a nascondere agli italiani l’utilizzo in Etiopia delle armi proibite e prontamente e sfrontatamente smentiva tutte le notizie che apparivano sulla stampa internazionale con riferimenti all’uso dei gas. Questo silenzio imposto su uno dei peggiori crimini del fascismo doveva durare a lungo, per decenni, anche in piena democrazia.
Scomparsa la censura, si imponeva la parola d’ordine di negare, e di tacciare di antitaliano chiunque avesse avanzato dubbi. Guidava il gruppo dei negazionisti Indro Montanelli, per oltre cinquant’anni il più accreditato opinion maker italiano. Lui, in Etiopia, c’era stato. Non parlava per sentito dire. La sua era la testimonianza di un combattente, sempre in prima linea con le avanguardie. E giurava di non aver mai visto un abissino ucciso dai gas. Giurava di non aver mai sentito il caratteristico odore di mostarda dell’iprite. Chi sosteneva il contrario, era semplicemente un mentitore.
Il 7 febbraio 1996, vale a dire a sessant’anni dalla guerra d’Etiopia, il ministro della Difesa, generale Domenico Corcione, rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari, ammetteva finalmente che “nella guerra italo-etiopica furono impiegate bombe d’aereo e proiettili d’artiglieria caricati ad iprite ed arsine, e che l’impiego di tali gas era noto al Maresciallo Badoglio, che firmò di proprio pugno alcune relazioni e comunicazioni in merito”.
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A Mussolini non interessava tanto vincere la guerra quanto sterminare gli avversari, per questo si accaniva contro le popolazioni inermi consentendo che venissero ipritate e con esse il bestiame, i raccolti, i fiumi, i laghi. Per questo ordinava di non rispettare i contrassegni della Croce rossa, permettendo che venissero distrutte diciassette installazioni mediche, tra le quali gli ospedali da campo di Melka Dida, dell’Amba Aradam, di Quoram. Per questo consentiva che si lanciassero contro l’Etiopia cristiano-copta i libici musulmani della divisione Libia, al comando del generale Guglielmo Nasi.
Con l’invio sul fronte Sud di queste truppe libiche, per la totalità di religione islamica, contro un avversario in gran parte di fede cristiana, il regime fascista commetteva un nuovo e gravissimo crimine consentendo ai libici, con estrema perfidia, di vendicarsi per le violenze subite per vent’anni dalle loro famiglie a opera dei battaglioni amhara-eritrei. Entrata in azione il 15 aprile 1936, la divisione Libia partecipava, nell'Ogaden, all’ultima e decisiva offensiva di Graziani intesa a scardinare le linee di difesa apprestate dal generale turco Wehib pascià e dal degiac Nasibù Zamanuel a protezione di Giggiga e di Harar.
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Gli scontri più sanguinosi si svolgevano lungo il corso dell’uadi Corràc, ricco di insidiose caverne e di accurati apprestamenti difensivi, inutilmente bersagliati dall’aviazione, dalle artiglierie e sottoposti all'azione devastante dei lanciafiamme e dei proiettili caricati ad arsine. A rompere le ultime accanite resistenze erano i libici del I e del VII battaglione, che riuscivano a guadare l’uadi ingrossato dalle piogge e a tagliare agli avversari la via di fuga e a farne scempio.
Sul terreno, infatti, rimanevano 3.000 etiopici, ma il bilancio era pesante anche per gli attaccanti. Erano rimasti uccisi o feriti 20 ufficiali, 11 soldati nazionali e 707 indigeni, in gran parte libici. Graziani completava il bilancio con una considerazione agghiacciante: “Prigionieri pochi, secondo il costume delle truppe libiche”. Il massacro era di tali proporzioni che il generale Nasi, molto più umano di Graziani, offriva agli ascari libici un premio di cento lire per ogni prigioniero che gli avessero condotto vivo.
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Etiopia 1937.
Debrà Libanos: una soluzione finale.
Il 5 maggio 1936 il maresciallo Pietro Badoglio entrava in Addis Abeba senza colpo ferire. L’imperatore Hailè Selassiè l’aveva abbandonata tre giorni prima per prendere l'ultimo treno per Gibuti e la via dell’esilio. L'8 maggio il generale Rodolfo Graziani occupava Harar e l’indomani Dire Daua. La “guerra dei sette mesi” era finita.
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La situazione, in Etiopia, era in realtà meno benigna. Quasi due terzi dell’immenso paese erano ancora da occupare ed erano sotto il controllo di capi e funzionari del negus. Si aggiunga che i resti dell’esercito imperiale, circa 100.000 uomini, erano ancora attivi nel Sidamo, nel Bale, nel Goggiam, nel Gimma, nell’Hararghiè, al comando di capi di provata efficienza, come i ras Destà Damtèu e Immirù Haile Sellase, i degiac Bejenè Merid, Gabre Mariam, Maconnen Uoseniè. Per finire, i 10.000 soldati che presidiavano Addis Abeba erano praticamente assediati dagli armati dei fratelli Cassa.
Intuendo il pericolo, e impaziente di riscuotere i doni, le prebende e gli incarichi che gli erano stati promessi (fra tutti, un titolo nobiliare e tre milioni di lire per costruire una villa faraonica in via Bruxelles a Roma), Badoglio si faceva richiamare in Italia e passava le consegne all’ambizioso Graziani, nel frattempo promosso maresciallo d’Italia. Investito il 20 maggio del triplice incarico di viceré, governatore generale e comandante superiore delle truppe, Graziani veniva nello stesso tempo travolto dagli ordini telegrafici di Mussolini, che erano a dir poco insensati.
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Inutilmente Graziani cercava di spiegare all’impaziente Mussolini che lui era dispostissimo a riprendere la marcia, ma la stagione delle piogge bloccava i movimenti su tutte le strade e rendeva persino difficoltosi i rifornimenti alla capitale che, oltretutto, erano ostacolati dalle incursioni dei ribelli. Mussolini non voleva sentire ragioni e pungolava il viceré con telegrammi di questo tenore: “Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi”. “Per finirla con i ribelli, come nel caso di Ancober, impieghi i gas”. “Autorizzo ancora una volta Vostra Eccellenza a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma”.
Se si trattava di usare il pugno di ferro Graziani non aveva bisogno di sollecitazioni, lo aveva ampiamente dimostrato in Libia. Sotto il suo comando, infatti, la controguerriglia sarebbe stata condotta per venti mesi con metodi spietati, che violavano ogni legge di guerra. E, tuttavia, con scarsi risultati. Appena veniva spento un focolaio di rivolta, subito se ne accendeva un altro, più vasto, più inquietante. Nonostante le continue esecuzioni sommarie, le rappresaglie con i gas (verranno lanciate 552 bombe caricate a iprite e a fosgene per complessive 60 tonnellate), l’incendio di migliaia di villaggi con le loro chiese, le deportazioni di intere comunità, la costruzione di nuovi campi di concentramento, l’Etiopia appariva indomabile e continuava a essere inospitale. Quella che avrebbe dovuto diventare una colonia di ripopolamento, la terra promessa per i coloni italiani (si parlava di trapiantare in Etiopia da un milione a dieci milioni di contadini), non accoglierà, per la verità, durante i cinque anni dell’occupazione fascista, che 5.500 famiglie, distribuite su appena 114.000 ettari. Questi coloni non faranno in tempo a dissodare le nere terre del Gimma, del Cercer, dell’Uogherà, perché le prime cannonate della seconda guerra mondiale li strapperanno dai loro sogni.
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Ad appena nove mesi da quando Rodolfo Graziani era stato nominato da Mussolini viceré d’Etiopia, il clima a Addis Abeba era particolarmente pesante e l’atmosfera di insicurezza era palpabile. Cerano, nella capitale, alcune migliaia di etiopici che piangevano i loro cari uccisi durante le operazioni di grande polizia coloniale. Cerano molti altri in ansia per la scomparsa dei loro congiunti, probabilmente finiti nelle prigioni italiane. Continuava, inesorabile, la caccia ai cadetti della Scuola militare di Olettà e dei giovani che si erano laureati all’estero, per i quali, sin dal 5 maggio 1936, Mussolini aveva emesso questa sentenza: “Siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani, etiopici, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi”. Infine, dalle regioni vicine, dove era attiva la resistenza degli arbegnuoc, dei partigiani, giungevano notizie di scontri, di eccidi, di razzie, di incendi di villaggi, dell’uso sistematico dei gas.
Erano presenti tutti gli elementi perché si scatenasse una rivolta o, per lo meno, un disperato atto di protesta. Di questo gesto estremo si incaricavano due giovani studenti di origine eritrea, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, i quali, nei giorni precedenti all’attentato a Graziani, con la complicità di un tassista hararino, Semeon Adefres, e del capo ribelle Ficrè Mariam, si erano addestrati al lancio delle bombe a mano sulle pendici del monte Zuqualà. Il 19 febbraio 1937, approfittando di una cerimonia che si teneva nel recinto del Piccolo Ghebì, per solennizzare la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia, i due eritrei, eludendo il servizio d’ordine, si introducevano nel palazzo, salivano al primo piano e accedevano alla balconata, che dava proprio sulla scalinata d’accesso al palazzo dove le autorità si erano sistemate. Era quasi mezzogiorno quando i due attentatori cominciavano a lanciare le bombe a mano Breda (otto in tutto) sul viceré Graziani e le autorità italiane ed etiopiche che lo circondavano. Il bilancio era gravissimo: sette morti e una cinquantina di feriti, e fra questi lo stesso Graziani, il vice-governatore generale Petretti, i generali Liotta, Gariboldi e Armando, i colonnelli Mazzi e Amantea, il governatore di Addis Abeba Siniscalchi, l’ispettore fascista del lavoro per l’Africa Orientale Italiana, onorevole Fossa, il federale Cortese, l’abuna Cirillo, il degiac Hailè Selassiè Gugsa.
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Subito dopo aver appreso la notizia dell’attentato, Mussolini inviava a Graziani, che nel frattempo era stato ricoverato in ospedale, essendo stato investito da 350 schegge, questo telegramma: “Non attribuisco al fatto una importanza maggiore di quella che effettivamente ha, ma ritengo che esso debba segnare l’inizio di quel radicale ripulisti assolutamente, a mio avviso, necessario nello Scioa”. A Addis Abeba, l’uomo che prendeva immediatamente l’iniziativa di dare agli etiopici una lezione indimenticabile non era però Graziani, che si limitava ad avallarla dall’ospedale trasformato in bunker, bensì il federale fascista della capitale, Guido Cortese.
La rappresaglia si scatenava quasi subito, nello stesso pomeriggio del 19 febbraio. Il giornalista Ciro Poggiali annotava nel suo diario segreto: “Tutti i civili che si trovavano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. […] Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente”.
Un altro testimone dei fatti, Antonio Dordoni, che ben conosceva la comunità italiana della capitale, così riferiva: “Nel tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla Casa del fascio, alcune centinaia di squadre composte da camicie nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata “caccia al moro” che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul con la benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi. Intesi uno vantarsi di “essersi fatto dieci tucul” con un solo fiasco di benzina. Un altro si lamentava di avere il braccio destro stanco per il numero di granate che aveva lanciato. Molti di questi forsennati li conoscevo personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un solo colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori ed una carica di violenza insospettati. Il fatto è che l’impunità era assoluta. Il solo rischio che si correva era quello di guadagnarsi una medaglia. Che io sappia, i carabinieri intervennero una sola volta, per impedire che si bruciassero i magazzini dell’indiano Mohamedally”.
Di quel tremendo massacro disponiamo di tre fotografie, scattate dal giovane Alberto Imperiali, il quale, con il padre, era in contatto con la resistenza etiopica. Si tratta di immagini nette, inequivocabili, terrificanti, riprese nella zona di Gullalè, tra la chiesa dei Santi Pietro e Paolo e il Ghebì di ras Hailù Tecla Haimanot. Il terreno, ondulato, è letteralmente coperto da cumuli di stracci bianchi. Ma non si tratta di una immensa lavanderia indigena, bensì di cadaveri avvolti in fute bianche scaricati alla rinfusa, con molta probabilità da autocarri. Soltanto qualche testa, qualche braccio, emergono dai cumuli di stracci bianchi, a confermare che siamo di fronte a uno dei più odiosi eccidi della storia. Proviamo a contare le vittime. Cento, duecento. Impossibile continuare...
Veniva dato alle fiamme anche l’interno della chiesa di San Giorgio, costruita ai tempi di Menelik dall’ingegnere italiano Sebastiano Castagna. Un particolare che forse era sfuggito al federale Cortese che aveva, di persona, impartito l'ordine di incendiare l’edificio. E solo l'intervento di un colonnello dei granatieri impediva che una cinquantina di diaconi venisse spinta a scudisciate nel rogo. Mentre i civili organizzavano la rappresaglia contro una popolazione inerme e del tutto estranea all’attentato, i militari operavano arresti in massa, convogliando circa 4.000 etiopici in improvvisati campi di concentramento. Ma dove la ritorsione assumeva le dimensioni di un genocidio era negli agglomerati di tucul lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign, che attraversano la città da nord a sud. Presi d’assalto a tarda sera e dati alle fiamme, ardevano per tutta la notte illuminando a giorno I’immensa città-foresta.
“Da Piazza 5 maggio all’Ospedale americano se ne erano salvati ben pochi di tucul” ricordava a sua volta il vercellese Alfredo Godio, che l’indomani mattina attraversava il quartiere. “E fra le macerie c’erano cumuli di cadaveri bruciacchiati. Più tardi, sulla strada per Ambò, vidi passare molti autocarri 634 sui quali erano stati accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi”.
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Ancora oggi, nonostante il più facile accesso agli archivi italiani ed etiopici, è impossibile stabilire il numero esatto delle vittime di quei tre giorni di repressione. Nel memorandum presentato dal governo etiopico al Consiglio dei ministri degli Esteri delle potenze vincitrici riunito a Londra nel settembre 1945, si parla di “50.000 uccisi durante la strage del 1937”.
Ma è probabile che questa cifra comprenda anche le successive uccisioni di patrioti, religiosi, indovini, cantastorie, eremiti legate in qualche modo all’attentato a Graziani. I giornali inglesi, francesi e americani dell’epoca forniscono cifre che oscillano fra 1.400 e 6.000 morti. Quanto a Graziani, il 22 febbraio tracciava per Mussolini questo primo bilancio, che era estremamente riduttivo: “ln questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con ordine di passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state in conseguenza passate per le anni un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul”.
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Tra le varie proposte di Graziani a Mussolini c’era anche quella “di radere al suolo tutta la vecchia città indigena e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento”. Mussolini, una volta tanto, si opponeva al mostruoso progetto, non perché gli ripugnasse, ma perché “solleverebbe nel mondo una impressione sfavorevolissima e non raggiungerebbe lo scopo”. Approvava invece la proposta del viceré di deportare in Italia i notabili che erano ancora ammassati, dal giorno dell'attentato, nei sotterranei del palazzo vicereale. Trasferiti in volo ad Asmara, il 7 marzo 187 notabili, 8 donne e 2 bambini venivano imbarcati a Massaua sul piroscafo Toscana. Nei mesi successivi, con quattro navi, erano deportati in Italia altri 200 aristocratici, portando così il numero complessivo a 400. “Gli elementi di scarsa importanza ma comunque nocivi” venivano invece rinchiusi nei campi di concentramento di Nocra, in Eritrea, e di Danane, in Somalia, dove circa la metà moriva per malattia o per la scarsa e cattiva alimentazione.
Risolto, con la deportazione, il problema dei notabili scioani infidi, Graziani poteva dedicarsi con maggiore impegno al “radicale ripulisti”, cioè alla eliminazione di ogni oppositore, vero o presunto che fosse. Si veda, per esempio, l’incredibile vicenda della strage di indovini e cantastorie. Il 19 marzo Graziani notificava al ministro Lessona che gli organi di polizia gli avevano “concordemente segnalato” che tra i “più pericolosi perturbatori dell’ordine pubblico” erano da annoverarsi i cantastorie, gli indovini, gli stregoni, gli eremiti, che diffondevano ad arte notizie false o catastrofiche, come l’imminente fine della dominazione italiana in Etiopia. “Convinto della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta” continuava il viceré, “ho ordinato che tutti i cantastorie, indovini e stregoni della città e dintorni fossero arrestati e passati perle armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati ed eliminati settanta”. “Approvo quanto è stato fatto circa stregoni e ribelli” si affrettava a rispondere Mussolini. “Occorre insistere sino a che la situazione non sia radicalmente e definitivamente tranquilla”.
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Dopo aver esercitato la sua vendetta sulla nobiltà amhara, sugli esponenti di spicco dell’intellighenzia etiopica, sui cadetti della Scuola militare di Olettà, sulla folla anonima e miserabile di indovini, cantastorie, stregoni ed eremiti, nell’ultima decade di maggio Graziani prendeva come bersaglio il clero cristiano-copto e, in modo particolare, la città conventuale di Debra Libanòs. L’incarico di impartire questa nuova lezione veniva affidato al generale Pietro Maletti, il quale, a differenza di Nasi, era un perfetto esecutore di ordini. Partito il 6 maggio 1937 da Debrà Berhàn, attraversava il Mens, dove la resistenza era capeggiata dal degiac Auraris Dullu, comportandosi come un nuovo Attila. Se prestiamo fede ai rapporti da lui redatti, in due settimane le sue truppe incendiavano 115.422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i monaci), e sterminavano 2.523 arbegnuoc. Era tale il terrore che Maletti diffondeva che l'intera popolazione del Mens si dava alla macchia. “Non una persona venne a presentarsi per atto di omaggio” riferiva il generale a Graziani; “tutti i non combattenti erano fuggiti col bestiame e con le loro masserizie, occultandosi nei valloni, nelle pieghe del terreno, negli anfratti e nelle numerose grotte della regione. I preti, spogliate le chiese, smesso l’abito talare, si erano mescolati alla popolazione”.
Per l’operazione contro Debrà Libanòs, che circondava nella serata del 19 maggio, Maletti rinunciava a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da cristiani, e utilizzava ascari libici e somali, di fede musulmana, e soprattutto -sono parole sue- “i feroci eviratori galla della banda Mohamed Sultan: 1.500 uomini armati di pugnale, di lance e di vecchi fucili, agili come scimmie, liberi da ogni vincolo formale tattico e guidati dal loro istinto infallibile”.
Situato nello Scioa del Nord, il grande monastero di Debrà Libanòs era stato fondato nel XIII secolo dal santo tigrino Tecle Haymanot e comprendeva due grandi chiese in muratura, un migliaio di tucul abitati da monaci, preti, diaconi, studenti di teologia, suore e un centinaio di tombe di illustri capi abissini, a guardia delle quali stavano monaci e cascì (sacerdoti). Mentre Maletti completava l’occupazione della città conventuale, riceveva da Graziani un telegramma che diceva: “Questo avvocato militare mi comunica proprio in questo momento che ha raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debrà Libanos con gli autori dell’attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego darmi assicurazione comunicandomi numero di esse. Dia pubblicità at ragioni determinati provvedimento”.
Per la verità, le prove scoperte dal maggiore Franceschino erano estremamente vaghe e, al massimo, avrebbero potuto riguardare uno o più monaci e non l’intera comunità. Ma il viceré, da tempo, era persuaso che il convento fosse “un covo di assassini, briganti e monaci assolutamente a noi avversi”. Pertanto non provava alcuno scrupolo a ordinarne lo sterminio.
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Dopo alcuni sommari accertamenti e la separazione dei religiosi dagli occasionali pellegrini, nella giornata del 21 maggio Maletti trasferiva nella piana di Laga Wolde i monaci selezionati. Nella loro precisa ricostruzione dei fatti, i due docenti universitari Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik riferiscono: “Le vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte allineare, con il viso a nord e la schiena volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila lungo l’argine meridionale del fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli ascari presero quindi un lungo telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro”.
Si procedeva quindi alla fucilazione dei religiosi. E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo di condannati. Alle 15.50 del pomeriggio tutto era finito e Graziani poteva annunciare a Roma che “oggi, alle 15 in punto”, il generale Maletti “ha destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 25 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che verranno tradotti e trattenuti nelle chiese di Debrà Berhàn. ll convento è stato di conseguenza chiuso definitivamente”.
Ma tre giorni dopo il viceré cambiava idea, sembra su istigazione di ras Hailù Tecla Haimanot, il più noto e spietato fra gli aristocratici collaborazionisti, e inviava a Maletti questa nuova direttiva: “Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: “Liquidazione completa”. Il generale Maletti, con il consueto zelo, provvedeva subito a far scavare due profonde fosse in località Engecha, a pochi chilometri da Debrà Berhàn, e nella mattinata del 26 maggio faceva sfilare davanti alle mitragliatrici 129 diaconi, martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani e diversi. “Per cui” concludeva Graziani “la cifra dei giustiziati saliva a 449”.
Ma la vera cifra degli assassinati era molto più alta, almeno tre volte superiore. Tra 1991 e 1994 i due docenti universitari già ricordati, l'inglese lan L. Campbell e l’etiopico Degife Gabre-Tsadik, eseguivano nel territorio di Debrà Libanòs un'ampia e approfondita ricerca, interrogando monaci, cascì, civili, alcuni dei quali avevano assistito a una o più fasi del massacro.
Dalle loro testimonianze emergeva che i fucilati a Laga Wolde non erano 320 ma tra 1.000 e 1.600. Successivamente, tra 1993 e 1998, il professor Campbell proseguiva da solo le indagini spostandosi nella regione di Debrà Berhàn per trovare informazioni sulla strage di Engecha. Egli non soltanto riusciva a localizzare le due fosse che contenevano i corpi dei 129 diaconi, ma poteva raccogliere le deposizioni di due testimoni oculari che avevano assistito alla strage dall’inizio alla fine. L’inchiesta di Campbell rivelava inoltre che Graziani, nel comunicare a Lessona l’eliminazione dei diaconi, aveva sostenuto il falso.
Egli, infatti, non si era limitato a ordinare a Maletti la “liquidazione completa” dei 129 diaconi, ma gli aveva ingiunto di sopprimere altri 276 etiopici, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti che appartenevano ad altri monasteri e che nulla avevano a che fare con Debrà Libanòs. Per cui il bilancio della strage di Engecha saliva a 400 vittime e quello complessivo della rappresaglia contro la città conventuale di Debrà Libanòs si aggirava, secondo i due ricercatori, tra 1.423 e 2.055 morti. Mai, nella storia dell'Africa, una comunità religiosa aveva subito uno sterminio di tali proporzioni.
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